venerdì 28 novembre 2014

Autunno

L’autunno è stupendo. È la stagione perfetta per condividere dei momenti dietro un bicchiere di vino e abbracciarsi con gli amici. Peccato che quest’anno non c’è stato. E tu aspetti vedendo i giorni correre sul calendario scanditi dalle domeniche del Tartufo Bianco a Savigno che continui a perderti.
E ti ripeti: “sarà per la prossima”.
E novembre finisce e tu sei sempre lo stesso. E i tuoi piani diventano scale frananti e muri farraginosi con l’intonaco scollato. E quell’odore della polvere che si solleva durante le restrutturazioni. Quando, con gli operai in casa, ti illudi di avere un sacco di impegni e cose da fare. Ed è un’illusione come il corso di inglese a cui ti sei iscritto, e l’abbonamento a Sky.
Ti guardi attorno e sono i muri che conosci e che hai paura di violentare appendendo qualcosa.
E poi cosa?
C’è stato un momento in cui pensavi di aver capito tutto, quando gli occhiali da sole non ti sarebbero serviti né per coprire le occhiaie né lo sguardo vuoto che accompagna le facce in ufficio. E le strette di mano pianificate a tavolino. E respirare piombo, solo per cercare di darsi un tono.
Parlare di Pasolini.
E perché no?
Avere un libro aperto appoggiato sul comodino. Quasi fosse dimenticato lì. Quasi a qualcuno interessasse.
E poi spendere soldi a caso.
Bere.
Respirare.
Convincerti che riesci veramente a farti del male.
A spendere tutto lo stipendio prima della fine del mese.
Ma per cosa poi?
A Stefania non interessa. Lei continua a ridere e non ti scrive più. E non sai nemmeno che stia facendo ora, e non azzardi a chiederlo. Non vorresti tornare indietro, o forse è così?
Il fatto è che ha iniziato a far freddo davvero e non hai un cazzo di voglia di accendere il riscaldamento.

Maledetto inverno.

martedì 21 ottobre 2014

...e a culo tutto il resto

È successo tutto quando hai smesso di considerare il lavoro un semplice mezzo per sopravvivere. Quando hai chiuso con le ripetizioni e le frasi criptiche. Quando hai puntato tutto sull’immagine disprezzando il libero arbitrio degli altri sensi. Hai comprato una confezione grande di profumo pubblicizzata con foto in un bianco e nero evocativo e hai iniziato a camminare più veloce. Crogiolandoti nell’urgenza. Leggendo solo le recensioni dei libri, citando i ricordi degli altri. Recuperando citazioni da pranzi di lavoro.
E non sorridi.
Vorresti ammazzarti col vino stasera ma pensi che domani devi svegliarti presto.
Controlli la mail direttamente dal telefono.
Fai i risciacqui con il Listerine.
Ti sorridi tangenziale allo specchio.
E non ti manca niente.
Manchi solo a me.
Alle serate improvvisate con troppi pochi soldi per ubriacarsi per bene. Con la convinzione che i jeans si pulissero da soli. Usando l’acqua di cottura al posto dell’olio per il soffritto che finiva sempre nei momenti sbagliati. Collezionando le prime pagine del Manifesto con l’idea di farci qualcosa di grande. E le porte di casa tua tappezzate delle cartoline più improbabili. C’era pure quella di Bologna che avevi comprato nell’edicola sotto le due torri. Su cui avevamo scritto una dedica appoggiati alle panchine di Piazza Ravegnana.

C’era scritto: “…e a culo tutto il resto”

domenica 5 ottobre 2014

España

Hai detto a tutti che andavi a Barcellona. Sinceramente ti sei vantato inserendo l’argomento appena c’era uno spazio nella discussione. Tutti dimostravano quell’invidia di circostanza tipica degli sconosciuti. Quei commenti fatti sull’onda di un entusiasmo sociale. E mani appoggiate sulle spalle quando ci si stringe la mano.

