mercoledì 20 gennaio 2010

Highlander al ketchup

Il mio amico è sbronzo. E quando dico "il mio amico è sbronzo" non intendo dire che si chiama Sbronzo quanto piuttosto che il mio amico ha bevuto almeno quattro birre medie doppio malto prima delle diciotto di un giorno infrasettimanale. E si è sbronzato. Anch'io sono messo come lui. Seduto sullo sgabello foderato e macchiato del bancone in mogano. Sbronzo. All'Irish, ovvio. Quello con i soffitti giallo nicotina alti almeno 5 metri, con le biciclette appese qua e là senza un apparente significato e la Harp Strong alla spina. Il barista è lo stesso ormai da 2 anni. Sulla trentina, apparentemente affabile, moro e riccio, gran lavoratore. E' quello che fa l'apertura alle sedici e trenta e, fino alle diciotto -più o meno-, ci serve da bere birra doppio malto in bicchieri da una pinta.
Il fatto che non abbia mai capito se la pinta del bicchiere volgarmente chiamata media che ci serve sia quella imperiale britannica o quella statunitense mi lascia l'amaro in bocca. O forse è solo il sapore della birra. Comunque sia, trovo pazzesco pensare che una pinta a est dell'Atlantico sia maggiore rispetto a quella che gli sta ad ovest. Penso che sarebbe un bel casino se il metro che si usa a Milano da domani dovesse rivelarsi più corto di quello usato a Lissone o a Mondovì. Vorrebbe dire che da Milano a Mondovì sarebbero duecentotrentadue chilometri mentre da Mondovì a Milano solo 220. Forse, a ripensarci meglio, non è che questa cosa mi interessi poi molto. Poco male.
Dicevo che da due anni siamo tre volte alla settimana col culo su questi sgabelli per due ore e mezzo e ancora non sappiamo come si chiama il barista. Forse glielo abbiamo anche chiesto qualche volta. Ma forse non è importante saperlo. Sembra capire lo stesso che "ci faresti per favore altre due medie?" è rivolto a lui e non alla testa d'alce che si sporge dalla parete alle nostre spalle con quell'espressione un pò beota. E lui le spilla silenziosamente ed abbondantemente. Fino all'orlo. Poi toglie la schiuma con un attrezzo particolarmente semplice e ce le piazza davanti dicendo "fanno nove".
Ritengo che, per semplificare la lettura di questo pezzo, d'ora in avanti sia opportuno chiamare il barista Giec. Mi sembra un nome adatto ad un barista di Irish pub, sulla trentina, apparentemente affabile, moro e riccio, gran lavoratore e orangista.
Verso le diciassette Giec diventa addirittura proattivo. Quando infatti vede i nostri boccali vuotarsi anzitempo, propone "un altro giro ragazzi?". Nemmeno lui deve conoscere i nostri nomi dato che non glieli ho mai sentiti pronunciare ma, perspicacemente, capiamo che quelle medie in potenza sono rivolte a noi. E ci fa piacere che lo siano. Forse un pò meno all'alce.
Ci sentiamo considerati all'interno di quel vuoto cosmico che è l'Irish dalle sedici e trenta alle diciotto di un giorno infrsettimanale. Siamo fidelizzati è la definizione che darebbe il mio amico, quello appassionato di parole crociate. Poi io ed il mio amico, l'altro, quello sbronzo, ci guardiamo negli occhi e, senza bisogno di proferir verbo, all'unanimità andiamo verso il nuovo giro di medie doppio malto.
"Questa volta prendiamo anche un pacchetto di Highlander al ketchup. Anzi due, Giec".

lunedì 18 gennaio 2010

Mezza pagina

Non ho voglia di scrivere ma non riesco a resistere all’attrazione del suono dei tasti che si schiacciano veloci. Fossi nato qualche decennio prima avrei studiato da stenodattilografo. Fossi nato più tardi non avrei l’incombenza di finire tutto prima delle 2 che domani mi devo svegliare alle 8. 8 e 15 al massimo. Insomma la mia situazione contestuale è quella di una lampadina a risparmio energetico. E poi in televisione non c’è niente, e poi e soprattutto il vino è finito. Quindi provo a raccogliere qualche pensiero ad arrivare ad una mezza pagina che ho mandato una mail a Sara dicendo di leggere assolutamente quello che scrivo. Incidentalmente questo post. Eccomi allora ad introdurre questo circo delle pulci in cui ci sono due protagonisti in una notte di aprile temperata e ovattata come si fosse in chiesa. Con una illuminazione tra il giallo e l’arancione ed un vago odore di cloro.
A questo punto uno dice all’altro di una ragazza che ha conosciuto ad una lezione. Dice che non è niente male, anzi è decisamente la donna della sua vita. Categorico come si può essere a 21 anni. L’altro risponde “maddai” poi aggiunge dell’altro dopo che hanno deciso di andare al solito posto per recuperare qualcosa da bere e nuovi argomenti di discussione. Perché fantasticare di una persona che si conosce appena diventa automasturbazione in un locale pieno di gente. Ed è decisamente fuori luogo. Quindi questi due, birra in mano, cercano un tavolo libero e lo trovano solo nella zona fumatori dove sacrificano i loro vestiti pressoché puliti. Tutti fumano e poi se ne vanno appena spenta la sigaretta che sembra di stare davanti al Sisal. Loro li guardano e si fanno la gara a finire il bicchiere per primo. Contano i soldi e si concedono un altro giro con gli occhi che iniziano a bruciare dal fumo. Intanto incontrano queste tre ragazze in fila al bar. Dicono “ciao” e “scusa” e riescono ad ordinare prima di loro.
Poi tornano al tavolo dandosi di gomito con un sorriso tagliato in faccia. Orgogliosi per la loro affermazione di prescindibilità.
Poi uno dice: “non ci siamo persi niente”
E l’altro aggiunge: “già, mica come quella che ho conosciuto all’università”
Ed io finalmente ho superato la mezza pagina.

