Tutto quello che ricordo del mio dentista è un persistente
odore di sigaro. Quello e due occhialini
tondi che l’avrei riconosciuto subito se fosse stato un personaggio di
“Indovina Chi?”. Mi trovava sempre qualcosa attaccato ai denti e mi faceva
sentire in colpa perché non avevo passato il filo interdentale. E mia madre
cercava di scusare il mio comportamento. Lo faceva guardandosi gli anelli
d’oro. Io sapevo che non sarebbe finita così. Uscivamo e mi rimproverava sempre
di farle fare la figura di quella che se ne frega, di quella che tira su un
figlio maleducato. Ed io mi guardavo le scarpe slacciate per tutto il tragitto
fino alla macchina. E stavo zitto.
Quando andavo dal dentista mi toccava sempre di aspettare.
C’era una ragazza sui venticinque anni veramente bella che mi faceva strada
nella sala di attesa. Aveva i capelli mossi che mi ricordava una foto vista di
nascosto nelle ultime pagine di Panorama. Quelle che servivano a dare sollievo
dalla valanga di parole che riempivano quel giornale assieme ad una vignetta di
Forattini che proprio non capivo.
Ed ora mi gratto i denti con la lingua cercando di staccare
un avanzo della cena incastrato tra i denti e ripenso a quei pomeriggi.
L’immagine di me bambino affogato su una sedia in pelle di design che sfoglio innumerevoli
uscite di Focus. Le pagine che giravo facevano quel rumore di usato raggrinzito
che pensavo mi si sarebbero sbriciolate tra le mani. Ogni tanto mi fermavo e alzavo
la testa. Guardavo la ragazza alla reception con degli occhi più grandi e
colorati di quelli che ho adesso. Mi ricordo che sembrava sempre allegra anche
quando era seduta e faceva i conti o giocava col filo del telefono. Aveva una
fossetta felice sulla guancia destra. Quando incrociava la mia testa che si
sporgeva a cercarla in bilico oltre la sedia sorrideva. Lo faceva allo stesso
modo che lo fanno i bambini: allargando al massimo la bocca al punto che le
labbra sembravano scomparire. Poi diceva: “tranquillo, il dottore arriva
subito”. Ed io ficcavo la testa nella rivista come se non avesse detto niente. Cercavo
di non concentrarmi su di lei. Mi convincevo che solo se avessi studiato tutte
quelle riviste consumate sarei riuscito ad essere importante. Forse addirittura
mi avrebbe chiamato “dottore” con la stessa morbidezza con cui scandiva le
parole. Ero felice quando mi guardava ed avrei aspettato per sempre senza
entrare mai a farmi visitare. Ma, si sa, le cose belle non possono durare per
sempre ed alla fine entravo dal dentista che puzzava di sigaro.
Di quei momenti tutto quello che mi resta sono quattro
otturazioni e la certezza che i capelli e le unghie crescono anche ai cadaveri.
Finalmente sono riuscito a staccare questo pezzo di cena dai
denti.
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