venerdì 31 agosto 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 6)

Le ore, paradossalmente, più si avvicinava il momento dell’azione più sembravano dilungarsi e protrarsi all’infinito. L’attesa per Arturo stava diventando estenuante. Più ripensava alle varie mosse da tempo pianificate, più gli sorgevano dubbi e la testa si riempiva di "se" e di "ma". Doveva assolutamente sbarazzarsi al più presto di quell’ingombro. In quel momento per la prima volta nella sua vita, stava provando una sensazione strana, fino ad ora sconosciuta. I sintomi che avvertiva erano identificabili con quelli che alcune volte, suoi conoscenti gli avevano descritto ed avevano catalogato con il termine Paura. Miedo. Fear. Cтрах. Furcht. 공포. الخوف. 恐惧. 恐れ.
Molte volte, in troppe lingue aveva sentito pronunciare quella parola e tutte le volte era rimasto del tutto indifferente. Di fronte a Paura, Arturo reagiva come chiunque di noi reagirebbe sentendo pronunciare un termine sconosciuto, nuovo, mai sentito prima d’ora e del quale si ignora il reale e profondo significato.
Adesso, chiuso in quelle quattro mura, rapito da un inconsistente senso di claustrofobia, Arturo avvertiva tutti i sintomi della Paura, ed il semplice fatto di esserne consapevole lo disturbava intimamente. Non lo aiutò la musica psicadelica dei Pink Floyd che utilizzava solitamente come sedativo per l’ansia. Nemmeno ci riuscì la canna di olio d'hashish. Ne aveva rollata una abbastanza leggera per evitare che l’effetto si protraesse troppo avanti nel tempo lasciandolo rincoglionito al momento del colpo. La testa doveva essere leggera e libera da pensieri. Provò a pensare all'inquilina del piano di sopra, quella con due tettone da togliere il respiro. Provò ad immaginarla nuda, come spesso gli era capitato di fare. Niente. Quella sera tutti i suoi pensieri erano catalizzati dal Colpo. Dal Colpo che, comunque fosse andato, in un modo o nel suo opposto, gli avrebbe cambiato la vita.
Arturo non era mai stato dentro, in prigione. Aveva sempre vissuto ben oltre la legalità, sempre sul filo del rasoio. In tutti gli anni di onorata carriera criminale, Arturo era sempre riuscito a farla franca, spesso beffandosi degli stessi tutori dell'ordine. Arturo aveva un eloquio fuori dal comune ed una capacità di persuasione incredibile che, sommati alla sua elegante e distinta presenza, riusciva a tenere lontano da sè qualunque presunzione di colpevolezza.
Più il tempo rallentava, più le sue preoccupazioni si accentuavano. Per quanto riguardava la sua parte era tranquillo e fiducioso. Aveva meticolosamente ripassato tutti i minimi particolari compresa l’espressione e le parole che avrebbe dovuto vomitare alle tre guardie giurate come un sacerdote intento durante l'omelia. Sapeva quale tono avrebbe dovuto assumere e quali gesti accompagnare a quelle parole. La sua parte era perfetta. Ma per quel colpo erano in tre; lui al massimo avrebbe potuto far funzionare alla perfezione il suo terzo di competenza dell'intera macchina. Il resto spettava al Torre ed al Pizza. Al provocatore ed al rancoroso. Ed i dubbi che nutriva in quel momento Arturo riguardavano proprio la loro parte. Non lo impensieriva tanto la manovra di sorpasso che avrebbe dovuto fare il Pizza, elementare, ma il sangue freddo che avrebbe dovuto far seguire una volta bloccato il furgone. Il Pizza sarebbe stato armato e qualunque provocazione o fraintendimento avrebbe potuto far scoppiare un vero casino di sangue e soprattutto mandare a monte l’intero piano.
