sabato 17 dicembre 2011

Pomeriggio con suicidio


Lo saluta da un maglione rosa e lui la guarda fingendosi interessato a delle cose che ha da fare che in realtà non esistono. Va di fretta solo per darsi un senso. E mentre si allontana nella direzione opposta alla sua ricompone quei frammenti dell’immagine di lei come si fa con un puzzle di 1200 pezzi di un’opera di Van Gogh: alla cazzo. Così prova ad inserire quella collana di perle lunga e annodata al centro nel contesto di quel sorriso evidente e non ne esce fuori niente di credibile. E si costringe a non voltarsi immaginandosi che lei non aspetti altro. Che non si sia già infilata in una di quelle vie di Bologna che sembrano risucchiarti ed avvolgerti al punto che ti domandi se davvero da quel pertugio riescono a passare le auto. È convinto davvero che lei non aspetti altro che vederlo allontanarsi come nei film.
Svolta per via Indipendenza poi per via Marsala e finalmente si domanda dove sta andando. Lo fa vedendo una famiglia passare spingendo una carrozzina con una borsa di plastica che pende da una maniglia. Lo sorpassano lasciando una scia di Pasta del Fissan che sembra avere la consistenza di un uovo sodo mangiato intero. Quasi si ferma tramortito dal peso di quel pomeriggio sulle spalle. A questo punto l’unica soluzione è rientrare in casa e uccidere il pomeriggio con la televisione.

Ma fortunatamente saltò la luce in tutta la città ed il pomeriggio fu salvo.
Lui per una questione di coerenza si trovò costretto al suicidio.

lunedì 12 dicembre 2011

Un pomeriggio da H&M


Quasi non mi ricordavo più di lei. Era in quella parte di ricordi che via via si sovrappongono come i vestiti da lavare. E fanno delle palle multicolori quasi indistricabili. La palla multicolore in questione contiene una serie di serate passati seduti al bancone ordinandole da bere. Valutando che lei era sempre più bella ogni bicchiere che svuotavamo. Non ne abbiamo mai svuotati abbastanza da iniziare una conversazione. Ci dicevamo sempre: “la prossima volta”. Ci illudevamo che c’erano questioni più urgenti, spesso parlavamo di politica ripetendo le illusioni che leggevamo. Interpretando una parte una volta e una parte un’altra. Senza soluzione di continuità, solo per sentirci parlare in maniera assoluta. Poi ci salutavamo barcollanti davanti ad un niente di fatto. Succedeva sempre di domenica. In quel bel periodo dove le domeniche non finivano inghiottite dall’ombra del Lunedì. Non so se mi spiego.
Ora che ci penso non saprei dire com’è finita la storia. Non saprei se ci siamo persi di vista prima io e Stefano o se prima se n’è andata la barista. Succedeva effettivamente troppo tempo fa. Il fatto è che ora mentre le guardo distratta considerare le potenzialità dei più svariati accessori ho quella sensazione che il tempo non esista e che potrebbe benissimo essere una domenica di 7 anni fa. Non fosse che è sabato, chiaramente. E mi domando che fine ha fatto Stefano ed il nostro piano di cambiare tutto. È strano porsi queste domande dentro un H&M con i vestiti fluorescenti di sfondo.
Lei si muove lenta e non ha ancora scelto niente, sembra avere del tempo di troppo da scrollarsi in qualche modo di dosso. Quel neo sullo zigomo destro che si sollevava quando rideva con gli altri camerieri al bancone ora è fermo. Sembra malinconico appoggiato a viso bianco su cui il passaggio del tempo è stato decisamente più clemente che con me. Anche lei non sembra centrare molto con questo negozio. Il suo cappotto nero si staglia sottile tra le magliette con qualche leitmotiv abbastanza demenziale da definire una generazione. E odore dolce che ricorda il lattice dei preservativi all’aroma di fragola.
La cosa che mi piace di questi negozi è che fa sempre un caldo spropositato e non c’è nessun commesso che ti squadra chiedendo se mi può essere utile. C’è solo qualcuno che piega i vestiti abbandonati dentro ai camerini e qualcuno alla cassa. La sicurezza è affidata ad una società esterna. C’è una certo contrasto tra l’austerità della sicurezza e l’atteggiamento forzatamente hipster dei commessi. La sensazione è la stessa dell’autobus dell’18 e 35 ripieno di studenti e impiegati che si lasciano trascinare nella stessa direzione.
Fingo di interessarmi ad un maglione abbastanza scuro e ordinario da sembrare credibile. Calcolo quanti dei maglioni uguali che possiedo devo sostituire perché ci si vedono i gomiti e non posso indossarli in ufficio. Mi convinco che lei mi stia guardando, che le ricordo qualcosa che ha sulla punta della lingua ma non riesce a concettualizzare. Sento i suoi occhi quasi orientali accarezzarmi la ricrescita della barba e la bocca che non riesco ancora ad atteggiare con nonchalance.
Mi giro e non la vedo.
Meglio così.

