giovedì 30 dicembre 2010

Kubla Khan

Ti rendi conto che vai sempre più avanti. Sempre più oltre. E cosa cazzo importa? Cos’è quella sensazione del freddo che sbatte sul cofano della tua auto sopravvalutata per la quale non hai voluto sentire ragioni ne argomenti? Hai sottoscritto un finanziamento che ora ti schiaccia con l’incombenza della maxirata finale. E hai il suono del caffè ancora nelle orecchie più del suono di lei che ti saluta con una guancia ancora schiacciata sul cuscino. Con un solo occhio che prova di tenere aperto. In mezzo a questo blu tagliente da mattina invernale. Pensi ai cuochi giapponesi che tagliano il sashimi quando è bello freddo, quasi congelato, per fare delle fette sottili. Con l’odore di pesce fresco che rimanda al mercato sul porto di Cervia. Quello dove passavi tante volte in bicicletta senza fermarti, lanciando solo un’occhiata a quella barca ancorata che sembrava un galeone dei pirati. Uguale a quello della Lego che avresti tanto voluto un Natale di troppo tempo fa per contestualizzarne gli anni. Diciamo che andava di moda più o meno la stessa musica di merda che si ascolta adesso. E gli occhiali dalle montature ingombranti dai colori notevoli. La marca sempre quella: Ray Ban.
La porta dell’ufficio si apre senza grosse difficoltà e dentro fa più freddo che fuori. la domanda “cosa ci faccio qui?” ormai hai smesso di portela. Ciononostante non fai carriera, anzi, retrocedi avanzando con gli anni. Presto ti supereranno i tuoi cugini che la camicia non la portano solo nelle occasioni importanti. Che sanno perfettamente la loro misura di collo e taglia di pantaloni. Che fanno acquisti per coniugare l’essere con il sarò. Non come te che cerchi di sfuggire meglio che puoi dal freddo dell’Alaska. Quel freddo che fa i salmoni rossi, quelli che costano di più alla Coop. Quelli che quando li compri cerchi sempre la commessa più attraente e ci infili una bottiglia di vino che sembra decente. E paghi con la carta di credito che ti ammazza ogni 15 del mese, lasciando piombo nella boccata d’aria dell’ultima busta paga.
Il computer fa il solito suono di avvio che ti graffia dolce arpionandoti la schiena giù, verso la sedia finta imbottita. Consumata per te da chi ci sedeva prima che ha avuto le palle di alzarsi ed andarsene. Ma a te poi checcazzo te ne frega? Basta che passi questo freddo che ti congela anche le scarpe scamosciate estive ai piedi e basta avere la tua cazzo di idea geniale che sembra quasi ti l’abbia dimenticata in un’altra vita. Come quando si dimenticano le chiavi nell’altra giacca. Proprio uguale. Solo che quella giacca mi sa che te l’ha inculata qualcuno di meno scemo. Quindi batti sui tasti ed aspetti le sei. Come se tutto quello che scrivessi avesse un senso e non fosse semplicemente la cronaca di un aperitivo di vino allungato aspettando che il ristorante giapponese porti il tuo piatto di sashimi misto.
E poi un attimo, hanno suonato alla porta.