Il Pizza, anni indietro, nel periodo in cui era nel commercio della cocaina, per un nonnulla aveva fatto fuoco tre volte su due persone perchè convinto, a torto, che lo stessero beffando. Il più sfortunato di quei due si beccò due pallottole in corpo. La prima gli frantumò la clavicola, lacerandogli 5 centimetri di muscoli, tendini ed ossa tra il collo e la spalla lasciandogli uno squarcio rosso e bianco sotto al maglione. L’altra lo trapassò da parte a parte all’altezza dell’addome, trascinandosi dietro parte dell’intestino. Sembrava spacciato ma l’anima, probabilmente, in quel momento non si trovava nè vicino alla clavicola nè vicino all’intestino. Al secondo le cose andarono decisamente meglio anche se, probabilmente, il sibilo della pallottola che gli si fece strada tra le due guancie, portandosi al seguito qualche fila di denti, giunse sicuramente all’orecchio e, senza aspettare troppo, pure al cervello. Si era trattato veramente di una manciata di inutili millimetri e la pallottola anzichè tirarsi dietro denti, saliva e pelle avrebbe sparso tutt'attorno una grigia poltiglia puzzolente, condannando quasi certamente il Pizza alla cattura e dunque all'ergastolo. Se la cavarono alla meno peggio con un calvario di interventi e trapianti vari. Nessuno dei due si dice tornò ad essere quello che era prima. Ma il caos che seguì la sparatoria durò diversi mesi. Nelle centrali di polizia della zona si era già costituito un team per fronteggiare “un’escalation di violenza becera e cieca”, come riecheggiarono alcuni telegiornali nazionali. A quell’episodio non ne fecero seguito altri ed il tutto si risolse con un forzato ritiro del Pizza dal mondo del commercio della cocaina, lasciandolo tossicodipendente e senza un soldo. Questa era acqua passata da almeno cinque anni. Ora il Pizza aveva ridimensionato il suo rapporto con la cocaina ad una semplice relazione occasionale. Ma nella mente di Arturo il semplice sovrapporsi di quell’aneddoto al colpo di quella sera, gli faceva gelare il sangue nelle vene ed aumentare la sudorazione. Il Pizza seguiva l’istinto come un cane da caccia segue la traccia. Senza chiedersi mai un "perchè".
Una volta convintosi della maturità del Pizza, un tarlo nella testa di Arturo traghettava i pensieri al Torre. Il Torre non era certo pazzo come il Pizza ma non era nemmeno così razionale nel prendere decisioni quando, più che la testa, usava le mani. La vicenda che in quel momento turbava i pensieri di Arturo risaliva anch’essa alla gioventù del Torre. Si trattava di una semplice rapina in un Autogrill. Un colpo semplice e veloce. Il Torre, 10 chili più magro, non esitò a prendere a sberle un avventore per il semplice fatto di essersi intromesso tra lui e la cassiera. lo prese per il bavero della giacca e, con un fare holliwoodiano, lo scaraventò di peso contro il frigorifero delle bibite. All'impatto della schiena del tizio contro l'anta del mobile, il vetro andò in frantumi lasciandosi dietro una pioggia di finissimi cristalli ed un tintinnio tendente all'infinito. Tutto questo fece perdere tempo prezioso rischiando l'arrivo della polizia. Tutto finì liscio ma la fortuna non sempre sta dalla tua parte.
Quello che mancava ai quei due schizzati era quello che invece caratterizzava Arturo: autocontrollo e fredda lucidità.
Mancavano solo tre ore alle 03.00, ora in cui la macchina si sarebbe dovuta mettere in moto. Arturo aveva trovato sollievo immergendosi nella vasca da bagno giallognola ed arrugginita che, per tre lunghi anni si era sempre rifiutato anche solo di riempire.
Con l’acqua che gli lambiva la bocca, Arturo teneva le orecchie immerse e gli occhi chiusi. I rumori lenti, metallici, amplificati ed ovattati che percepiva riuscivano in qualche modo a farlo evadere dai cattivi pensieri che, come avvoltoi, stringevano cerchi concentrici intorno alla sua testa come fosse una carogna.
