domenica 28 ottobre 2012

Ottobre



Tutto quello che ha rappresentato ottobre per me sono i vestiti stesi in casa che non si asciugano, le giornate che si accorciano al punto di suicidarsi nell’esatto momento che esco dall’ufficio e lo sfumare della frenesia che accompagnava settembre. A ottobre va bene non avere sogni e rassegnarsi alla quotidianità. Sopravvivere mentre fuori dalla finestra le foglie muoiono e i davanzali lentamente si spogliano dei vasi. Ottobre sa del fuoco spento con una secchiata d’acqua fredda.
Ottobre è il vino rosso in bicchieri puliti alla meno peggio che incorniciano un pomeriggio che confina con la notte. È il mercato che chiude prima senza una ragione precisa lasciando la sua eco di confezioni rotte e cartoni spaccati con le bocche spalancate a guardare su. Sono le auto con i motori spenti che aspettano ad un passaggio a livello. È quella sensazione di incompiuto che ci rimane nello stomaco dopo un incontro fortuito. È il nostro stupore nel renderci conto che questi giorni di sughero bagnato finiscano così.
Però li lasciamo finire così.

mercoledì 17 ottobre 2012

Chi beve birra campa cent'anni

All’ufficio postale mi siedo accanto ad un tipo sulla quarantina con la barba di una settimana e i capelli arruffati che sembrano un nido d’aquila. Con una giacca in feltro che ha visto tempi migliori e una camicia a quadri da taglialegna canadese, sacco informe verde militare vicino ai piedi, se ne sta immobile in silenzio piegato su un saggio dalla copertina ingiallita. Non so perchè ma da dentro lo stomaco mi sento torcere qualcosa. E’ la stessa sensazione che si prova nella prima fase dell’innamoramento ma in cuor mio ne riconosco una natura completamente diversa. Gli do un colpetto con il gomito per richiamare la sua attenzione e senza nemmeno rendermene conto gli sto già chiedendo “non è che per caso ha insegnato matematica all’Università di Berkeley dal 67 al 69?”.
Serafico alza gli occhi dalla pagina per stamparli sui miei. Mi sento addosso un peso insopportabile. Dopo una pausa di qualche secondo, senza nemmeno un filo di voce o un cenno del viso, torna ad immergersi nella sua lettura.
A quel punto cerco di allontanarmi da quel posto il più velocemente possibile. Sgomito
per raggiungere l’uscita facendomi largo tra la folla scomposta che scocciata mi lancia sguardi incendiari.
Mi fiondo dentro il primo bar che incontro. E' il classico buco lercio di città con le perline scure fino a metà parete, pubblicità di bibite di qualche decennio fa e puzza di aria consumata. Cerco di sbarazzarmi del pallore della mia faccia prendendo una boccata d’aria e infine ordino una birra fresca al cinese senza età dietro al bancone. 

Tiro un sorso di qualche secondo e aspetto pazientemente che una detonazione spaventosa spazzi via qualsiasi cosa si trova nell’arco di una decina di metri intorno all’ufficio postale. Poi si creerà un formicaio di persone intorno all’edificio, da lontano le sirene annunceranno l’arrivo dei Vigili del Fuoco, della Polizia, delle ambulanze, forse dell’esercito e sicuramente un capannello di giornalisti farà a gara per contendersi le prime testimonianze filmando il dramma riflesso negli occhi dei superstiti.
Mi ritrovo a chiacchierare con non-so-chi seduto a un tavolo malfermo con un pezzo di cartone sotto una gamba e una selva di bicchieri vuoti sopra. Ormai si è creato un clima molto familiare intorno a me: uno fuma un filtro di sigaretta spandendo in ogni dove odore di copertone bruciato
fragandosene bellamente del divieto alle sue spalle, un altro sta buttato con la testa sul bancone e le braccia penzolanti nel vuoto in attesa che San Pietro gli dia un calcio nel culo per spedirlo all’inferno mentre altri due loschi individui si ostinano a volermi coinvolgere in una questione che non riesco nemmeno a mettere a fuoco.
Mi caccio in gola l’ultimo sorso di birra rimasta nel bicchiere e fisso il soffitto per qualche minuto. Le pale immobili di un ventilatore secolare si piegano sotto il peso di troppa polvere e una macchia di umidità disegna una lingua di lava che scende fino a metà parete per poi nascondersi dietro il legno gonfio. Una luce al neon dolcemente tremolante ci piove addosso come nebbia leggera mentre un odore di cibo cinese si mischia all’aria viziata del locale.
Mi infilo una mano in tasca e, come dalla cesta di una riffa di paese, estraggo una mezza dozzina di bollettini postali non pagati. Pessima pescata! 

