A metà della frase ti rendi conto che fondamentalmente non
hai niente da dire. Che quella storia non ti interessa e che vorresti solo
rimanere lì appoggiato a svuotare quel bicchiere in sua compagnia. Senza
nessuna pretesa, solo stare assieme in quel momento. Con l’odore della mattina
che inizia a inumidire le strade. E poi camminare come se i portici di Bologna
non fossero sempre gli stessi. Come se non li aveste già percorsi miliardi di
volte cercando in una canzone una scusa per sorridere. Sentendovi unici come
una coltellata nello stomaco. Rifugiandovi in una routine per sentirvi parte di
qualcosa. Sforzandovi di pensare al lavoro come a una missione di vita. Ma che
cazzo di missione è fare il fisioterapista? Era quella la faccia che aveva tuo
padre alla tua festa di laurea. Con quel sorriso che si rivende ai vecchi amici
persi di vista. Bologna è piccola e capita sempre di incontrare qualcuno, ma
quando lo vuoi incontrare non c’è mai. E vorresti incontrarlo ora tuo padre e
dirgli che ha ragione, è l’ultimo desiderio di questa notte che muore. Ma lei
si sforza di sorridere alla tua storia e in fondo anche questo non è un brutto
modo di finire questa serata.
lunedì 22 settembre 2014
Il bicchiere della staffa
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che poi si finisce sempre a aparlare di scarlett johansson,
cirrosi epatica inevitabile,
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lunedì 15 settembre 2014
Pussy Wagon
Non è come nei film. In quella stanza ci sono un sacco di
persone e rumori di macchinari che vengono spostati su ruote da carrelli della Coop
avanti e indietro. Senza prestarci troppa attenzione. Con un automatismo
lugubre. Aspetti da un momento all’altro un colpo di sorpresa, qualcuno che
gridi al miracolo ma non succede. Ti passi la mano sulla spalla trafiggendoti
di aghi arrugginiti il cervelletto. Trattieni il respiro. Un infermiere vestito
di azzurro controlla una macchina e appunta qualcosa ai piedi del letto. Ti
mordi il labbro e sfuggi il suo sguardo. Sai benissimo cosa ti vuole chiedere.
E non ti vuoi vedere costretto a rispondere a una domanda del genere. Non sei
bravo a mentire, figurati in un momento del genere.
Ti senti falso con le tue mani in tasca, un imbucato alla
festa di compleanno di quella ragazza che ti piaceva alle superiori. Non ti sei
mai sentito così con lei e quasi vorresti farla sentire in colpa con una di
quelle pugnalate che solo il peggiore te riesce a dispensare. Ti calmi, guardi
circospetto attorno e vedi molte facce con la tua espressione. E troppe mani in
tasca. Appoggi la tua alla sponda del letto, la senti muovere per l’aria che
gonfia il materasso.
“è per evitare le piaghe” hanno detto.
E poi ti hanno lasciato qua senza nessuna istruzione sul da
farsi. Con tutta questa gente che si muove nelle loro routines. Vorresti
fermarli tutti, chiedere di andarsene. Per Dio!
E non le hai ancora detto niente.
Non l’hai nemmeno guardata in faccia.
Hai visto delle bende avvicinandoti e hai spostato lo
sguardo.
Ti sforzi di alzare la testa e ti strappi la maledetta
spalla.
Sapore della colazione che rimandi giù in fretta.
Rumori indistinti di pugni nello stomaco.
Ha i capelli più lunghi di come te li ricordavi. Ti aggrappi
alla speranza che non sia lei. Sei pronto ad andartene poi tra tutte le
medicazioni vedi il buco sotto il labbro dell’orecchino che ha smesso di
portare dopo troppo tempo per non lasciare un segno.
Inghiotti una palla da tennis.
Vorresti dirle che ti dispiace ma passa di nuovo
l’infermiere e abbozza un sorriso. Deve averlo imparato a qualche corso, questo
stronzo arrivista. Chissà in quanti ci cascano. Le hai viste le lettere e i
disegni appesi nella sala di attesa. Capace che pure questo l’hanno chiamato
“Angelo”. Ti viene in mente quella scena di Kill Bill dove c’è un tizio che si
presenta come “sono Buck e sono qui per fottere” e va in giro sopra un’auto che
si chiama Pussy Wagon. Vorresti dirgli che l’hai scoperto il suo giochetto e
che se non fosse per la spalla e la milza gli spaccheresti il culo. E magari ci
riesci lo stesso. Ma lui se n’è andato via trottando dietro un carrello con un
computer attaccato.
