martedì 4 settembre 2007

La vita è come un film porno

“La vita è come un film porno...” fece una pausa di silenzio per prendere fiato, poi proseguì, “...prima o poi c’è sempre qualcuno che lo prende il culo...”
La pausa che seguì sembrava voluta per enfatizzare il gran finale della frase
“...e mi sa proprio che la parte che mi è spettata sia proprio la meno fortunata” Tirò un’altra volta il fiato, sempre con rinnovata fatica, dunque provò a tossire senza intimorire per nulla lo strato di catrame e catarro che lastricava i suoi bronchi e polmoni. Rantolò un altro pò in preda a spasmi involontari tra le lenzuola sudate del letto, poi, contrariamente alla grazia cinematografica, con gli occhi spalancati, morì. Lo sguardo che morendo lasciò rivolto al mondo sembrava il frutto di una scoperta terrificante e sconvolgente.
Carlo constatò il decesso. Arturo aprì le porte della camera. I due infermieri entrarono nella stanza mentre Carlo ed Arturo uscivano. Quando si trovarono di fronte al parroco dell’ospedale, Carlo disse
“mi spiace padre, ma prima di morire ci ha detto di non farla entrare nemmeno adesso che se ne èa andato”
ci fu il silenzio necessario per prendere dalla tasca anteriore dei jeans il pacchetto delle sigarette e portarne una alla bocca, frugare nella sinistra, individuare l’accendino e con una maestria da veterano, darle fuoco. Dopo una profonda boccata si sentì pronto per continuare
“...sa, ha paura di finire in paradiso e riincontrare quel figlio di puttana del suo vecchio”
Il prete, col capo leggermente voltato sulla sinistra per scansare la nuvola di fumo, si segnò velocemente rimanendo in silenzio.
Carlo diresse lo sguardo ad Arturo e con uno scarto del capo in diagonale, da sinistra verso destra, si mise in cammino nel corridoio verde.
Il silenzio regnava in tutto il reparto facendo a botte, per avere il sopravvento, con l’odore insopportabile di disinfettante e malattia. La lotta fu dura e serrata ma, alla fine, ad Arturo parve avere il sopravvento l’odore.
In fila indiana, a due passi di distanza l’uno dall’altro, lasciandosi alle spalle una scia di fumo, percorsero tutta la lunghezza del corridoio. Scesero con l’ascensore i tre piani sino a terra e si diressero verso l’uscita. Dai vetri della portineria si scorgeva il cielo imbrunire. Giunti sulla soglia, davanti ad un cartello bianco rosso e nero, appeso al muro, Carlo lesse
“vietato fumare in tutti i locali interni, la direzione...”
Carlo si guardò attorno facendo roteare la testa prima a sinistra dunque a destra. Non vide nessun altro tranne Artuto. Abbassò lo sguardo e vide un grosso posacenere ripieno di sabbia da lettiera per gatti. Diede una lunga ultima aspirata e, con la mano, lentamente immerse la sigaretta tra i granelli di sabbia. Espirò. Spinse le maniglie antipanico rosse della grande porta a vetri d’ingresso, poi uscì. Arturo lo seguì.
Il cielo non era ancora così bruno. Dovevano solo disabituare gli occhi da quella luce asettica e fredda che inondava l’interno dell’ospedale. Dopo qualche minuto cominciò a calare veramente la sera.
I due stavano camminando per il viale che porta verso il centro mentre il traffico del rientro si intensificava in entrambe le direzioni. Arturo ruppe il silenzio
“cazzo Carlo, non abbiamo preso l’ora del decesso.”
Dal tono sembrava rammaricato quasi come si fosse dimenticato di mettere le 200 lire nella cassa dopo aver acceso la candela alla cappella di San Rocco.
“Che ore sono adesso?”
“Non lo so, non ho l’orologio”
Arturo scrutò il cielo ed il passaggio di un aereo gli catturò l’attenzione “Beh, facciamo finta che siano un quarto alle sette”
“Quindi, più o meno, se ora sono le sei e quarantacinque, lui sarà morto alle sei e mezza circa” calcolò Carlo.
“No, mi sa che non regge. Alle sei e mezza suonano le campane, non è vero?”
“Mi sa di si, ma io non ho sentito suonare nessuna campana”
“Appunto, quindi non può essere morto alle sei e mezza, dev'essere stato prima”
“Ochei, ma quando il Giec ci chiederà a che ora è morto, cosa gli diciamo?”
“Gli diciamo che è morto alle sei. È un’orario bello e facile da ricordare...”
“Va bene, allora facciamo che sia morto alle sei, all’ora dell’aperitivo” concluse Carlo.