venerdì 24 dicembre 2010

Appunti che c’entravano col Natale e mi sentivo proprio di renderli pubblici

Al telegiornale ti spiegano che gli italiani preferiscono regali tecnologici. Roba di elettronica. A supporto della tesi c’è un bambino in un supermercato con una giacca aperta che lascia intravedere una sciarpa rossa ed una felpa con il disegno di Snoopy. Il bambino dice che quest’anno da Babbo Natale vuole una playstation. Dice che quest’anno è stato buono. E la madre lo conferma ad un intervistatore freddo chirurgico, professionale. La madre diciamo che è Uma Thurman in Kill Bill con un giaccone lungo in lana al posto della tutina gialla. Ha un sorriso da caminetto acceso ed albero addobbato con sobrie palle dipinte a mano.
Fuori ancora non nevica, c’è solo un freddo gesso che gratta su una lavagna.
In cucina tua madre ascolta la radio mentre sistema il vassoio degli antipasti.
Tuo padre è uscito da poco.
Intanto passa la pubblicità, ciononostante non cambi canale. Sei narcotizzato in quel limbo soffice e superficiale di consigli per gli acquisti e facili comportamenti stereotipati. Roba da totalitarismo, roba da non sentirsi imbarazzati quando si incontra qualcuno che non vediamo da un po’, roba che basta ripetere Buon Natale. E poi un sorriso. Sembra tutto così semplice che quasi dimentichi le incombenze e le bollette in sospeso dell’appartamento che dividi con Carlo. Ed il tuo lavoro di merda. E pensi ad altro. A Francesca più che altro, alla tua casella mail ancora vuota. E pensare che sei qui per colpa sua. Incastrato nella commedia del Natale in famiglia che si ripete pressoché invariata assieme alla Fabbrica del Cioccolato e Una Poltrona Per Due. Ogni tanto qualche nuovo personaggio si affaccia anche ma ha la consistenza della musica in filodiffusione nei supermercati. Ed il tuo interesse è per quello che hai nel piatto e nel bicchiere. Sarà anche perché le tue cene sono sempre più spesso fatte di surgelati ed aperitivi: retaggi dell’istinto alla sopravvivenza.
Cerchi nel telefono il numero di Francesca ma poi la linea torna allo studio e quello che hanno da dire in televisione è sicuramente più interessante di una spezzata conversazione natalizia con una ragazza che, esclusa la mail che ti ha mandato pochi giorni fa, non senti da anni.
Mentre la giornalista ti racconta le mete più gettonate per la settimana bianca ti arriva l’odore del brodo.
Ti ricorda che in fondo va bene così.
In fondo è Natale.
(E probabilmente Francesca sta scopando con qualcun altro)