Nelle ore che pecedevano il colpo, Arturo aveva vietato a tutti di mettersi in contatto telefonicamente. Sarebbe stato troppo rischioso nonostante nessuno, oltre a loro tre, avrebbe dovuto sapere del colpo. Alle 03.15, cercando di non dare nell’occhio, si sarebbero dati appuntamento nel parcheggio del cinema Esmeraldo, sulla sinistra del cubo spigoloso di cemento, vicino ai bidoni per la raccolta differenziata. Per evitare problemi legati al trasporto delle armi, la sera prima, fingendo di buttare la spazzatura, il cui ritiro sarebbe stato alle 07.00 del mattino successivo, Arturo avrebbe posizionato, in uno zaino nascosto in un cespuglio, la sua Beretta Modello 92S, la Glock 37 calibro .45 Gap del Pizza, la Steyr M9A1 calibro 9x21 del Torre, la vecchia Skorpion comprata vicino alla stazione scambiandola con qualche dosa di eroina e cocaina, ed i tre passamontagna neri con i fori per gli occhi. Il Torre doveva preoccuparsi invece del reperimento e del trasporto della bombola e della fiamma ossidrica con cui aprire il portellone blindato del furgone portavalori. Quello era un posto di scambisti animato tutta notte ma tranquillo, di cui tutti erano a conoscenza e per questo motivo addirittura sicuro, in quanto tollerato dalla polizia. Solitamente una pattuglia faceva un timido giro nel parcheggio più per far presenza che per controllare e presidiareverso l'una del mattino, dopodichè non ci sarebbe stato più alcuna presenza di polizia. Lì, una volta arrivati tutti e tre, senza nemmeno bisogno di scambiarsi una parola, Arutro sarebbe salito in macchina con il Torre, mentre il Pizza, da solo sull’auto “ariete” si sarebbe messo in marcia verso la statale. Il Torre ed Arturo si sarebbero diretti verso la sede della compagnia di trasferimento di denaro. Quella sera, una soffiata di una vecchia conoscenza, costata 20.000 €, ovvero l’intero patrimonio che i tre erano riusciti a raccimolare in diverse rapine, gli aveva annunciato l’orario di uscita di un portavalori straordinario per le 03.45 ed il suo tragitto preciso sino alla destinazione. Questo “trasporto eccezionale”, gli avevano detto che avrebbe veicolato 750.000€ dal deposito centrale al mercato del pesce, ad una trentina di chilometri dalla città, dove pare fosse programmata un’asta record per aragoste, salmoni e tonni. Una volta visto uscire il portavalori, Arutro avrebbe semplicemente fatto uno squillo al cellulare del Pizza. Questo segnale avrebbe significato
“è partito. Tra 25 minuti sarà da te. Fatti trovare pronto”.
Nei giorni precedenti i sopralluoghi e le prove cronometrate lungo quel tragitto furono diverse e permisero di stimare il tempo necessario per percorrere la tratta dal deposito all’innesto con la statale in 25 minuti. In quel lasso di tempo, il Torre ed Arturo, tagliando per il centro della città, a quell’ora deserta, avrebbero guadagnato una manciata di minuti sul portavalori, anticipandolo di qualche chilometro. Approfittando di quel vantaggio, si sarebbero piazzati sulla strada secondaria, a poche centinaia di metri dall’incrocio, punto in cui il Pizza avrebbe bloccato il portavalori.
In una stradina appartata e sterrata che si immetteva sulla statale, il Pizza avrebbe atteso, prima il transito del Torre ed Arturo che raggiungevano la loro postazione, dopodichè, il passaggio del furgone portavalori. Una volta avvistato, gli avrebbe lasciato qualche centinaia di metri di vantaggio, dunque gli si sarebbe accodato per circa 4 chilometri, sino all’intersezione dell’altra strada secondaria, punto in cui sarebbe entrato in azione e dalla quale sarebbero sbucati con effetto sorpresa il Torre ed Arturo.

mercoledì 29 agosto 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 5)

Arturo, seduto sulla sua poltrona davanti alla porta finestra che da sul viale, faceva seguire allo sguardo i pensieri.
La gioielleria davanti a casa, dove innumerevoli volte si era soffermato ad osservare quell’amato IWC Portoghese cronografo in acciaio, fu la prima cosa su cui appoggiò gli occhi. Non era appassionato di orologi e non ne capiva nemmeno nulla in fatto di meccanismi automatici e cariche manuali, ma il fascino dell’eleganza di quella linea lo rapiva e, come una rapsodia, gli faceva danzare i pensieri al ritmo dei secondi. L’indomani sarebbe entrato e, senza nemmeno volerlo provare, lo avrebbe acquistato. Al polso avvertiva già la pesantezza dell’acciaio del vetro dell’orgoglio e nell'orgoglio provava già la soddisfazione di indossarlo.