Cerchi quindi un po’ di intimità tirando le tende
impermeabili che separano i letti ma lo spazio si fa più stretto di quello che
credi e ti trovi schiacciato tra il letto ed un macchinario di quello accanto.
La cosa che ti stupisce di più è che non ha il suo solito
odore. L’ha sempre avuto, anche appena uscita dal mare con quel costume nero
che spostava per lasciare abbronzare più pelle possibile. Guardi la tua mano
che non si riesce a staccare dal letto. A toccarla.
Ha un tubo in gola tenuto fermo sulle labbra con un adesivo.
È tranquilla e probabilmente sei l’ultima persona che
vorrebbe fosse lì.
Così te ne vai, senza nemmeno dire che ti dispiace.
Sputi la colazione, quindi ti lavi faccia e mani con
l’amuchina.
Quando esci nessuno ti chiede niente.
E proprio non sai se questo ti fa piacere o meno.
giovedì 11 settembre 2014
Distress (Dior licenzia John Galliano)
La sensazione che senti si chiama distress. È tipico di chi
è stato appena licenziato. Tutti ne parlano male anche se non sanno bene di
cosa stanno parlando. A Bologna la gente si riempie la bocca di parole quasi
fosse mortadella. È divertente, si vestono bene e sono ostinati nel pagare la
birra €2,50. E parlare dei nonni che sono stati partigiani anche se in fondo
sanno che non è così. Perché ci inventiamo una identità purchessia, l’importante
è che vesta bene e che non abbia marchi di fabbrica troppo grossi ad
identificarci. E ci perdiamo nei soliti discorsi e soffochiamo uno sbadiglio. E
sorrisi, e sorrisi. Solo perché il dentista non lo paghiamo noi ma la nostra
assicurazione. Non voglio scendere nel dettaglio solo perché arriverei al
vostro stesso piano in cui la lungimiranza arriva a considerare le unghie
troppo lunghe del secondo dito del piede che soffre per le scarpe da footing
troppo piccole. E viene rimbalzato a destra e a manca senza una vera e propria
appartenenza. E ti suscita una simpatia viscerale e vorresti vomitare. Ma è
meglio che tu ti trattenga, in fondo hai tempo anche domani per queste cose.
Ah, Hitler non c’entra niente…
lunedì 8 settembre 2014
I soliti posti, la solita gente. Troppo presto.
Succede che ti trovi in un posto dove sei stato mille volte.
Dove non c’è la cucina ma l’odore di cibo è persistente. Sa di affettati e di
cantina. E vino rosso scordato aperto e birra. E di gente che lascia le
chiacchiere in sospeso perché erano solo una scusa per intervallare le loro
sorsate frenetiche. Cercando di rilassarsi istericamente. Controllando il
cellulare, escludendosi da una vita che in fondo affermano di cercare. Bevendo troppo
fino a vomitare. O a svegliarsi la mattina con la pancia piena di aria
compressa e mentine improvvisate al solo scopo di salvare la patente. Leggende metropolitane
di cui ti sei autoconvinto in fondo. Come tutto il discorso sulla qualità della
vita e quello che ci aspettiamo dal futuro. E la capacità di adattarsi. Accontentarsi.
Che ti sta stretta e poi ti pugnala nel cuore della notte quando inciampi per
le scale che ripercorri ancora e ancora trascinato dai ricordi e passi di danza
che fatichi a ricordare fedelmente. Un film restaurato che sembra troppo nuovo.
E altri spunti che appartengono a un'altra vita. E a jeans consumati al punto
che non puoi più indossare. Ma di cui ancora non riesci a fare a meno.
E quindi la notte ti scorre tra le gambe come un inatteso
getto di inchiostro tra le gambe di una seppia. Timido prosegui, convinto che
per te ci sia in serbo qualcosa di grande. E ti guardi attorno che ti gira la
testa. E ti tornano in mente le filastrocche. Provi a sorridere, tornare
indietro.
Poi qualche pezzo di te ritorna a casa e si rende conto che
non sei ancora riuscito a eliminare il suo nome tatuato sul campanello.
E lasci tutto sbattendo la porta alle spalle.
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