martedì 26 ottobre 2010

Noccioline

Anche quella sera a cena avevo la mia busta aperta di arachidi tostate davanti. In quel periodo vivevo in uno di quegli ostelli con la cucina in comune. Una sistemazione necessariamente minimalista e sterile. Il frigorifero era diviso in scompartimenti numerati e chiusi con un lucchetto che mi ero dovuto comprare. Il mio scompartimento aveva un numero 7 nero disegnato con del nastro isolante. Sapeva di Amuchina e dentro non c’era molto spazio ma io mi accontentavo di poco. L’importante era avere qualcosa da raccontare. Ed era questo che facevo tutto il giorno oltre al lavoro in magazzino: raccontavo storie. Passavo ore ad inviare mail. Avevo anche ripreso a parlare con Stefania tanta era la mia urgenza di comunicare. Mi sembrava che se non avessi preso appunti tutto quel periodo sarebbe stato effimero come il ricordo di un sogno che si fa sfuggevole fino ad evaporare con la giornata travisato dal sapore indeciso degli impegni.
Sabrina era felice delle mie mail. Mi rispondeva sempre, era una certezza. Era bello saperla lontana. Era tranquillizzante come i genitori in riva al mare che mi guardavano nuotare da bambino. Mio padre aveva le mani sui fianchi. In quel momento mi sembrava avesse tenuto quella posizione rigida tutta la vita. Senza spostarsi un minimo. Indifferente all’erosione del tempo.
Mio padre si era limitato a dire “buon viaggio” quando sono partito. Mi aveva abbracciato e lasciato 150 euro in contanti. Ricordo l’odore di colonia ruvida come la sua barba che ricresceva.

Quella sera Sarah aveva riso guardandomi ancora una volta mangiare noccioline. Mi aveva chiesto se era tutto quello che mangiavo. Avevo risposto di non aver voglia di altro. Lei aveva sorriso ed era tornata ai fornelli dove la sua pentola bolliva pasta scotta. Sarah veniva da Colonia, era arrivata poche sere prima e presto se ne sarebbe andata. Avrebbe trovato casa per i mesi successivi che doveva passare a Madrid e poi avrebbe terminato la sua laurea in Pedagogia in Germania. Negli appunti che raccoglievo per parlare di lei le frasi iniziavano con mi piacerebbe e vorrei. Di certo non erano adatti per la mail che volevo spedire a Sabrina. Magari ne avrei parlato con Carlo. Avrei aggiunto che aveva una maglietta azzurra e la portava disinvolta senza reggiseno, che passava i pomeriggi al parco a leggere libri spessi e che sapeva di sapone di Marsiglia.
Quella sera però non riuscivo a dirle niente. Mi aggrappavo alle frasi di circostanza che conoscevo felice del fatto che è più facile comunicare quando non si conosce bene una lingua comune poiché ognuno capisce ciò che vorrebbe sentirsi dire. E generalmente all’estero ci si sente più soli al punto che finimmo a bere le poche birre che ero riuscito ad incastrare nella mia porzione di frigorifero nel patio. C’era un tavolo di ferro verde e delle sedie in stile traforate da miliardi di buchi che sembrava avessero un senso. Sopra c’era il cielo. Un cielo vivo che mi sentivo di viverci. A milioni di anni luce dalla realtà. Dalla preoccupazione di non sapere cosa sarei diventato.

Poi è successo che sono diventato uno stronzo come gli altri e Sarah è rimasta solo un racconto che parla di noccioline.

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