Oggi
è il primo ottobre e la mia vita sta implodendo come un vecchio
palazzetto del ghiaccio abbandonato. Mi sento come una scia d’aereo che
nel cielo si disperde lentamente fino a confondersi completamente tra il
silenzio delle nuvole. Il vino brucia tutta la notte anche se poi la
mattina rimane sempre la stessa, terribilmente intatta.
Laura
non si è nemmeno voltata a buttarmi i suoi occhi ghiacciati per
l’ultima volta prima di attraversare la strada. Io invece l’ho inseguita
con lo sguardo fino all’ultimo, quando l’autobus l’ha inghiottita prima
di rombare via lontano da me.
Poi
più niente. Il suo profumo, il suo calore e la sua voce si sono
annullati nei miei pensieri come se non vi fossero mai entrati e da
condannato mi sono buttato nell’indifferenza generale di milioni di
persone tutte uguali, luci oblique, odori limpidi e sentimenti asettici.
Un bagno gelido di solitudine mi ha investito nell’immensità di questa
città ancora estiva.
Ho
buttato gli occhi al cielo senza vedere niente, solo minacciose nuvole
di bambagia immobili e tracce in dispersione: segnali che non so
interpretare. Passo dopo passo sono tornato verso la concretizzazione
del mio dolore. Nessun nome in testa, nessun viso nella memoria, solo
sconosciuti intorno a me e cemento, ferro e vetro, plastica e niente
più. Bottiglie opache buttate per strada come i ricordi di un ubriaco,
cocci di amori infranti abbandonati in ogni dove e polvere, solo un
sottile strato di polvere a coprire ogni cosa.
Poi un flash improvviso e davanti agli occhi un autoscatto di qualche anno fa.
Ci
ritrae insieme, sorridenti con la faccia coperta per metà dai capelli, i
suoi. Soffia un vento forte dal mare che alza milioni di finissimi
granelli di sabbia e sparge un odore salmastro ovunque. Un fresco sole
tardo primaverile, un anonimo lungomare alberato, qualche signora ancora
infagottata a passeggio e i nostri occhi pazzi, strizzati e felici.
Vent’anni di fantasie, milioni di sogni e un tappeto di possibilità si
srotolano ai nostri piedi, e noi, ebbri di vita e padroni di un nuovo
mondo, ci lanciamo spensierati sulle dolci note di mille desideri
urlando per la gioia fino a sputare le tonsille dal finestrino dell’auto
lanciata a tutta velocità tra le braccia del destino.
Era
il 2 giugno, non potrò mai dimenticarlo, quando qualche ora dopo lo
scatto di quell’istantanea, quel che restava di mio nonno se ne andava
per sempre in una camera da letto scura, triste e anonima mentre io
convincevo Laura a concedersi a me in una vecchia stanza presa in
affitto con due soldi.
Ricordo
l’odore di muffa che impregnava le lenzuola umide, le pareti irregolari
e gonfie vecchie di secoli con volte in mattoni, il pavimento di gelido
cotto scuro usurato e crepato che faceva dondolare il letto, la
finestra ammalorata affacciata sulla strada e i raggi di sole che
filtravano dai vetri per andare a baciare la sua pelle liscia e
profumata perfettamente sagomata distesa accanto a me. Un sogno in tre
dimensioni che potevo accarezzare e assaporare. E la presenza pesante di
quel povero vecchio crocifisso cupo appeso sopra la porta d’ingresso a
monito di un qualcosa che solo in seguito ho colto: l’inizio di qualcosa
coincideva con la fine di qualcuno. Quasi avessi pagato con un quarto
del mio sangue il prezzo della felicità di quel momento.
Poi
il veloce susseguirsi a ritroso delle stesse stagioni, dei medesimi
posti, volti e sensazioni in una sconcertante normalità. Una vita fatta
di giorni che iniziano con il bruno tramonto per terminare con fumose
albe scure condite da luci ed ombre, grasse risate e lacrime amare:
niente di più di una normale intensa quotidianità condivisa in ogni suo
attimo.
E
la lenta presa di consapevolezza di questo inesorabile ritorno, la sua
persona che mi sfugge lentamente, mi si allontana giorno dopo giorno
impercettibilmente fino a trovarla distante anni luce, accanto a me, nel
nostro letto comodo con le lenzuola pulite e profumate. Le persiane
chiuse al giorno, i singhiozzi masticati e le tracce di sale delle
lacrime asciugate. Quel silenzio insistente e pesante, quelle parole
spigolose e ruvide al posto delle carezze e dei sorrisi solo accennati, i
più dolci. Le vene che gonfiano di rancore le soffocanti e tediose
giornate che si srotolano intorno alle nostre vite ormai lontane.
Infine le porte del bus sbuffano e lei si confonde tra la gente.
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