Il bar dove lavorava Marina, quella gran passerona che rimbalzava di fiore in fiore, premurandosi di sceglierne uno con sempre più grana. Ma se lo meritava. Aveva quel culetto, non rinsecchito come l’hanno le modelle, ma morbido e sporgente come quello delle brasiliane. Le sue gambe facevano fantasticare anche i vecchietti che le chiedevano un bianco alle 10 di mattina. Il suo viso dolce, gioviale e perennemente sorridente, con quei due occhi verde smeraldo che riuscivano a diffondere buon umore anche nelle giornate uggiose di autunno. Nel giro di una settimana al massimo, Arturo ne era certo, sarebbe riuscito a farla sua, viziandola e riverendola come si deve alle principesse.
Il rivendiotore autorizzato Harley Davidson e Buell, davanti alle cui vetrine troppe volte, come un bambino, Arturo si era perso a fantasticare su quell’incantevole modello di Buell Firebolt XB12R nera e gialla da più di 12.000€. Era un vero piacere per i suoi occhi. Portare al lago Marina con quel mezzo, evitando le code che tormentano e rubano fascino a quei fantastici posti. Anche quella l’indomani non sarebbe più stato un desiderio per lui.
L’agenzia viaggi, dove massimo era andato ad acquistare un biglietto del treno per evitare la canicola estiva in coda alla stazione, pure quella da domani sarebbe diventata il suo punto di fiducia per prenotare i viaggi caraibici che avrebbe finalmente cominciato a fare con cadenza semestrale oppure per prenotare la settimana bianca a cavallo di Natale e San Silvestro.
Arturo, dalla poltrona, aveva un occhio puntato sul futuro. Domani sarebbe stato il futuro. Da domani Arturo avrebbe finalmente garantito il rispetto, che sino a quel giorno aveva sempre negato, a quel suo nome mal sopportato.
Domani sarebbe stato tutto ma prima doveva assicurarsi che tutto, quella sera, filasse liscio come l’olio. L’ingranaggio doveva funzionare alla perfezione ed a quel punto tutto sarebbe andato bene. In palio c’erano un sacco di soldi e la possibilità che diventassero ancora di più. Almeno il triplo.

Solitamente, nelle ore che precedevano un colpo, Arturo si sentiva sempre estremamente tranquillo e confidente nella buona riuscita. Ma fino ad ora, si era sempre trattato di piccole cose, una cassa continua da forzare, un bancomat da far saltare, un distributore self service da convincere a sganciare la grana, niente di più. Il rischio che partisse un colpo da un’arma poteva essere causato solo dalla distrazione o dalla leggerezza con cui la si maneggiava ed al massimo avrebbe determinato una fuga più veloce. Stavolta la possibilità che le armi diventassero necessarie era data quasi per certa. Per la prima volta si trovava ad agire avendo di fronte non macchine sputasoldi bensì persone, guardie. Lui, il topo, si trovava ad avere a che fare direttamente con il gatto. In quella circostanza si sarebbe trovato davanti due occhi, scuri o forse chiari non avrebbe avuto differenza, sarebbero comunque stati pieni di vita ed ofuscati da un misto di desiderio di sopravivenza e terrore. Si sarebbero rivelati esattamente uguali a quelli del Pizza o del Torre, probabilmente addirittura identici ai suoi. Non c’era nessuna combinazione da comporre o bancomat da strappare dal muro, doveva affrontare almeno tre uomini armati e corazzati il cui lavoro consisteva nel prioteggere il trasporto dei valori. I dubbi non mancavano, il rischio era obiettivamente molto alto ma mai, nemmeno per un secondo, la sua testa contemplò un ripensamento. Quella sera, non sarebbe più stato un colpo, ma il Colpo. Se tutto finiva liscio, da quel momento, Arturo si sarebbe trasferito in un’altra città, si sarebbe affacciato ad una nuova vita lontano dalla precarietà generata dai piccoli crimini.
Arturo avrebbe cominciato la sua nuova vera vita. Arturo sapeva nel profondo della sua mente che per un criminale, riuscire a cambiare vita è estremamente difficile, quasi impossibile. Questo lo sapeva bene, ricordando uno dopo l'altro tutti i nomi di suoi conoscenti che comunque ed inesorabilmente erano finiti dentro ed una volta riconquistata la libertà, quasi inconsapevolmente si ritrovavano immersi e trascinati nuovamente nel vortice della delinquenza e della criminalità; l'unico stile di vita che conoscevano e che li avrebbe sempre riaccolti a braccia aperte una volta diventati reietti avanzi di galera.