lunedì 14 novembre 2011

L'inverno intorno e dentro

Quando il lunedì mattina ti tiri su dal letto vorresti solo una cosa: che fosse già martedì.
Poi stancamente ti trascini in bagno dove eviti lo sguardo riflesso dallo specchio. Ti togli alla meno peggio il sonno di dosso e provi a coprirne l’odore stantio con qualche spruzzata generalizzata di Breeze. Prendi la prima cosa meno stropicciata che trovi sulla poltroncina accanto al letto e, sconsolato, ti raccomandi a Brando di fare il bravo.
“Almeno piscia nella ghiaietta, per favore.”
Trascini il tuo stanco corpo sul pianerottolo, aggrotti un sopracciglio cercando uno sguardo severo alla volta di Brando e trascini la porta fino a far scattare la serratura, poi dai un paio di mandate di facciata e scendi nel traffico caotico di inizio settimana.
Clacson, saluti, gomme che slittano sull’asfalto, foglie che cadono, vecchiette leggere che ammoniscono conducenti di tram, piccioni che fanno colazione, donne si fanno trascinare da cani entusiasti che non capiscono il dramma del lunedì.
Una nuvoletta di vapore ti esce dalla bocca e un brivido ti percorre la schiena. Cerchi l’inesistente bavero della giacca e desidereresti tanto trovarlo. Spifferi d’aria gelida ti penetrano da ogni parte e ti paralizzano i movimenti facendoti assumere un’andatura a scatti tristemente ridicola. Te ne fotti perchè prima di garantirti l’apparenza oggi vuoi assicurarti la sopravvivenza. Oggi è lunedì per tutti ma per te è anche peggio.
Senti ancora la bocca foderata dal sapore delle patatine alla cipolla e formaggio con retrogusto amarognolo di birra. I sensi si rincorrono, si prendono e si perdono rimandandoti alla memoria singoli flash della serata trascorsa ieri. L’odore di legno bagnato, fermentazione, muffa persistente e umanità sudata fanno da sfondo alla circostanza. Saluti, aneddoti, abbracci e birra, anche rovesciata sono la sostanza. E’ tanta roba dopo tanto tempo.
Ti vedi riflesso nella vetrina di una banca e ritorni d’un tratto al quì ed ora. Hai nuovamente freddo e pensieri nefasti t’ingombrano la testa. Il bavero della giacca non l’hai ancora trovato e ci rinunci.
Il palazzo dove lavori ti si staglia davanti sfoggiando la quotidiana prova di virilità, ormai trita e ritrita: i suoi ventitre piani più antenna quasi scompaiono nel grigio dell’inverno.
La tentazione di tirare dritto e gridare a pieni polmoni un “fanculo a tutti voi, poveri illusi gonfi di niente” è forte ma senza pensarci ti trovi già nella hall diretto all’ascensore 4.
Speri inutilmente che non salga nessuno con te invece si riempie. L’aria si scalda in un attimo e viene rapidamente assorbito tutto l’ossigeno. Ti senti il sangue pulsare nella testa e i piedi informicolarsi. Rispondi ai saluti più che altro con gesti e alle domande con monosillabi. Centellini l’aria carica di dopobarba, detergente intimo e ormoni fino al settimo piano quando esci strisciando alle pareti silenziosamente.
Prendi un caffè al volo al distributore di morte e, ustionandoti la lingua, vai verso l’ufficio, quello in fondo. Lo chiamano con diversi nomi ma la sostanza è la stessa: il mattatoio o la stanza dei sogni interrotti.
Il corridoio bianco con le sterili luci al neon tremanti ti sembra infinito. O forse è solo quello che vorresti, non arrivare mai. Ma come sempre succede quando desideri ardentemente qualcosa, il corridoio finisce e la porta che non vorresti aprire ti tocca la punta delle scarpe. Bussi senza nemmeno più sperare che non ci sia nessuno. Sapere qualcosa è un conto ma sentirselo dire è molto peggio.
“Avanti, prego” è quello che una voce decisa ma soffocata ti risponde da dentro la stanza.
Spingi la porta e un fresco profumo di resina di Larice rosso ti inebria le narici. Entri fissando lo sguardo a mezzo metro nel vuoto mentre strizzi gli occhi e ritiri le dita dei piedi continuando a ripeterti cose inutili.

