mercoledì 26 gennaio 2011

Ho trovato una lettera che non ho mai spedito

Un ronzìo simpaticamente fastidioso che da qualche mese mi disturba i pensieri. La voce di un vecchio frigorifero che mi accompagna durante la mia pallosa quotidianità. L’effetto è lo stesso di quelle volte in cui, davanti ad una definizione dei cruciverba non viene la definizione corretta ma si continua a pensare e ripensare, diventa quasi una sfida intima, personale che non si vuole a nessun costo perdere, una vera a propria ossessione. Un giorno ho così deciso di scommettere con me stesso che se fossi riuscito a trovare uno straccio di contatto, foss’anche si fosse trattato di riprendere carta e penna, allora le avrei scritto. La mia scarsa propensione al rischio mi porta spesso a scommettere con me stesso; tutto sommato, anche in caso di sconfitta il rischio è limitato.
Quindi ho cominciato la ricerca digitando semplicemente quello che ricordavo del suo nome. Un nome, il suo, che sinceramente ho impiegato un pò a ricordare nella sua corretta forma, “Mario Rivieri o forse Mario Riveri o ancora Mario Rivera... certo è Mario”! Poi, per fortuna o meno dipende dai punti vista, la tecnologia al giorno d’oggi rende tutti reperibili o rintracciabili; quello che serve è semplicemente una buona dose di volontà e motivazione. Giusto per fare un esempio, 9 anni fa durante una vacanza estiva in Francia mi “innamorai” di una giovane ragazza del nord della Francia, di una cittadina vicina al confine col Belgio. Trascorremmo intense e magnifiche giornate insieme cercando di fuggire, per quanto possibile, il pensiero dell’imminenza inevitabile del farewell time, che puntualmente si presentò e noi non lo facemmo attendere. Ci scrivemmo, come capita a caldo, i nostri ricordi e man mano che il tempo trascorreva e li sbiadiva, anche la nostra corrispondenza scemava in intensità e regolarità sino al giorno in cui cessò. Per farla breve, visto che non le stò scrivendo alla ricerca di una soluzione a questioni sentimentali, un paio di anni fa decisi di fare una capatina, durante il mio periodo di ferie, in Bretagna e Normandia. Sfogliando la mia guida Routard e studiando la cartina del nord della Francia, mi passò sotto agli occhi un nome di città, Lille, alla quale erano legate molte istantanee della memoria ed un solo nome e cognome chiaro e musicale come solo quelli francesi sanno esserlo. Beh, fatto stà che tramite internet sono riuscito a rintracciarla e, lieto fine, qualche settimana dopo ci incontrammo nell’atmosfera surreale della splendida cittadina di Ruen.

Scusi la divagazione ma ho una forte capacità di deconcentrazione.
Mi sembra almeno doveroso presentarmi.
Sono Massimo Velasco, un suo studente al Petrarca di… diciamo qualche anno fa; ad occhio e croce direi che sono circa 11 gli anni trascorsi dalla maturità. Ero uno di quegli studenti che solitamente nessun professore si ricorda in quanto, utilizzando un termine che odio ma rende, ero semplicemente normale: non uno di quelli ricordati con intellettuale affetto in quanto promesse con un’ipoteca sul futuro del sapere e nemmeno uno di quelle simpatiche canaglie che rimangono comunque impresse nei ricordi per le marachelle combinate ed il clima allegro e spensierato regalato alle ore di lezione. Ero semplicemente uno dei tanti, uno di quelli che ha tratto dal liceo quello che riteneva essere bene ed utile apprendere per sé. Uno di quelli del “qui ed ora” e “del poi si vedrà”. Un diciottenne con la testa infarcita dall’anti-mito americano dei grandi beat, quelli visionari alla Ginsberg, caleidoscopici alla Corso, camminatori pieni di un solitario carisma alla Kerouac o ancora dal nichilismo menefreghista bukowskiano, del surrealismo di milleriano e dalla distesa rilassatezza che solo la semplicità narrativa di Fante sa regalare. Le orecchie ripiene di Doors, Lou Reed, Pink Floyd ma anche Guccini, Lolli, Bertoli, De Gragori, De Andrè… I pensieri traboccanti illusioni, utopie e l’anima desiderosa di una libertà alla “come la intendo io”. In un certo senso, un utilitarista spesso opportunista, quasi mai in prima linea, spesso e volentieri mai presente per un eccesso di autostima e di senso di superiorità. Un pesce d’acqua salata costretto a sguazzare in un melmoso fosso della bassa padana è la definizione che davo di me in quel periodo. Poi ci sono stati i fantastici anni di Scienze Politiche a Bologna, che ancora ora porto tatuati nel cuore. Quegli anni dall’agrodolce sapore delle lunghe manifestazioni, delle infinite discussioni più o meno alcoliche sui massimi sistemi, delle tanto inutili quanto infiammate disquisizioni alla ricerca di veri ed eventuali motivi per fare la rivoluzione (la nostra ovviamente!), le prove d’estensione degli orizzonti della mente, l’approfondimento e il radicamento di un amore viscerale per la letteratura e per l’arte, le mostre, i concerti, le feste, il tutto condito dalla splendida onnipresenza di magnifiche creature nella massima espressione della propria bellezza. Che anni!
Poi il master in Gestione delle Risorse Umane forte della convinzione che “se qualcosa si può cambiare o almeno migliorare è solo dalle persone che si può comincare”. Dunque l’immediato, allo stesso tempo, atteso ed indesiderato ingresso nel mondo buio, grigio e cupo del lavoro. L’esodo dai posti in cui dopo 6 anni non ti senti mai solo, dagli amici con i quali hai condiviso molto o forse tutto, da uno stile di vita che per anni mi ero pazientemente cucito addosso e del quale andavo (e tuttora vado) fiero. E infine l’approdo, da naufrago, in un mondo anni luce lontano dal mio. Milano. Gente che pensa di brillare di luce propria, che fa a gara cercando di abbagliarti più degli altri, falsi miti, il dio denaro, l’essere forzatamente alternativi ed originali, set cinematografici, scenografie e personaggi al posto di luoghi reali e persone vere. Un lavoro in giacca e cravatta dove a 25 anni ti danno già del “lei” in cui tutto è governato da stupide regole, da asettica ed inutile disciplina e dove, ovunque, manca l’unicità della personalità ma soprattutto la delicatezza del senso di umiltà. Un posto in cui il lavoro ti permette di essere qualcuno e per questo deve venire prima di tutto. Vivere per lavorare, l’esatto contrario di quello che ho sempre pensato del lavoro e Milano l’antitesi della mia idealtipica concezione del mondo…
Ochei, scusi ma mi sono lasciato prendere la mano… Sono in un bar melodrammatico di periferia dove anche le pareti, oltre agli avventori, sono intrise di malinconia, tristezza, rimpianti e wisky. Vengo spesso in questo buco finito il lavoro per stare un pò in pace con me stesso e fare il punto della situazione guardandomi dritto negli occhi. Non è mai un esercizio facile, tutt’altro. Comunque sia, banalmente, le sto scrivendo per ringraziarla. Deve sapere che, anche se in silenzio, ho sempre provato una grande ammirazione e stima nei suoi confronti, oltre che come professore (geniale), soprattutto come persona. Già, proprio così, la voglio ringraziare per tutto quello che mi ha trasmesso a livello umano.
Concludo questa lettera confessandole che sono contento di averla incontrata tanti anni fa e di essermi tolto questo "peso" oggi.
Tutto qua...

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