In quel momento Arturo non era tranquillo come al solito. Il pensiero che gli altri suoi complici potessero commettere qualche cazzata, lo rendeva pensieroso e cupo.
Per la prima volta nella sua vita, avrebbe volentieri chiacchierato con qualcuno, cercando di scaricare parte della tensione accumulata e che adesso cominciava a fargli dolere la testa. Una presenza umana, non necessariamente amica, al suo fianco gli sarebbe sicuramente stata di grande aiuto. Ma Arturo non aveva mai avuto nessuno con cui scambiare 4 chiacchiere od affrontare un tema abbastanza personale da esulare dal tempo o dal carovita, dalla politica o dallo sport. In quarant’anni aveva accumulato emozioni, sensazioni, preoccupazioni e quant’altro sotto uno strato di grigia indifferenza. I suoi stati d’animo, come la polvere, erano sempre stati spazzati sotto il tappeto, nascosti solo alla vista ma mai eliminati definitivamente. Intorno a se, come un artropode, un esoscheletro lo schermava, separando quello che provava dentro di se da tutto quello che invece lo circondava. Niente che lo riguardasse personalmente al punto da toccarlo in prima persona lo preoccupava. Non un terremoto, non la morte di un bambino, non un colpo di Stato od una guerra, riuscivano a rubargli un’emozione. Come la pelle di un pescatore dopo decenni di sole, acqua, sale, vento e solitudine non avverte più la differenza tra una carezza ed uno schiaffo, anche il cuore calloso di Arturo era ormai incapace di reagire a qualsiasi stimolo. Ed anche quando qualcosa lo colpiva in quanto Arturo piuttosto che comune essere umano, in ogni caso la reazione rimaneva celata e nascosta dagli occhi, comunque indifferenti, della gente.

Il colpo, da mesi progettato, era all’apparenza abbastanza semplice da realizzare.
Il Pizza, al volante di un’auto resistente, all’altezza di una strada secondaria, avrebbe dovuto superare un furgone portavalori e, rientrando in carreggiata, tagliargli la strada piazzandoglisi di traverso a pochi metri. In senso contrario sarebbero arrivati il Torre ed Arturo con una anonima ma veloce auto utilizzata come ponte, munita di una bombola d’ossigeno ed una fiamma ossidrica. In pochi minuti avrebbero forzato il portellone tenendo sotto tiro le guardie le quali, assicurate sui furti e rassicurate dalle parole che avrebbe pronunciato Arturo, non avrebbero rischiato la pelle consegnando loro il malloppo. Il Pizza avrebbe messo fuori gioco il furgone e, una volta pronti, tutti e tre, con la macchina procurata dal Torre, avrebbero percorso quei pochi chilometri che li separavano dalla Polo arrugginita di Arutro, precedentemente posizionata in uno slargo vivino ad un campo incolto. Una volta incendiata l’auto rubata utilizzata per la fuga, i tre si sarebbero rifugiati in un casolare abbandonato in aperta campagna, ad una ventina di chilometri, dove avrebbero trascorso qualche giorno in attesa che le acque si fossero calmate.

lunedì 20 agosto 2007

il cane del buon vecchio Colmackie

Avevo innegabilmente assassinato il cane del mio capo. Con sadismo qualcuno potrebbe aggiungere. Ragionevolmente. Non mi ero accontentato di quel piatto arricchito dal cianuro. Gli avevo pure conficcato un paio di dardi sulla schiena in puro stile corrida. E dovevo aver beccato una arteria. Il sangue dipingeva il legno per terra, il bianco alle pareti e le mie scarpe lucide da bowling. Piccole gocce si allargavano sfumate filtrando nell’intonaco. Come una goccia di pittura si sdraia su di una tela tesa.
Il cane ringhiava bava bianca. C’era puzza di vomito e bile. Lo stesso odore di una confezione aperta di fegato di maiale.
Il colpo di grazia glielo diedi con un calcio ben assestato in faccia.
“Stack” La testa gli si girò.