Un romantico aperitivo (colonna sonora di Gianluca Grignani)

Mentre parlano a lui viene in mente una canzone di Gianluca Grigniani. Una di quelle che in una estate avrà risentito milioni di volte. Masticando una pizza gommosa con la faccia tirata dalla scottatura del sole.
Sorride.
La birra gli suda nella mano sgasandosi.
Lei risponde che in effetti non ha ancora capito bene quello che vuole fare. Si guarda i piedi. I capelli tirati in avanti le scoprono il collo bianco. Dice che per ora vorrebbe mettere da parte quello che basta per un viaggio in sud America.
“e poi chissà” dice rialzando lo sguardo.
Ha quel sorriso che non riesce mai a fare quando la fotografano, nemmeno per sbaglio. Gli occhi sono ancora lucidi dei sogni realizzabili. Sembra immaginarsi il viaggio, lontano da lì. Lontano da lui. Come se quel momento fosse ininfluente. Come se non fosse più lì.
Cosa farebbe Gianluca Grignani lui lo sa: si tirerebbe indietro i capelli e direbbe: “io un amico lo perdono, mentre a te ti amo…”
Intendendo: sesso estremo.
Intendendo: milioni di adolescenti in visibilio.
Intendendo: milioni di copie vendute.
Intendendo che con tutti quei soldi che si è fatto se lo compra tutto il cazzo di sud America che la sembra attrarre tanto. Comprese arepas e dulce de leche.
Lei intanto è tornata al suo Campari. Morde la cannuccia nera e quasi non beve. Emette dei suoni che ricordano i momenti in cui ha appena smesso di piovere in spiaggia.
Sa di un profumo che descrive le giornate di sole in campagna.
Ha due tette gigantesche.
Lui si costringe a guardarla in faccia. Ignorando le canzoni che gli si ripropongono in testa e l’inequivocabile risvolto pornografico.
Esita appoggiandosi allo sgabello nero scrostato che ha alle spalle.
E sorride. E sì che il sud America è un gran bel posto, certo lui lo sa perché per lavoro ci è dovuto andare.
“E per lavoro non è mica come un viaggio di piacere. C’è tutto quel contorno. Quelle cene interminabili e quelle battute da capire al volo. E riderci a crepapelle. E poi mani da stringere, persone da vedere. E così finisce che non ho più nemmeno il tempo per cambiare il mondo.”
 “Forse sto invecchiando” aggiunge con malcelata modestia.
Respira.
Ha questo sorriso che a lei ricorda qualcosa di un calciatore. Non sa bene come si chiama ma qualche tempo fa è stato popolare. Il suo ex ne parlava sempre. Perlopiù gli dava del finocchio. Ogni volta che al telegiornale appariva la sua faccia Michele inevitabilmente diceva: “ma vedi quel finocchio…”. E lei mica l’aveva mai pensato, anzi quel sorriso che le si riproponeva non era affatto male. Ed anche quel profumo che sapeva di dopobarba. Peccato per quel modo di essere comune. Con quella camicia che sarebbe meglio portasse fuori dai jeans. Con quegli occhiali che le ricordano i film con Tom Cruise.
Pazienza, e via con un altro sorso di spritz allungato dal ghiaccio che si è sciolto.
E lui prosegue: “è che ultimamente mi sembra di non riuscire a concludere niente. Cioè, vedo quello che succede in giro ed ho questa sensazione che dovrei trovare il modo di fare qualcosa. Lo dovremmo trovare tutti. Ma quando stiamo 8 ore al lavoro, 1 ora nel traffico ed il resto del tempo a cercare di cucinarci qualcosa di commestibile dove lo troviamo il tempo? C’è da essere ovunque, in ogni momento. C’è da essere multitasking. C’è da diffondersi tipo il cancro in metastasi.”
“nessuna speranza?”
“molto poca.”
“che fare allora?”
“non lo so, un aperitivo in questo bar con una birra sgasata ed uno spritz caldo mi sembra un buon inizio, no?”
“e come va a finire?”
A questo punto non c’è altro da aggiungere.
Il finale è una canzone di Gianluca Grignani.
Milioni di copie vendute.

