In ospedale c’è un odore irreale di bagno sterilizzato senza aprire le finestre. Le persone camminano per i corridoi sospesi come se dovessero stare attenti a non schiacciare le uova che si trovano sotto ai piedi. Fuori dai reparti sembrano tutti in preda a pensieri distaccati a milioni di anni da lì. Quasi dormissero ad occhi aperti. E passano i medici veloci cercando di non incontrare gli sguardi. E sono più bassi dei loro omologhi che si vedono in televisione. Così normali che ti domandi se li hai già visti da qualche parte. Così normali che nessuno si fida. E quindi ci si accoda per chiedere spiegazioni, pronti ad argomentare i benefici di una medicina conosciuta su un sito internet. La parola che sento ripetere più spesso è: “perché”, un perché affermativo però. Poi mi distraggo a cercare la mia ombra. In ospedale non ci sono ombre, sarà anche per questo che ogni volta che ci entro mi sento già morto. E tratto le persone con una cordialità sussurrata. E li guardo mentre mi lasciano posto in ascensore sforzandosi di non guardare la canula che mi esce dal braccio come fosse una malformazione dell’osso.
“a che piano?” mi chiedono.
“lottavo”.
E loro spingono per me facendo suonare appena i braccialetti pesanti che hanno al polso.
Nessuno dice niente.
Tutti con le braccia lunghe a leggere i numeri rossi che contano i piani.
Siamo meno bianchi di quello che sembriamo.
Ci prendiamo una pausa da noi stessi dentro quell’ascensore arancione.
Poi arriva l’ottavo piano e non mi muovo.
Aspettano ancora qualche secondo prima di parlare. Ma lo sento che mi guardano tutti con gli occhi fissi davanti a loro.
Poi un uomo respira “non è il suo piano questo?”.
Mi guarda attraverso lo specchio alle mie spalle.
“no”
“ne è sicuro?” dice con l’indice premuto contro il pulsante per tenere aperte le porte.
“certo”
Toglie il dito e ripartiamo.
martedì 2 aprile 2013
Lottavo piano
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento