All’ufficio
postale mi siedo accanto ad un tipo sulla quarantina con la barba di
una settimana e i capelli arruffati che sembrano un nido d’aquila. Con
una giacca in feltro che ha visto tempi migliori e una camicia a quadri
da taglialegna canadese, sacco informe verde militare vicino ai piedi,
se ne sta
immobile in silenzio piegato su un saggio dalla copertina ingiallita. Non so perchè ma da dentro lo stomaco mi sento torcere
qualcosa. E’ la stessa sensazione che si prova nella prima fase
dell’innamoramento ma in cuor mio ne riconosco una natura completamente
diversa. Gli do un colpetto con il gomito per richiamare la sua
attenzione e senza nemmeno rendermene conto gli sto già chiedendo “non è
che per caso ha insegnato matematica all’Università di Berkeley dal 67
al 69?”.
Serafico
alza gli occhi dalla pagina per stamparli sui miei. Mi sento addosso
un peso insopportabile. Dopo una pausa di qualche secondo, senza nemmeno
un filo di voce o un cenno del viso, torna ad immergersi nella sua
lettura.
A
quel punto cerco di allontanarmi da quel posto il più velocemente
possibile. Sgomito per
raggiungere l’uscita facendomi largo tra la folla scomposta che scocciata mi lancia sguardi incendiari.
Mi
fiondo dentro il primo bar che incontro. E' il classico buco lercio di città con le perline scure fino a metà parete,
pubblicità di bibite di qualche decennio fa e puzza di aria consumata. Cerco di sbarazzarmi del
pallore della mia faccia prendendo una boccata d’aria e infine ordino una birra
fresca al cinese senza età dietro al bancone.
Tiro un sorso di qualche
secondo e aspetto pazientemente che una detonazione spaventosa spazzi
via qualsiasi cosa si trova nell’arco di una decina di metri intorno
all’ufficio postale. Poi si creerà un formicaio di persone intorno
all’edificio, da lontano le sirene annunceranno l’arrivo dei Vigili del
Fuoco, della Polizia, delle ambulanze, forse dell’esercito e sicuramente
un capannello di giornalisti farà a gara per contendersi
le prime testimonianze filmando il dramma riflesso negli occhi dei
superstiti.
Mi
ritrovo a chiacchierare con non-so-chi seduto a un tavolo malfermo con un pezzo
di cartone sotto una gamba e una selva di bicchieri vuoti sopra. Ormai
si è creato un clima molto familiare intorno a me: uno fuma un filtro di sigaretta spandendo in ogni dove
odore di copertone bruciato fragandosene
bellamente del divieto alle sue spalle, un altro sta buttato con la testa sul
bancone e le braccia penzolanti nel vuoto in attesa che San Pietro gli
dia un calcio nel culo per spedirlo all’inferno mentre altri due loschi
individui si ostinano a volermi coinvolgere in una questione che non
riesco nemmeno a mettere a fuoco.
Mi
caccio in gola l’ultimo sorso di birra rimasta nel bicchiere e fisso il
soffitto per qualche minuto. Le pale immobili di un ventilatore secolare si
piegano sotto il peso di troppa polvere e una macchia di umidità disegna
una lingua di lava che scende fino a metà parete per poi nascondersi dietro il legno gonfio. Una luce al neon dolcemente
tremolante ci piove addosso come nebbia leggera mentre un odore di cibo
cinese si mischia all’aria viziata del locale.
Mi
infilo una mano in tasca e, come dalla cesta di una riffa di paese, estraggo
una mezza dozzina di bollettini postali non pagati. Pessima pescata!
Butto gli occhi oltre l’unto della vetrina e scopro che la notte è
calata sulla città. Schivo i fanali delle auto scintillanti che si
rincorrono sul viale e arrivo a mettere a fuoco l’ufficio postale
perfetto e completamente integro dall’altro lato della strada. Deduco
che non c’è stata alcuna detonazione. Nessun attentato dinamitardo ha
spazzato via quel maledetto ufficio e tutto quello che ci stava dentro.
Probabilmente si è inceppato l’innesco, oppure l’umidità ha bagnato
l’esplosivo o ancora l’attentatore si è ricreduto e ha deciso di non
compiere più quel gesto ignobile che aveva programmato.
Il mio alibi pian piano inizia a perdere pezzi strutturali e comincia inesorabilmente a sgretolarsi. So con certezza che di quell'alibi in pochi secondi non mi resterà che un cumulo fumante di niente.
Fatto sta che la
birra è nuovamente finita.
L’orologio
impietoso mi scarica addosso tutto il peso delle undici di sera. Nella
testa mi si aggrovigliano covoni di prospettive nefaste complicando la situazione e
moltiplicandomi i sensi di colpa. Provo a ragionare per trovare una soluzione ma nella mia testa i pensieri si rincorrono senza arrivare da nessuna parte.
Sono in giro dal pomeriggio per pagare bollette, multe e l'iscrizione ad un cazzo di esame di stato ma dopo sette ore, come del resto negli ultimi trent'anni, non ho concluso nulla. Niente.
Il mio sguardo si muove
spasmodicamente per tutto il locale in cerca di una via d’uscita, di un
appiglio. Il terreno sotto i piedi comincia scottare, poi a tremare e infine si crepa lasciando che un abisso spalanchi le sue fameliche fauci in attesa di inghiottirmi.
Non ho mai creduto nei Supereroi ma adesso è giunto il momento di cominciare a farlo. Non mi
resta altro che sperare nell’intervento di uno di loro, uno qualsiasi; mi basta solo che abbia dei maledetti superpoteri in grado di portarmi fuori da queste
sabbie mobili affamate.
Quando
la porta del bar si apre un refolo di aria gelida si insinua nelle mie
ossa lasciandomi addosso un capotto di brividi. Istintivamente alzo le spalle come
per proteggermi da un freddo polare improvviso.
Qualcuno si avvicina al banco e con un filo di voce ordina un Wild Turkey, doppio.
Molto cinematografico, lo ammetto.
Sento
dei passi avvicinarsi alle mie spalle. Sono suole di gomma ormai
talmente secche che fanno, sulla vecchia graniglia del pavimento, lo
stesso effetto del cuoio. La vagonata di
birre di questa serata mi offusca la vista e mi irrigidisce
l’udito. Avverto però nitidamente l’odore fresco di resina e aghi di pino
del Montana inebriarmi le narici. Posa un sacco verde militare, prende
la sedia accanto a me, si toglie platealmente la giacca in feltro e
l’appende allo schienale prima di lasciarsi cadere pesantemente. Si
porta il bicchiere alle labbra e ne prende un piccolo sorso
assaporandone l’aroma. Non gli lascio il tempo di portare a termine la
sua recita perchè ho un fardello di problemi sulle spalle e una gran fretta di uscire di scena.
Mi
alzo un pò malfermo sulle gambe e, minacciandolo con un indice
inquisitore che non mi appartiene, ho appena il tempo di sbrodolargli
addosso qualcosa del tipo Theodore John Ted Kaczynski, maledetto
montanaro luddista dei miei stivali, oggi hai fatto l’errore più grosso
della tua vita ma credimi, te ne pentirai.
Poi le palpebre calano sui miei occhi come un pesante sipario mentre le luci si abbassano celebrando la fine dello spettacolo.
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