lunedì 7 novembre 2011

Energy drink


Ho scoperto che gli energy drink sono stati inventati attorno agli anni sessanta in Giappone per aumentare la produttività individuale. L’ho controllato su Wikipedia mentre lavoravo, sotto speed. Insomma ci ho messo una frazione di secondo talmente veloce che non riesco a ricordare bene i contorni, so solo che nella scheda che ho aperto subito dopo c’erano due tette immense. In quella dopo ancora Chiara mi scriveva che stasera sarei dovuto a passare a fare la spesa io, perché lei aveva lezione di pilates. Ho pensato: benissimo. Visualizzando il reparto frigorifero del discount. Di quei discount seri che hanno un sacco di prodotti che non trovi nemmeno nelle botteghe dell’Altromercato. Quelle dove quando entri c’è un odore intenso di vimini che fa molto Licia Colò. Non so bene perché ma è così. Metto piede dentro ed ancora prima che il commesso mi saluti con un “buongiorno” palesemente lisergico mi si piazza davanti l’ingombrante faccia sorridente di Licia Colò. E questo niente di male solo che mi fa pensare a come se la passano male nel resto del mondo. A questo punto investo una quantità spropositata di denaro in cioccolata al guaranà e mi rimangono solo gli spicci per offrire il cappuccino all’avventore con i libri sull’Africa che non mi sono mai azzardato a guardare per più di 5 minuti. Lo so che tutto questo non ha senso. Ma io il sabato pomeriggio lo passo così. Poi rinsavisco, scippo una vecchietta ed ai giardini mi rifornisco di droga pesante per tutta la settimana. Lo faccio perché ho bisogno di una carica un po’ più decisa di quella dei Kindercolazionepiù per costringermi a trascinarmi al lavoro e passare tutto il giorno di iperproduttività a sfogliare pagine inutili internet per passarmi il tempo. Sto arrivando ad un livello di cultura che nemmeno l’intera enciclopedia Treccani. Mi manca solo di capire cosa c’entri Licia Colò in tutto questo. E chiaramente cosa è la taurina, ma rimedio subito.
Taurina: un'ammina con un gruppo funzionale acido solfonico. Questo non vuol dire molto, ma leggendo oltre su Wikipedia scopri che i vegetariani ste robe proprio non le possono bere. Per questo sono destinati all’estinzione. È questione di sopravvivenza della specie. E questa è decisamente l’era di Gianni Morandi. E con questo non voglio dire che sia necessariamente coprofago.

Ah, tutte le persone di cui ho parlato non esistono. Sono solo personaggi che mi sono inventato io perché li ho trovato su internet mentre cercavo della pornografia un po’ estrema. Ed in fondo non avevo niente di meglio da scrivere.