mercoledì 6 gennaio 2010

Dopo un veloce addio all’aeroporto

Quel giorno ci salutammo all’aeroporto. Ero abbastanza giovane per avere la certezza che quella relazione potesse durare e poi c’era il sole. Mentre aspettavo l’imbarco ripassavo i momenti di quella settimana passata assieme lontani da tutto da quello che ci spaventava: la realtà dei fatti. Ci stavamo vomitando nella maturità con una euforia da funerale o da vino in cartone ma ci raccontavamo di avere un sacco di sogni che a seguirli sarebbero diventati un bel futuro. Ora posso dire che erano tutte stronzate ma allora ci tenevano vicini. E poi scopavamo e ci divertivamo un sacco anche se lei non beveva molto.
Decisi quindi di chiamarla per fare un atto sconsiderato. Stupirla con gli ultimi centesimi di traffico disponibile. La nostra relazione era basata su l’esistenza contestuale e contemporanea di noi due. Il resto avveniva in differita e mai con una telefonata. Ogni volta che ci chiamavamo doveva essere per qualcosa di importante. Mi allarmavo a leggere il suo nome tra le chiamate in entrata. Per lo più avevo paura di essere scaricato perché a dirla tutta lei era una gran figa e tutti se la sarebbero volentieri scopata ad averci avuto l’occasione. Lo stesso non era per me visto che avevo dato l’occasione un po’ a tutte e nessuna se l’era colta.
Guardai il numero nello schermo del cellulare e spinsi il tasto “chiama” inspirando l’aria finta di quelle sale d’attesa galleggianti fuori dal mondo.
Ricordo le scarpe che avevo e l’aereo che passò davanti al vetro atterrando. Pensai di poter tornare indietro a pochi giorni prima nel giro di un mese. Era forse questo che le volevo dire.

“non vedo l’ora di vederti” dissi sommessamente alla sua voce preoccupata. E lei rispose che non sentiva bene. Era in treno. Disse di aspettare un attimo che stava per uscire da una galleria. Risposi che si avrei aspettato. Lei disse “come?”. La immaginavo con una mano a coprire i rumori dell’orecchio destro china sulla sua gonna bianca. I capelli che le scendevano davanti alla faccia. Non saprei dire se la sua voce fosse preoccupata o semplicemente sorpresa. Disse che presto ci saremmo sentiti meglio. Poi finì il mio credito e lei non richiamò.

Rimasi ad aspettare qualche minuto col telefono in mano, controllando che funzionasse. Sentivo i confini delle nostre vite alzarsi come veloci prefabbricati grigi e già affittati da multinazionali straniere. Sentivo qualcuno che chiamava il numero del mio volo indicandomi. Mi incamminai al patibolo con il mio biglietto e passaporto. Mi si erano formate due sfumature scure sudore sotto le maniche della maglietta. Le sentivo imbarazzato e solo. Probabilmente anche i miei capelli erano fuori posto.

Nonostante tutto l’hostess mi sorrise strappandomi il biglietto. Mi sentii subito meglio e dovetti ammettere che anche quella volta Stefania aveva avuto ragione.

Attimi

Mi sveglio con Eleonora appiccicata addosso. Anche stanotte la caldaia è andata in blocco e questo significa che in cucina accanto all’armadio con lo scolapiatti c’è un pulsante rosso illuminato da premere. Conto fino a dieci. Poi lo rifaccio ancora ed ancora. Spero di riaddormentarmi ma non riesco. I piedi freddi mi danno una sensazione di morte per congelamento che non riesco a scacciare. In questo Eleonora non interviene. Inspira ed espira con le labbra sottili appena aperte. La guardo. Dobbiamo sembrare carini come dei bambini che giocano ai genitori. Il fatto è che di Eleonora non mi importa molto. E poi non è questo il momento ed il luogo per discuterne. Ho un freddo ramificato che mi sta penetrando le vene che salgono per la gamba. Mi scosto con delicatezza e mi affretto alla caldaia coperto con una tuta sporca Adidas che recupero da una sedia ingombra di roba da lavare.
La caldaia si accende tossendo con i polmoni di un vecchio minatore. Tossisce ed io cerco di scaldarmi infilando le mani in tasca. Ormai non dormirò più.
Tornando in camera trovo un pacchetto griffato Feltrinelli che mi ha lasciato Dante prima di tornare a casa dalla sua ex. Mi fermo un attimo a leggere il biglietto scritto su un foglio qualsiasi. Sorrido e torno in camera.
Eleonora si è sdraiata su tutto il letto e non ho nessuna voglia di svegliarla. Ho invece quella fame da vuoto cosmico che lascia la birra nella pancia. Voglia di salato e insalubre. Affettati o panini caldi conditi con improbabili salse ai funghi. Avanzi di pizza da asporto gelosamente conservati in frigorifero. Tortellini alla panna e vino rosso. Antipasti misti per rovinarsi l’appetito. Eleonora intanto non si muove. Guardo i suoi capelli ricci secondo la moda del momento. Sorrido e me ne vado a fanculo.