Come al solito, dal Giec i tavoli erano tutti liberi. Carlo ed Arturo aprirono le porte e si andarono ad unire agli altri tre reduci alla barra del bancone. Si appollaiarono insieme agli altri sugli sgabelli, ruotandosi come avvoltoi le posizioni man mano che qualcuno si alzava per andare al bagno. Il bancone di legno era come al solito umido e l’odore che si respirava nel locale sapeva di muffa. Le uniche luci accese, pendavano grevi dal soffitto proprio ad illuminare il bancone zozzo. Da quando il Giec aveva venduto l’unico tavolo del locale, aveva spostato dal centro della sala a sopra il bancone i due lampadari da biliardo, dal cappello di vetro verde, che ora pendevano minacciosamente sulle teste dei sei. Sistematisi in silenzio, il Giec, da dietro il banco, spillò loro una media bionda doppio malto. Il vetro pesante dei due bicchieri riecheggiò sordo al contatto col legno e dal fondo si sollevarono delle bollicine che andarono ad alimentare lo strato di schiuma candida in superficie.
“Allora?” fece uno dei tre rompendo il silenzio.
“E’ morto” rispose Carlo.
Tutti abbassarono lo sguardo sul bicchiere ed all’unisono lo sollevarono creando un semicerchio al quale, da dietro il bancone, partecipò anche il Giec. I bicchieri si unirono tintinnando.
“A Guido!” avanzò Carlo. Poi ognuno diede un sorso al proprio bicchiere.
“Se ne è andato sereno?” chiese un altro dei tre rompendo il silenzio.
Arturo e Carlo, con i gomiti appoggiati al bancone e le spalle inarcate fecero ciondolare la testa.
“Ha detto qualcosa prima di lasciarci?” chiese il primo.
“Con la poca aria che gli era rimasta nei polmoni ha accennato solo a due cose” Carlo diede una sorsata generosa, schioccò la lingua sul palato e socchiudendo le labbra continuò “a quel bastardo di suo padre, che dalla paura di riincontrarlo da qualche parte ha persino rifiutato l’estrema unzione del prete ed i funerali in chiesa e poi al brutto scherzo che gli ha riservato la vita”
“Già” disse il Giec “è stato sfortunato due volte. Prima per essere stato il figlio di suo padre campato cent’anni, poi per essersi ammalato appena quel figlio di puttana è morto”
“Quel demonio d’un vecchio gli deve la vita che gli ha rovinato...” il secondo lasciò sfumare il discorso verso un silenzio pesante.
“Che ore erano quando è morto?” chiese il terzo.
“Più o meno le sei” fece Arturo.
“Non erano ancora suonate le campane” fece eco Carlo in rinforzo.
“Checcazzo!" raddrizzò la testa il Giec mentre con la mano sinistra toglieva lo strofinaccio dal bicchiere che aveva nella destra. "Non mi ricordo esattamente di che giorno ed anno si trattasse...” sul suo viso si delineò una smorfia di commosso sorriso “...ma ne sono certo, alle sei in pacca di quel giorno, quel povero cristo mise per la prima volta piede in questa bettola, e...” scuotendo la testa lentamente mentre riponeva il bicchiere tra quelli asciutti “...alle sei di oggi se ne è andato”
Di nuovo ci fu silenzio.
Giec spillò altre sei medie doppio malto. Una era per lui. Senza dire nulla fecero un altro brindisi lasciando toccare i bicchieri in onore di Guido.
Il secondo dei tre, quello seduto al centro, si alzò per andare al bagno. Diedero un sorso poi, Carlo conquistò il suo posto ed Arturo guadagnò una posizione verso destra.