domenica 30 ottobre 2011

Espressione standard


Era tutto sospeso. Quasi non fosse successo niente. Un silenzio da esame di maturità. E tutto era lento. Fuori pioveva, certo deve piovere sempre in questi momenti. Sembrava tutto preparato da arte come quegli scherzi in televisione che proprio non ci credi all’autenticità. Ed io ero lì che cercavo di collegare tutti i punti degli ultimi tempi. Che mi riuscivo solo a chiedere: “e adesso?”. E mi sentivo in colpa perché quel momento mi faceva male come aver finito l’università e trovarmi davanti ad un mondo inesplorato. Sarà che non ci credevo. Forse era successo troppo in fretta. Come quando dimentichi la pasta un minuto di troppo sul fuoco ed è da buttare. Insomma la mia faccia era incerta e non riuscivo a piangere. Ed ero convinto che tutti giudicassero. Volevo scomparissero in un istante ed invece continuavano ad arrivare e a darmi un colpo sulla spalla. Mi abbracciavano ed io dicevo: “grazie”. E quel vestito nero non era quello giusto per l’occasione. E credo nessuno ne abbia uno, a parte i dipendenti delle pompe funebri.
Tenevo il telefono spento e guardavo la sua faccia, lo specchio di me tra pochi anni ancora. Provavo a collocarlo nelle foto in bianco e nero che avevo in quei tre album rilegati in pelle nera. Non era rimasta una grande somiglianza. Solo i capelli portava pettinati ancora allo stesso modo che non sembrava nemmeno troppo fuori dal tempo. Il resto era una maschera con una espressione standard. Una espressione che provavo ad imitare nel mio aspettare in piedi irritato dalle voci troppo alte che sentivo parlavano di altro. Quell’espressione è tutto quello che mi è rimasto di quel giorno. In quella stanza fatta di divisori in plastica di pessimo gusto mi rassicurava che io non ero lì e che era tutto finto. Che aspettavamo tutti il lieto fine dopo la pubblicità.

lunedì 24 ottobre 2011

La boccia dei pesci

“non capisco quello che ci sta succedendo, è come se vivessimo in una palla per i pesci” “però non ci piove dall’alto il mangime” “cerca di essere serio, per una volta” A questo punto l’unica cosa da fare è pensare al Sudan e mettere una faccia grave che va bene con quel vestito nero che tengo pulito nell’armadio per matrimoni, funerali e per andare alle convention del lavoro. Quel vestito che avrà si e no una settimana di vita vissuta, appena sopra l’aspettativa di vita di un moscerino che gioca a cavallo dell’autostrada del Brennero. Lei mi guarda prima di continuare e prende un sorso dal bicchiere da pinta riempito di acqua del rubinetto. Quel bicchiere è mio, l’ho infilato nella tasca del mio capiente cappotto una sera fredda in cui mi sentivo incredibilmente solo. Di quelle sere in cui ci si accorge che tutti hanno trovato il proprio incastro perfetto e che l’unica lineetta del Tetris che non si completa per passare al prossimo schema è la tua. Serate in cui vorresti solo annusare l’aria delle caldarroste che si fanno e vedere tutto da una prospettiva lontana. Color seppia. Quella sera era qualche anno fa che ora sembrano secoli, faceva più o meno il freddo che anticipa le vacanze di Natale e la birra era una scusa per ridere di niente. Ed il progetto era aspettare ancora un altro giro e un altro ancora. C’era il tavolo di legno che rifletteva storta la luce di un lampadario recuperato ad un mercato dell’usato, il sapore delle noccioline che rotolavano in giro. Stefania parlava della sua casa in montagna ma io capivo solo il suo sorriso. Mentre la ascoltavo mi chiedevo se anche io ero capace di qualcosa di simile, se quell’espressione se l’era studiata o le veniva così. E perché colludeva così esplicitamente col suo profumo proprio mentre le stavo davanti? Ero tornato a sette anni quando passavo davanti ad una vetrina di giocattoli che esponeva il galeone dei Lego e non ci credevo esistesse un gioco così bello. Una sensazione che potrebbe centrarci qualcosa con la sindrome di Stendhal. Sì, quella sera Stefania era decisamente un’opera d’arte di quelle che non puoi toccare e nemmeno guardare per troppo tempo che ci hai la fila dietro. Che ti vorresti portare a casa e ti accontenteresti anche di una stampa economica o di un souvenir. Dev’essere per questo che mi ero infilato in tasca il bicchiere che ora Chiara appoggia sul nostro tavolo come non avesse niente di speciale. E non sorride come Stefania. “a te non sembra? Perché non dici mai niente? Cosa vuol dire che è solo una mia idea?” Prendo il bicchiere e lo rigiro nelle mani. Rivedo quella cazzo di lineetta del Tetris che non si completa e penso che i pesci in una boccia di vetro non se la passano poi male semplicemente perché non parlano.

