Non è come nei film. In quella stanza ci sono un sacco di
persone e rumori di macchinari che vengono spostati su ruote da carrelli della Coop
avanti e indietro. Senza prestarci troppa attenzione. Con un automatismo
lugubre. Aspetti da un momento all’altro un colpo di sorpresa, qualcuno che
gridi al miracolo ma non succede. Ti passi la mano sulla spalla trafiggendoti
di aghi arrugginiti il cervelletto. Trattieni il respiro. Un infermiere vestito
di azzurro controlla una macchina e appunta qualcosa ai piedi del letto. Ti
mordi il labbro e sfuggi il suo sguardo. Sai benissimo cosa ti vuole chiedere.
E non ti vuoi vedere costretto a rispondere a una domanda del genere. Non sei
bravo a mentire, figurati in un momento del genere.
Ti senti falso con le tue mani in tasca, un imbucato alla
festa di compleanno di quella ragazza che ti piaceva alle superiori. Non ti sei
mai sentito così con lei e quasi vorresti farla sentire in colpa con una di
quelle pugnalate che solo il peggiore te riesce a dispensare. Ti calmi, guardi
circospetto attorno e vedi molte facce con la tua espressione. E troppe mani in
tasca. Appoggi la tua alla sponda del letto, la senti muovere per l’aria che
gonfia il materasso.
“è per evitare le piaghe” hanno detto.
E poi ti hanno lasciato qua senza nessuna istruzione sul da
farsi. Con tutta questa gente che si muove nelle loro routines. Vorresti
fermarli tutti, chiedere di andarsene. Per Dio!
E non le hai ancora detto niente.
Non l’hai nemmeno guardata in faccia.
Hai visto delle bende avvicinandoti e hai spostato lo
sguardo.
Ti sforzi di alzare la testa e ti strappi la maledetta
spalla.
Sapore della colazione che rimandi giù in fretta.
Rumori indistinti di pugni nello stomaco.
Ha i capelli più lunghi di come te li ricordavi. Ti aggrappi
alla speranza che non sia lei. Sei pronto ad andartene poi tra tutte le
medicazioni vedi il buco sotto il labbro dell’orecchino che ha smesso di
portare dopo troppo tempo per non lasciare un segno.
Inghiotti una palla da tennis.
Vorresti dirle che ti dispiace ma passa di nuovo
l’infermiere e abbozza un sorriso. Deve averlo imparato a qualche corso, questo
stronzo arrivista. Chissà in quanti ci cascano. Le hai viste le lettere e i
disegni appesi nella sala di attesa. Capace che pure questo l’hanno chiamato
“Angelo”. Ti viene in mente quella scena di Kill Bill dove c’è un tizio che si
presenta come “sono Buck e sono qui per fottere” e va in giro sopra un’auto che
si chiama Pussy Wagon. Vorresti dirgli che l’hai scoperto il suo giochetto e
che se non fosse per la spalla e la milza gli spaccheresti il culo. E magari ci
riesci lo stesso. Ma lui se n’è andato via trottando dietro un carrello con un
computer attaccato.
Cerchi quindi un po’ di intimità tirando le tende
impermeabili che separano i letti ma lo spazio si fa più stretto di quello che
credi e ti trovi schiacciato tra il letto ed un macchinario di quello accanto.
La cosa che ti stupisce di più è che non ha il suo solito
odore. L’ha sempre avuto, anche appena uscita dal mare con quel costume nero
che spostava per lasciare abbronzare più pelle possibile. Guardi la tua mano
che non si riesce a staccare dal letto. A toccarla.
Ha un tubo in gola tenuto fermo sulle labbra con un adesivo.
È tranquilla e probabilmente sei l’ultima persona che
vorrebbe fosse lì.
Così te ne vai, senza nemmeno dire che ti dispiace.
Sputi la colazione, quindi ti lavi faccia e mani con
l’amuchina.
Quando esci nessuno ti chiede niente.
E proprio non sai se questo ti fa piacere o meno.
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