Butto gli occhi oltre l’unto della vetrina e scopro che la notte è calata sulla città. Schivo i fanali delle auto scintillanti che si rincorrono sul viale e arrivo a mettere a fuoco l’ufficio postale perfetto e completamente integro dall’altro lato della strada. Deduco che non c’è stata alcuna detonazione. Nessun attentato dinamitardo ha spazzato via quel maledetto ufficio e tutto quello che ci stava dentro.
Probabilmente si è inceppato l’innesco, oppure l’umidità ha bagnato l’esplosivo o ancora l’attentatore si è ricreduto e ha deciso di non compiere più quel gesto ignobile che aveva programmato. 

Il mio alibi pian piano inizia a perdere pezzi strutturali e comincia inesorabilmente a sgretolarsi. So con certezza che di quell'alibi in pochi secondi non mi resterà che un cumulo fumante di niente.
Fatto sta che la birra è nuovamente finita.
L’orologio impietoso mi scarica addosso tutto il peso delle undici di sera. Nella testa mi si aggrovigliano covoni di prospettive nefaste complicando la situazione e moltiplicandomi i sensi di colpa. Provo a ragionare per trovare una soluzione ma nella mia testa i pensieri si rincorrono senza arrivare da nessuna parte.
Sono in giro dal pomeriggio per pagare bollette, multe e l'iscrizione ad un cazzo di esame di stato ma dopo sette ore, come del resto negli  ultimi trent'anni, non ho concluso nulla. Niente. 

Il mio sguardo si muove spasmodicamente per tutto il locale in cerca di una via d’uscita, di un appiglio. Il terreno sotto i piedi comincia scottare, poi a tremare e infine si crepa lasciando che un abisso spalanchi le sue fameliche fauci in attesa di inghiottirmi. 
Non ho mai creduto nei Supereroi ma adesso è giunto il momento di cominciare a farlo. Non mi resta altro che sperare nell’intervento di uno di loro, uno qualsiasi; mi basta solo che abbia dei maledetti superpoteri in grado di portarmi fuori da queste sabbie mobili affamate.
Quando la porta del bar si apre un refolo di aria gelida si insinua nelle mie ossa lasciandomi addosso un capotto di brividi. Istintivamente alzo le spalle come per proteggermi da un freddo polare improvviso.
Qualcuno si avvicina al banco e con un filo di voce ordina un Wild Turkey, doppio.
Molto cinematografico, lo ammetto.
Sento dei passi avvicinarsi alle mie spalle. Sono suole di gomma ormai talmente secche che fanno, sulla vecchia graniglia del pavimento, lo stesso effetto del cuoio. La vagonata di birre di questa serata mi offusca la vista e mi irrigidisce l’udito. Avverto però nitidamente l’odore fresco di resina e aghi di pino del Montana inebriarmi le narici. Posa un sacco verde militare, prende la sedia accanto a me, si toglie platealmente la giacca in feltro e l’appende allo schienale prima di lasciarsi cadere pesantemente. Si porta il bicchiere alle labbra e ne prende un piccolo sorso assaporandone l’aroma. Non gli lascio il tempo di portare a termine la sua recita perchè ho un fardello di problemi sulle spalle e una gran fretta di uscire di scena.
Mi alzo un pò malfermo sulle gambe e, minacciandolo con un indice inquisitore che non mi appartiene, ho appena il tempo di sbrodolargli addosso qualcosa del tipo Theodore John Ted Kaczynski, maledetto montanaro luddista dei miei stivali, oggi hai fatto l’errore più grosso della tua vita ma credimi, te ne pentirai.
Poi le palpebre calano sui miei occhi come un pesante sipario mentre le luci si abbassano celebrando la fine dello spettacolo.