martedì 14 dicembre 2010

Una triste storia... Berlusconi è niente al confronto

Solleticarmi con le dita le narici e frugarci dentro con selvaggia energia è sempre stato un piacere per me. Non solo in tenera età. Certo, con il tempo, quello che era iniziato come un innoquo passatempo si era trasformato in una vera e propria manìa. Anzi, ossessione è la parola corretta. Una strana forza magnetica attraeva le dita allle narici come la musica ipnotica di un flautista indiano richiama la testa del Cobra. Poi il naso ha cominciato a crescermi e le dita a farsi troppo esili e corte per raggiungere il piacere che provavo una volta ficcandomele tutte ben dentro. Così mi sono ritrovato un giorno, senza quasi rendermene conto, con un tratto pen rosso nel naso. Quale delizia riscoprire quella piacevole sensazione di un tempo... E in men che non si dica i tratto pen sono diventati prima due e, dopo poco, addirittura tre. Per narice, s'intende!
Farmi vedere in pubblico, intendo a frugarmi nelle narici come una ragazza fruga nella borsa in cerca delle chiavi del motorino, non mi metteva assolutamente a disagio. Era naturale. Lo facevo con estrema disinvoltura. Sul tram, in metro, in coda alle Poste, alle casse della Lidl, ovunque. O-V-U-N-Q-U-E. Anche al lavoro spesso non resistivo al desiderio di frugarmi le narici con le matite e le penne colorate che trovavo sulla scrivania e, pianin pianino, mi scivolavano inevitabilmente su per le narici.
Ho iniziato il mio percorso per smettere di mettermi le dita nel naso quando un giorno, per puro caso, il mio capo è entrato di soprassalto nel mio ufficio e mi ha beccato con tre tratto pen nella narice sinistra e due in quella destra, con la faccia estasiata. E si è incazzato. Si è incazzato maledettamente, al punto da intimarmi con voce perentoria che mai penso fosse uscita dalla sua bocca prima di quel momento: "sei licenziato. Non ti pago per cospargere di muco e caccole le penne dell'ufficio". Ho cercato di spiegargli mentre mi sfilavo uno a uno i tratto pen che non era quello il mio intento: farmi pagare per infilarmi le dita nel naso. Ho provato in ogni modo a togliergli quel triste pensiero di me, ovvero che fossi uno scansafatiche amante del fisting nasale. Ma non c'è stato niente da fare anche perchè forse, effettivamente, io lo ero un maledetto amante del fisting nasale! Ma d'un tratto qualcosa è cambiato. In un attimo una lama di luce ha tagliato orizzontalmente i miei pensieri. Un brivido mi ha percorso la schiena proprio mentre ero davanti al mio capo. Avevo preso per la prima volta consapevolezza della mia manìa. Della mia ossessione. Allora non ho trovato alternativa. Da sotto la scrivania ho istintivamente preso le forbici dal cassetto e, mentre lui mi fissava con gli occhi pervasi dalla delusione, mi sono tagliato tutte e dieci le dita delle mani. Gliele ho mostrate ancora grondanti di sangue dicendogli: "vede, mi deve credere, le dita non mi servono più. Ho deciso di smettere... non mi infilerò più niente nel naso, a partire dalle dita... che non ho più".
Ma niente. Irremovibile. La sua convinzione era più forte di qualsiasi mio tentativo di spiegazione. Cemento armato. Le mie parole svanivano sulla membrana fonoassorbente che foderava i suoi timpani con la stessa velocità con la quale i poveri moscerini si spiaccicano sul parabrezza di una macchina sportiva giapponese lanciata a tutta velocità su Viale Tibaldi alle tre e mezzo di una notte afosa d'estate. Infatti, dopo tre minuti mi si è presentato con una lettera di licenziamento da firmare. Non sapevo come farlo non avendo più un solo dito disponibile. Così mi sono preso una penna tra i denti e ho scarabocchiato in qualche modo la mia lettera di licenziamento con l'amaro in bocca. Forse anche quella penna prima era stata speleologa nelle mie narici e il sapore che ora avvertivo sulla lingua ne era solo una triste conferma.
Mi hanno passato una pensione di invalidità e la promessa di un lavoro in quanto categoria protetta. Prospettiva più rosea di quanto potessi immaginarmi. Dopotutto ho scoperto che le mani sono un pò sopravvalutate. Non sono poi così indispensabili nella vita. Quella voglia però non mi aveva ancora abbandonato del tutto.
Per il lavoro non c'era problema, sarebbe arrivato sicuramente ma se mi volevo trovare una ragazza non potevo certo continuare ad avvertire quell'istinto di autosoddisfazione nasale. Ormai avevo trent'anni. Mi sembrava giunto il momento di impormi con ferrea volontà sui miei istinti per non correre il rischio di passare per un malato di mente con il risultato che nessuna mi avrebbe filato nemmeno di striscio. E mia mamma avrebbe dovuto continuare a sopportare la felicità delle sue amiche che raccontano le gioie di figli sposati. Quindi ho deciso di smettere. Definitivamente.
Ma è dovuto trascorrere ancora un mesetto da quel giorno prima che, non dico sparisse, ma almeno si alleviasse il desiderio di stimolarmi le narici. Proprio come quando si decide di smettere di fumare. Uguale: c'è l'intenzione, poi viene lo sforzo e, alle volte, alla fine si ha il risultato. Quindi ho messo qualche annuncio in internet del tipo: "ragazzo romantico cerca ragazza disponibile" o "ragazzo serio cerca ragazza disponibile".
Inspiegabilmente le ragazze rispondevano all'annuncio con una velocità sconcertante. E finchè le ragazze accettavano di venire a casa mia non c'era problema di alcun tipo. Nessuno strano desiderio mi pervadeva in loro presenza. L'unica volta che mi ritrovavo a pensare all'esplorazione nasale pur restando chiuso dentro casa era durante i rapporti sessuali. Esatto, poprio mentre le scopavo. Ma penso fosse normale data l'analogia dei due atti; dopotutto qualcosa entra da qualche parte ed il risultato è più o meno lo stesso: piacere. Quando invece m'è toccato uscire (intendo camminare in centro per andare al cinema o al ristorante) con alcune di loro, ogni volta era una sofferenza disumana resistere al desiderio di infilarmi qualcosa nel naso. La tentazione era sempre e ancora troppo forte. Non vedevo rami che si sporgevano dalle piante ma enormi e gustosissimi cotton fiock nasali. Le antenne delle automobili parcheggiate in doppia fila erano invitanti dita androidi con cui grattarmi il setto nasale dall'interno. Per non parlare dei freni delle biciclette legate ai pali... Che dolorosa costrizione resistere a questi inviti.
Così una sera dopo essere rientato a casa dopo una passeggiata con Puffetta84 (questo era il suo nickname) ho preso la decisione di eliminare il problema alla radice, o meglio, alla narice. Ho preso un cutter dalla valigia degli attrezzi acquistata all'Ikea nella giornata più difficile della mia vita e, stringendolo tra i moncherini, mi sono tagliato via il naso. Di netto. Come Van Gogh anche se lui lo ha fatto con l'orecchio.

Nel secondo pensiero di questo racconto ho scritto innoquo con la q. Ebbene, so che è scritto sbagliato. Correttamente sarebbe innocuo. Perchè l'ho fatto? Perchè è quasi Natale e volevo farvi un regalo. Già, proprio così: un regalo. Per qualche effimero minuto vi ho regalato l'illusione di essere grammaticalmente migliori di me.