martedì 18 ottobre 2011

Il buco nero

Da un paio d’ore cerco disperatamente i miei occhiali da sole senza i quali la mattina mi sento nudo. La mia mattina inizia non prima delle due del pomeriggio ma per i miei occhi la luce non ha orario. E senza i miei occhiali con le lenti scure e la montatura di finta tartaruga non posso uscire di casa. Non so il perchè ma è così: sono schiavo di quegli occhiali da sole. Ma oggi sembrano spariti. Non li riesco a trovare da nessuna parte. Ho guardato anche nella cassetta della posta dove l’anno scorso si era cacciato per sbaglio anche il mio scoiattolino canadese; ma quella volta c’era di mezzo tanto, troppo vino.
Sembra incredibile come, in un appartamento minuscolo come quello in cui dormo, a volte mangio e faccio i miei bisogni, possano perdersi miliardi di oggetti: menete, ciabatte, cellulari, animaletti domestici, sedie e bottiglie.
Già, proprio qualche tempo fa per un mese intero ho cercato una boccia di birra che da un giorno all’altro era sparita, piena, dal frigorifero. Non l’ho più ritrovata. Come non ho più trovato le due tartarughine d’acqua che avevo vinto pescando un anatraccolo di plastica alla sagra del Re Gnocco. Non che mi sia dispiaciuto perdere le tartarughine d’acqua ma è la circostanza a farmi incazzare come un’ape.
Robe da ammattire. Magari la sera arrivi a casa con qualche bicchiere di troppo in testa e lasci le chiavi di casa sulla mensola all’ingresso. Poi vai a letto cercando di fermare la stanza che ti danza tutt’intorno e la mattina dopo, quando riacquisti un briciolo di lucidità, inevitabilmente non trovi più le chiavi sulla mensola all’ingresso dove le avevi lasciate la sera prima. Ma il fatto è che non le troverai mai più quelle maledettissime chiavi e quindi ti toccherà chiamare il fabbro che ti cambierà la serratura prendendosi solo ottanta euro perchè è già la terza volta che lo chiami da maggio.
Non ce la faccio più a continuare a vivere con la certezza di perdere qualcosa. E come se non bastasse, sto pure diventando povero. Non tanto per le cose in sè che perdo ma per tutto quello che la perdita implica. Per esempio, ho una macchina parcheggiata in divieto di sosta da tre mesi sotto casa davanti al bar semplicemente perchè non trovo più le chiavi. Ogni settimana mi fanno una multa di trentasei euro e come se non bastasse per muovermi in città ho dovuto fare l’abbonamento ai mezzi pubblici. Non ci voglio nemmeno pensare...
Oppure ancora quella volta che son riuscito a portarmi una tipa a casa dopo averle offerto un universo di birre doppio malto e abbiamo noleggiato un dvd: non è un paese per vecchi. L’abbiamo visto insieme toccandoci e sbaciucchiandoci in attesa che finisse. Poi è finito e a me è piaciuto un sacco. Ma veramente tanto. Il tizio con la bombola del gas che va ad ammazzare gente è geniale come trovo sia altrettanto geniale farlo finire in quel modo, con l’investimento del tizio. Spettacolo. A lei invece ha fatto cagare., sue testuali parole “mi semrba una stronzata modniale”. L’ha trovato triste e senza senso. Allora abbiamo discusso per un pò sul senso del film senza trovare quel momentaneo accordo che mi permettesse di portarla a letto e fotterla violentemente punendola per non aver capito il senso del film. Ma, a un certo punto, stizzita mi dice che si è fatto troppo tardi e deve andare altrimenti il cane le piscia in casa. Ma quale cazzo di cane? Fingo virilmente che non me ne freghi niente del fatto che non sia riuscito a fotterla e lei se ne va. Io finisco la serata a bere al bar sotto casa davanti alla mia macchina in divieto di sosta. Il giorno dopo mi sveglio, vedo la custodia del dvd e mi ricordo che lo devo restituire. Cerco tutto il giorno per tutta la casa quello stramaledetto dvd senza trovarlo. Ho anche chiamato la tipa per chiederle se magari, per sbaglio oppure deliberatamente per farmi un dispetto, l’avesse preso su lei. Ma niente, ho rimediato solo qualche altro insulto ma il dvd non salta fuori. Morale: ho dovuto pagare una super multa della madonna perchè il tizio del noleggio credeva facessi il furbo e me lo volessi tenere.
Sono anche arrivato a pensare che da qualche parte, dietro qualche pensile della cucina o dietro qualche battiscopa un pò scostato si nascondesse un buco nero inghiottitutto. Ma una volta riacquistata la lucidità necessaria, sono sempre tornato alla mia stanca rassegnazione quotidiana fatta di cibi scotti, birre in sconto e cose che non trovo.
Ora, dove tutta quella sacrosanta roba che continua a sparire in casa mia finisca, non mi è dato saperlo. ma sono convinto che quando me ne andrò da questo indemoniato buco merdoso e ladro, i nuovi inquilini troveranno un tesoretto fatto di orologi, chiavi, bottiglie di birra, calzini, tartarughe d’acqua e fottutissimi dvd.
Fatto sta che sono sette ore che sto cercando i miei occhiali da sole in finta tartaruga con le lenti scure e, ormai, fuori si è fatto buio e non mi servono più.
Fanculo casa del cazzo, tieniti anche quelli, io scendo al bar nudo.