sabato 13 ottobre 2012

Al ristorante con Anne Hathaway


Quella sera al ristorante c’era molta gente. Sembrava quasi impossibile. Ci siamo seduti timidi come due vecchi amici che non si vedono da troppo tempo. E abbiamo aspettato che ci portassero da bere.
Tra le chiacchiere ed i piatti la sala aveva l’odore della cucina tipica e delle domeniche in famiglia. La luce accarezzava l’atmosfera con le sfumature della seta d’estate e dei petali di una grossa rosa sanguigna. L’aria sembrava avere una consistenza morbida e piacevole. E lei era bellissima dentro quel vestito da sera scollato che non aveva mai osato mettere. Lo spacco le scopriva le gambe da sopra il ginocchio. Mi immaginavo in una canzone di Barry White.
Solo dopo che il cameriere si è allontanato lasciandoci i bicchieri pieni di rosso lei ha alzato lo sguardo su di me. Io indugiavo sul collo allungato del suo calice che sfumava il rosso del vino. Ma li sentivo i suoi occhi fondenti intorpidirmi.
“C’è una cosa che ti vorrei dire…” disse sottile, quasi aspirando ogni sillaba. Passava l’indice della mano sinistra sui rebbi della forchetta. Lenta e meticolosa si pungeva ad ogni passaggio. Non saprei dire se lo facesse di proposito.
Richiuse le labbra dipinte di fuoco e deglutì cercando le parole o il coraggio.
“Spara!” la incoraggiai.
E lei mi colpì.
Fortunatamente aveva una pessima mira.

mercoledì 3 ottobre 2012

Questo sorriso


Questa giornata non sa di niente e questo non è un sorriso. È la faccia di chi si è trovato qui dopo una scelta ponderata con i pesi sbagliati. Già, a cosa stavo pensando? Sono finito qui e ci sono rimasto. E sono croste su croste che ormai sono bloccato. Immobile. Indignato davanti alla televisione lo stretto necessario per passare da un telegiornale ad un altro. Spingendo un tasto ergonomico sul telecomando. Commentando i costi della politica al bar del mattino. Solo per non interessarmi al calcio. Semplificazione della complessità. Una delle poche lezioni che mi porto dietro dall’università ma senza la overdose di potenzialità che lo accompagnava. E lo so che non è interessante. E che sa di grigio naftalina.
Parliamo del concerto di Lady Gaga di ieri. Ho ascoltato abbastanza la radio da dichiararmi informato sugli eventi. Anche quel simpatico siparietto organizzato dal marketing, sì, parlo proprio di quella battuta sui pompini. Ho ragione, controllate pure su internet.
Bè, stavo guidando e questi per radio ne parlavano. 140 km/h in una autostrada sdentata causa crisi. I camion vuoti mi scorrevano sconsolati alla destra e dal programma del mattino cercavano di trasmettermi via FM quel buonumore da kindercereali parlando di pompini gratis. E quindi per non sapere che fare mi sono immaginato assieme a Lady Gaga in un bagno qualsiasi dei pub che frequento. Sentivo distintamente il suo profumo, lo stesso di mia nonna in carriola. Era una scena comica tipo il joker che pratica una fellatio ad un Batman sovrappeso e stempiato. Ma basta parlare di Renzi e Fiorito. Sì lo so, salto di palo in frasca. È l’atavica attrazione per i supereroi che mi porto dietro. Del resto è l’unico modo in cui mi sembra di riuscire a muovermi un po’. È così che mi mantengo in forma.
E no, lo ripeto questo sorriso è puramente accidentale.
Il Prozac non c’entra niente.
Nemmeno Lady Gaga che mantiene quello che il suo ufficio marketing le ha messo in bocca. Inginocchiata su queste piastrelle fredde di altri tempi. Prodotte a Sassuolo, la patria di Nek.
E anche questo non c’entra niente.

Ah sì, ogni riferimento a cose, persone e animali è opera di una fervida immaginazione. Poi spesso l’immaginazione supera la realtà.