sabato 1 settembre 2007

'fanculo Bologna

Aspetti ancora qualche minuto, un ultimo sospiro. Poi giri la chiave e le valige stanche vibrano col motore. Puzza di olio bruciato. Ti ripeti che niente è per sempre. come una verità scoperta nei Baci Perugina. In bocca il sapore più amaro di un caffè. Controlli nell’orologio che le telecamere della città siano spente. Le gambe della zona a traffico limitato ti si aprono come un ponte levatoio. Morbidamente sfili per quella via di alcuni locali che conosci. Ci venivi tempo fa. C’è sempre la stessa gente tra poche ore la strada sarà ingombra di auto lasciate in doppia fila per una bevuta veloce. Potresti rimanere ancora un po’ ma non è il caso di abbandonarsi a facili nostalgie. La musica per radio ti aiuta. Una canzone ricorda le vacanze. Le rocce mangiate dal sole, lucide di sale. I vestiti appiccicati al costume bagnato. Quel bar scavato in una posizione incredibile. E tutte le foto ancora da riordinare. In fondo è bello partire. Per un po’ qualcuno parlerà di te arrivando alcuni giorni anche ad immaginarti. Domandandosi: “che farà?”
Eccoti dietro una scrivania incassata in un mobile vecchio di quelli che arredano le case in affitto. Dondolando su una sedia pericolante con un piatto sulle ginocchia, la forchetta in mano ed un libro e computer ad occupare lo spazio occupabile del tavolo. Dalla cucina suona, distorta dal corridoio, la radio deliberatamente dimenticata accesa. Rumori familiari. Il pavimento è coperto di jeans che vai ammucchiando meravigliandoti di averne tanti. Alcuni sono sfilacciati sul fondo dove li avevi arrotolati. C’è anche qualche maglietta più o meno sporca. Dovresti riordinare e sai non lo farai perché ti piace avere qualcosa da dover fare. Nell’aria l’eco di un incenso spento da giorni. Raccogli un boccone di cena con la forchetta avendo ben cura di non sporcarti. Probabilmente uscirai anche quella sera.
Mi passi accanto ma non ci notiamo. Io distratto dalle mie scarpe e tu dalla freccia a sinistra. Entri nella strada grande che, come le arterie sembra fatta per velocizzare il passaggio. È proprio così: questa è la strada più veloce per andarsene. Anche nelle ore di punta quando si intasa. Quando suonare il clacson è il solo modo per rilassarsi.
Ora non c’è molto traffico e passi veloce e il paesaggio è luminoso come appena lavato. Sterile come un tunnel. Da lontano tutto sembra più bello. Anche le puttane buttate come la pastura dei pescatori vicino all’autostrada. Quelle storie solo immaginate. Autocontrollo, morale.
Pensi a te meravigliandoti. Non l’hai fatto spesso ultimamente. Hai parlato discorsi non tuoi. Ripetendo il sentito dire, quello che bisogna dire. Hai mentito. Espresso certezza, gioia e un calore non tuo. Anche quella scelta di pochi mesi prima non è tua ora. Il libero arbitrio è una illusione. Passiamo la vita ad adeguarci alle aspettative della gente.
Accendi una sigaretta. Butti fuori tutto con un lungo soffio. La mano destra batte sul volante i quattro quarti di una canzone veloce. Acceleri e te ne freghi.
“’fanculo Bologna”.
Mi devi ancora una birra.