lunedì 17 ottobre 2011

Street Fighter

Non ho mai finito Street Fighter, non importa quello che ho detto. Ho giocato pochissime volte per un paio di schemi al massimo. Ogni partita era un colpo alla mia virilità. Ancora oggi non riesco a capire le funzioni di tutti e 6 i tasti. Per non parlare della mezzaluna disegnata col joystick. Era tutta apparenza, passavo i pomeriggi estivi in sala giochi a guardare giocare gli altri, dispensando consigli per sentito dire. Ero il veicolo delle leggende metropolitane. Sono io che ho inventato quelle combo che ti facevano vincere automaticamente l’avversario. Quelle che nemmeno se cerchi su internet le trovi. Roba da coccodrilli nelle fogne come canta Bersani, Samuele. Ed era più o meno in quel periodo che mi si formava il carattere secondo i libri di psicologia spicciola che mia mamma leggeva dopo cena seduta lontana dalla tivù che distorceva le esplosioni anni novanta dei film di Bruce Willis. Mi guardava accondiscendente crescere cercando di intervenire il meno possibile, seguiva una corrente new age che doveva portarmi a riscoprire la natura. E così non mi ha mai spinto a socializzare o ad uscire di casa. Ero l’unico dei miei amici che si poteva fare una nottata intera davanti alla televisione. Che poi finivo ad addormentarmi davanti alle pubblicità delle hot line come un vecchio arrapato. Mia mamma non capiva ma la cosa che volevo di più al mondo era diventare Ryu e col suo lassismo diventavo sempre più come Honda. Non so se mi spiego. Avevo questa pancia spropositata e capelli sporchi che rimanevano davvero dove volevo io. E andavo a scuola insicuro, con tutti che dicevano qualcosa mentre passavo ma che non mi rivolgevano più di tanto la parola. Mi chiedevano solo qualche consiglio su Street Fighter. Poi è uscito Tekken e nessuno mi si cagava più nemmeno di striscio. C’erano combo che non si potevano descrivere tanto erano complesse ed un numero indecoroso di tasti. La sala giochi sembrava sempre di più l’Enterprise con tutti quei tasti inutili che si illuminavano. Ed i giochi iniziavano a costare 2 gettoni invece che uno. Ed io mi sono messo a dieta ed ho fatto quello che ritenevo di dover fare. Che poi se era giusto o sbagliato non mi importava. È finita che ho uno schermo piatto e tutti i film d’azione anni ’90 e un kimono da Ryu comprato su internet.
Poi sono arrivati i Nationals e prima ancora i Fratellis ed i Franz Ferdinand e con la loro pessima musica il mondo che mi ha rovinato l’infanzia. Ora inizio ad avere qualche amico spostato con la metà dei miei anni e con lo stesso zaino Invicta Jolly che avevo io. E mi chiedono come si fa quella combo che non trovano nemmeno in internet per vincere automaticamente l’avversario. Ed io gli rispondo: “smamma sbarbo”.
Mia mamma sarebbe orgogliosa di me.