Print your life

Oggi è il primo ottobre e la mia vita sta implodendo come un vecchio palazzetto del ghiaccio abbandonato. Mi sento come una scia d’aereo che nel cielo si disperde lentamente fino a confondersi completamente tra il silenzio delle nuvole. Il vino brucia tutta la notte anche se poi la mattina rimane sempre la stessa, terribilmente intatta.  
Laura non si è nemmeno voltata a buttarmi i suoi occhi ghiacciati per l’ultima volta prima di attraversare la strada. Io invece l’ho inseguita con lo sguardo fino all’ultimo, quando l’autobus l’ha inghiottita prima di rombare via lontano da me.
Poi più niente. Il suo profumo, il suo calore e la sua voce si sono annullati nei miei pensieri come se non vi fossero mai entrati e da condannato mi sono buttato nell’indifferenza generale di milioni di persone tutte uguali, luci oblique, odori limpidi e sentimenti asettici. Un bagno gelido di solitudine mi ha investito nell’immensità di questa città ancora estiva.  
Ho buttato gli occhi al cielo senza vedere niente, solo minacciose nuvole di bambagia immobili e tracce in dispersione: segnali che non so interpretare. Passo dopo passo sono tornato verso la concretizzazione del mio dolore. Nessun nome in testa, nessun viso nella memoria, solo sconosciuti intorno a me e cemento, ferro e vetro, plastica e niente più. Bottiglie opache buttate per strada come i ricordi di un ubriaco, cocci di amori infranti abbandonati in ogni dove e polvere, solo un sottile strato di polvere a coprire ogni cosa.
Poi un flash improvviso e davanti agli occhi un autoscatto di qualche anno fa.
Ci ritrae insieme, sorridenti con la faccia coperta per metà dai capelli, i suoi. Soffia un vento forte dal mare che alza milioni di finissimi granelli di sabbia e sparge un odore salmastro ovunque. Un fresco sole tardo primaverile, un anonimo lungomare alberato, qualche signora ancora infagottata a passeggio e i nostri occhi pazzi, strizzati e felici. Vent’anni di fantasie, milioni di sogni e un tappeto di possibilità si srotolano ai nostri piedi, e noi, ebbri di vita e padroni di un nuovo mondo, ci lanciamo spensierati sulle dolci note di mille desideri urlando per la gioia fino a sputare le tonsille dal finestrino dell’auto lanciata a tutta velocità tra le braccia del destino.
Era il 2 giugno, non potrò mai dimenticarlo, quando qualche ora dopo lo scatto di quell’istantanea, quel che restava di mio nonno se ne andava per sempre in una camera da letto scura, triste e anonima mentre io convincevo Laura a concedersi a me in una vecchia stanza presa in affitto con due soldi.  
Ricordo l’odore di muffa che impregnava le lenzuola umide, le pareti irregolari e gonfie vecchie di secoli con volte in mattoni, il pavimento di gelido cotto scuro usurato e crepato che faceva dondolare il letto, la finestra ammalorata affacciata sulla strada e i raggi di sole che filtravano dai vetri per andare a baciare la sua pelle liscia e profumata perfettamente sagomata distesa accanto a me. Un sogno in tre dimensioni che potevo accarezzare e assaporare. E la presenza pesante di quel povero vecchio crocifisso cupo appeso sopra la porta d’ingresso a monito di un qualcosa che solo in seguito ho colto: l’inizio di qualcosa coincideva con la fine di qualcuno. Quasi avessi pagato con un quarto del mio sangue il prezzo della felicità di quel momento.
Poi il veloce susseguirsi a ritroso delle stesse stagioni, dei medesimi posti, volti e sensazioni in una sconcertante normalità. Una vita fatta di giorni che iniziano con il bruno tramonto per terminare con fumose albe scure condite da luci ed ombre, grasse risate e lacrime amare: niente di più di una normale intensa quotidianità condivisa in ogni suo attimo.
E la lenta presa di consapevolezza di questo inesorabile ritorno, la sua persona che mi sfugge lentamente, mi si allontana giorno dopo giorno impercettibilmente fino a trovarla distante anni luce, accanto a me, nel nostro letto comodo con le lenzuola pulite e profumate. Le persiane chiuse al giorno, i singhiozzi masticati e le tracce di sale delle lacrime asciugate. Quel silenzio insistente e pesante, quelle parole spigolose e ruvide al posto delle carezze e dei sorrisi solo accennati, i più dolci. Le vene che gonfiano di rancore le soffocanti e tediose giornate che si srotolano intorno alle nostre vite ormai lontane.
Infine le porte del bus sbuffano e lei si confonde tra la gente.