Eccoti quindi ad aggiornare la tua pagina di Facebook, con fotografie che sembrano rubate da momenti intensi ma che in realtà hai scelto con criterio. La foto di una birra in quel pub che sembra uscito da un film di Terry Gilliam, una fermata della metropolitana, la funicolare per il Montjuïc, una cena ad un ristorante giapponese dove si mangia al bancone. E sorridi oroglioso dei tuoi risultati mandando giù un’altra bottiglia di quella scatola da 15 San Miguel che hai fatto arrampicare fino a camera tua. Ti guardi allo specchio confrontandoti col protagonista del film che passano su Telecinco. Rimani atterrito dalla stiratura approssimativa della tua camicia in confronto alla sua. E ti guardi di profilo per considerare i benefici di un abbonamento esclusivo ad una palestra che frequenti con l’ostinazione di chi ha un frigorifero vuoto di vita e pieno di vizi con una impellente data di scadenza. E provi a sorridere ma è plastica con l’odore del wasabi che non sei ancora riuscito a lavarti via. E ti inventi qualche storia che racconterai al tuo ritorno, qualche particolare che non era così ma che in qualche modo renderai interessante. E tutte le canzoni che hai ascoltato tra un incontro e un altro per sentirti meno inadatto. È la vita che tutti vogliamo. E poi in Spagna la birra costa veramente poco.

mercoledì 1 ottobre 2014

Leicester Square e Listerine

Leicester Square non si pronuncia come immagini. O per lo meno non come me lo immaginavo io. Guardavo l’indicazione al titolo della piazza, facevo lo spelling in quell’aria satura di odore di fast food, schiamazzi e facce a cui non sarei mai riuscito a rivolgere una parola. E proprio non capivo. Masticavo le consonanti in bocca ma proprio non riuscivo a mandarle giù. Quel posto non era come me lo avevano raccontato e assolutamente non suonava uguale. Londra sa essere un paio di scarpe in piombo nel cuore della notte. Quando cerchi il calore in una coperta troppo corta. E nei ricordi di un mondo che appartiene ormai solo ai film in replica a Natale e a quei maglioni cuciti a mano da tua nonna. Che ti pizzicavano le braccia nude.

Ed è in una di queste giornate fredde cemento che non volevo tornare a casa. Ma evaporare è difficile d’inverno e quindi mi ero attaccato alle certezze che avevo rileggendo i soliti libri con un tono troppo basso e riflessivo. Omettendo le bestemmie come se fossero semplici refusi e non un grido di aiuto. Tondelli avrebbe avuto compassione di me. Ed io non ne avrei avuta di lui con il mio sarcasmo sigillato in porzioni monodose. Come fossero tante intercambiabili merendine del Mulino Bianco. E ora non psiconalizziamoci che mica voglio fatturarvi il prezzo di favore di €75 / ora per appoggiarvi con i cazzi vostri su una poltrona Ikea foderata in pelle per darle un senso compiuto. Non ho la partita iva e nemmeno quei dispenser da fazzoletti a doppio velo appoggiati giusto alla vostra sinistra su un tavolino di vetro. Ci ho messo un po’ di raffreddori a capire che quei fazzoletti sono per le lacrime, per questo costano poco. E si sfilacciano lasciando segni della nostra disperazione sparpagliati come i vestiti lasciati in giro da ubriachi e che ci rifiutiamo di raccogliere per almeno un paio di giorni. Che tanto non c’è nessuno che viene qua a spiegarci che il disordine casa nostra non è nemmeno la metà di quello che abbiamo in testa. Disordine che ci ostiniamo a sbrogliare ammazzandoci i neuroni nell’inseguire una generazione sacrificata per poche pagine di gloria. Probabilmente sintetizzate in qualche blog. Tipo questo, pieno di parole masticate, denti lavati e risciacqui con il Listerine.

lunedì 22 settembre 2014

Il bicchiere della staffa


A metà della frase ti rendi conto che fondamentalmente non hai niente da dire. Che quella storia non ti interessa e che vorresti solo rimanere lì appoggiato a svuotare quel bicchiere in sua compagnia. Senza nessuna pretesa, solo stare assieme in quel momento. Con l’odore della mattina che inizia a inumidire le strade. E poi camminare come se i portici di Bologna non fossero sempre gli stessi. Come se non li aveste già percorsi miliardi di volte cercando in una canzone una scusa per sorridere. Sentendovi unici come una coltellata nello stomaco. Rifugiandovi in una routine per sentirvi parte di qualcosa. Sforzandovi di pensare al lavoro come a una missione di vita. Ma che cazzo di missione è fare il fisioterapista? Era quella la faccia che aveva tuo padre alla tua festa di laurea. Con quel sorriso che si rivende ai vecchi amici persi di vista. Bologna è piccola e capita sempre di incontrare qualcuno, ma quando lo vuoi incontrare non c’è mai. E vorresti incontrarlo ora tuo padre e dirgli che ha ragione, è l’ultimo desiderio di questa notte che muore. Ma lei si sforza di sorridere alla tua storia e in fondo anche questo non è un brutto modo di finire questa serata.