E cadde a terra pesante. Gli occhi aperti guardavano su. La bava andava riassorbendosi nei peli del muso con grumi gialli congiuntivite.
Ci fu un attimo di silenzio. Respirai. I dardi penzolavano senza vita. Stanchi comignoli di stufe inutili. Il sangue non zampillava più forte sui muri. Non era stato un lavoro chirurgico come previsto. Mi ero fatto, per così dire, prendere dal pathos del momento. Calcare la mano. Il cane poi non c’entrava niente. A me Marianna piaceva pure.
“Che macello!” dissi troppo forte per sembrare del tutto naturale. Nei film in questi istanti l’attore guarda la telecamera regalando qualche momento di filosofia spicciola. Tipo frasi da Baciperugina.
Le mie scarpe erano da buttare. E pure i pantaloni.
Respirai a fondo osservando quel casino di peli e sangue che non sarei certo riuscito a pulire. E tanto meno a spiegare.
Mi accesi una sigaretta muovendomi lungo il corridoio. Reinfilai in tasca l’accendino d’oro.
Sul bancone della cucina a pochi passi riluceva una anfora nera. Si specchiava sul marmo scuro del piano. Aveva tutta l’aria di essere un oggetto costoso. I miei passi suonavano sudati sul pavimento in ciliegio. Passai a fianco del vaso ad una distanza reverenziale di svariati centimetri. Lo sollevai tra le mani, specchiai il mio volto nel suo collo allungato. Soffiai fuori il fumo e lo riposi.
“Bell’oggetto” pensai. Come quelle macchine vecchie tirate a lucido che corrono la Millemiglia. Se c’era una cosa che al mio capo non mancava era il buon gusto. Si contornava solo di oggetti belli e spesso unici. Come era stato il suo cane. Come era ancora quell’anfora. Anche le persone che lo circondavano, dalla segretaria ai collaboratori più o meno stretti avevano un bell’aspetto. E questo mi lusingava.
Quando entrai nella Colmackie avevo poco più di ventun’anni, una laurea fresca ed una sfacciata ambizione.
“Rampante, molto anni ‘90” lessi in una missiva privata pervenuta nel 1999 a Colmackie in persona da Stumbeck. Quasi commovente.
Ero nello studio ora. Sfogliavo gli archivi.
Odore di quella polvere sottile che sfugge anche alla più abile donna delle pulizie. Dal colore marrone, magari sfumata in grigio. Quella incastrata nelle piegature delle cartelle di cartone giallo.
Pensare a Stumbeck mi fece sorridere come quando si ricorda una foto scolorita che ci ritrae giovani ed in compagnia di un improbabile amico. Stumbeck era stato il mio capo. Stumbeck aveva posseduto una fortuna di automobili di marca, cristalli, ville in Sardegna e donne bellissime. Stumbeck era tutto quello che volevo essere a ventitrè anni. Cambiai idea l’anno seguente: il 2002.
Il 2002 fu l’anno del mio interessato divorzio da Costanza, la donna della mia vita.
Il 2002 fu l’anno delle mie interessate nozze con Carla, la figlia di Colmackie.
Stumbeck divenne insignificante seduto ad un tavolo, lontano dai festeggiamenti. Si faceva sempre più satellite lasco del sistema solare Colmackie. Distratto dal buco nero della sorte. Ero soddisfatto come il pedone degli scacchi che coglie la regina di sorpresa.
Brindai e lo champagne mi bagnò il polsino bianco inamidato. Altri tempi.
Il sangue che mi imbrattava le scarpe in quel momento anni dopo sembrò per un momento irreale. Le punte su cui cercavo di equilibrarmi disegnavano sbavati sorrisi rossi sul parquet. Sarei potuto scivolare facile.
Prestai nervosa attenzione.
“Quel cazzo di cane! A Colmackie glielo avevo detto: “se vuoi qualcuno che ti sia fedele 10 anni compra un frigorifero”. E lui aveva chiesto a Banny, la sua segretaria cerebrolesa, di invitare Petr dalla Russia”.
Petr possedeva un allevamento in Toscana che frequentava come si fa con parenti: a Natale, a Pasqua e quando muoiono.