lunedì 15 settembre 2014

Pussy Wagon

Non è come nei film. In quella stanza ci sono un sacco di persone e rumori di macchinari che vengono spostati su ruote da carrelli della Coop avanti e indietro. Senza prestarci troppa attenzione. Con un automatismo lugubre. Aspetti da un momento all’altro un colpo di sorpresa, qualcuno che gridi al miracolo ma non succede. Ti passi la mano sulla spalla trafiggendoti di aghi arrugginiti il cervelletto. Trattieni il respiro. Un infermiere vestito di azzurro controlla una macchina e appunta qualcosa ai piedi del letto. Ti mordi il labbro e sfuggi il suo sguardo. Sai benissimo cosa ti vuole chiedere. E non ti vuoi vedere costretto a rispondere a una domanda del genere. Non sei bravo a mentire, figurati in un momento del genere.
Ti senti falso con le tue mani in tasca, un imbucato alla festa di compleanno di quella ragazza che ti piaceva alle superiori. Non ti sei mai sentito così con lei e quasi vorresti farla sentire in colpa con una di quelle pugnalate che solo il peggiore te riesce a dispensare. Ti calmi, guardi circospetto attorno e vedi molte facce con la tua espressione. E troppe mani in tasca. Appoggi la tua alla sponda del letto, la senti muovere per l’aria che gonfia il materasso.
“è per evitare le piaghe” hanno detto.
E poi ti hanno lasciato qua senza nessuna istruzione sul da farsi. Con tutta questa gente che si muove nelle loro routines. Vorresti fermarli tutti, chiedere di andarsene. Per Dio!
E non le hai ancora detto niente.
Non l’hai nemmeno guardata in faccia.
Hai visto delle bende avvicinandoti e hai spostato lo sguardo.
Ti sforzi di alzare la testa e ti strappi la maledetta spalla.
Sapore della colazione che rimandi giù in fretta.
Rumori indistinti di pugni nello stomaco.
Ha i capelli più lunghi di come te li ricordavi. Ti aggrappi alla speranza che non sia lei. Sei pronto ad andartene poi tra tutte le medicazioni vedi il buco sotto il labbro dell’orecchino che ha smesso di portare dopo troppo tempo per non lasciare un segno.
Inghiotti una palla da tennis.
Vorresti dirle che ti dispiace ma passa di nuovo l’infermiere e abbozza un sorriso. Deve averlo imparato a qualche corso, questo stronzo arrivista. Chissà in quanti ci cascano. Le hai viste le lettere e i disegni appesi nella sala di attesa. Capace che pure questo l’hanno chiamato “Angelo”. Ti viene in mente quella scena di Kill Bill dove c’è un tizio che si presenta come “sono Buck e sono qui per fottere” e va in giro sopra un’auto che si chiama Pussy Wagon. Vorresti dirgli che l’hai scoperto il suo giochetto e che se non fosse per la spalla e la milza gli spaccheresti il culo. E magari ci riesci lo stesso. Ma lui se n’è andato via trottando dietro un carrello con un computer attaccato.
Cerchi quindi un po’ di intimità tirando le tende impermeabili che separano i letti ma lo spazio si fa più stretto di quello che credi e ti trovi schiacciato tra il letto ed un macchinario di quello accanto.
La cosa che ti stupisce di più è che non ha il suo solito odore. L’ha sempre avuto, anche appena uscita dal mare con quel costume nero che spostava per lasciare abbronzare più pelle possibile. Guardi la tua mano che non si riesce a staccare dal letto. A toccarla.
Ha un tubo in gola tenuto fermo sulle labbra con un adesivo.
È tranquilla e probabilmente sei l’ultima persona che vorrebbe fosse lì.
Così te ne vai, senza nemmeno dire che ti dispiace.
Sputi la colazione, quindi ti lavi faccia e mani con l’amuchina.
Quando esci nessuno ti chiede niente.

E proprio non sai se questo ti fa piacere o meno.