Petr arrivò in aereo da Mosca. Si sistemò nella sua stanza poi cenammo assieme. Questi dimostrò particolare abilità nella scelta dei vini provandosi in accostamenti improponibili. Molti prevedevano un qualche tipo di confettura. Rincasammo allegri. Ciascuno con la sua signora sottobraccio. Ero probabilmente persuaso di amare più Carla di Costanza. Sbagliavo.
Il giorno seguente Petr si presentò con un panama e calzoncini corti alla colazione nel parco. Mangiò poco e parlò ancor meno. Ricordava solo vagamente la affabile persona con cui avevamo trascorso la serata. Il naso tagliente ed il mento austero. Passò il pomeriggio in quel risibile abbigliamento misurando la casa e il giardino con un metro. Poi ripartì per Mosca e non ci rivedemmo più. Non mi dispiacque molto.
Il sangue intanto andava marcendo nell’ingresso.
Un mese dopo conobbi Marianna, il cane. Me la presentarono che avevo un completo marrone. Poi mi avvicinai al tavolo bianco disegnato in ferro e colorato da qualche bicchiere che avevo abbandonato poco prima. Gli occhi verdi del pastore tedesco sull’attenti a poca distanza. Recuperai il mio karkadè. Meno rosso del sangue di quella bestia spalmato sulle pareti che in quel momento ripercorrevo con l’apprensione di chi sa di essere spacciato. Lo scalpiccio si faceva più bagnato e confuso. Probabilmente sudavo. Non avevo trovato il mio taccuino nello studio assieme a tutte quelle inutili scartoffie.
Rassegnato quindi mi feci raccomandare da un amico un cinese per rassettare tutto quel casino.
Devo ammettere che fece un ottimo lavoro.
Il vecchio Colmackie, il suo cane ed il mio taccuino non saltarono mai più fuori.

lunedì 13 agosto 2007

accadimenti veramente tragici

Accadde che Lucio morì a ventidue anni. Inaspettatamente.
"Troppo giovane" disse il vecchio Gino. Altri gli fecero il coro. In paese sembravano tutti d'accordo, per la prima volta.
Il Bonzi e la Giuseppina, il vecchio Gino e l'infingardo Stefano, il ribelle Tony e la gang dei metallari. Sembrava un piatto agrodolce. Impossibile. Di quelli dagli accoppiamenti sofisticati. Tutte le facce tese, piatte e vagamente tristi dietro la telecamera mormoravano. Luisella piangeva. Gli occhi arrossati come nelle giornate di vento affrontate in bicicletta, la schiena sudata e la maglietta appiccicata. Era stata la fidanzata del suddetto (e peraltro defunto) Lucio ed ora era improvvisamente al centro dell'attenzione. Tutti volevano dirle una parola di conforto, darle un abbraccio. Pensò per un istante alla sensazione della vincitrice di miss Italia. Poi si scosse. Come fanno i cani per asciugarsi. La sua coda bionda dipinse un morbido semicerchio nell'aria. Era indiscutibilmente bella. Qualcuno si allontanò, altri arrivarono.
"Via, via, lasciatela respirare" disse il fratello prendendola sotto braccio spingendola verso casa.
Si muovevano diagonalmente. Franco la trascinava letteralmente. I muscoli del collo tesi. Sudore.
Lei non ricordava più bene perché fosse uscita. Sembrava tutto lontano come fosse sempre stato così. Immobile.
"Ho sentito le sirene" ricordò.
Il fratello non rispose. Avrebbe voluto portarla via. Nel tempo e nello spazio. Come in ritorno al futuro. Calciò la porta di casa ed entrarono.
La madre portava un infuso fumante. Fuori c'erano 35 gradi ed in casa non si stava molto più freschi. Era tuttavia l'unica cosa che le era venuto in mente di fare mentre il fratello correva a recuperare Luisella. Carla con suoi 53 anni non si era mai sentita tanto inadeguata. Guardava la tazza nelle sue mani. Ceramica sottile e bianca ornata da ripetitivi disegni di un ragazzo con un cappello di paglia ed una anatra in mano. Odore di infuso ai frutti di bosco. Colore rosso non troppo rassicurante. Lo appoggiò sul tavolino basso davanti al divano ed alla figlia. Si raffreddò nei singhiozzi di Luisella. La televisione era accesa ma senza volume.
"Voglio morire" le uscì dalle labbra salate dalle lacrime.
E Dio misericordioso la accontentò.