martedì 27 aprile 2010

Intermezzo musicale lento, roba da limone

È successo a miliardi di chilometri da qua in un mondo che sembra più una parodia del passato in cui tutto risulta divertente. Anche rompersi una gamba per inseguire un sogno e arrivare di corsa ad aprire la porta al postino. È che non so perché mi viene in mente ora. Forse solo non ho niente da inventare e ancora tempo per qualsiasi decisione di attività. Procrasitiniamo quindi decisioni e un’altra giornata da archiviare. Rimaniamo nel purgatorio del tardo pomeriggio pubblicitario e dai colori decisamente troppo anni ottanta per lasciare sopravvivere la logorroica televisione. Con uno nuovo slang che avanza ricordandoci l’evoluzione della specie al contrario. L’implosione.
Ricordo il pranzo. E Chiara. E che avremo mangiato al massimo una volta assieme in quella sua scalcagnata tavola triangolare appoggiata al muro. E avevamo mangiato qualche pasta condita con un sugo direttamente dal barattolo che aveva raffreddato immediatamente il piatto. Ed io avevo una camicia rosa. La stessa che ora ha i polsini consumati e non va più bene nemmeno sotto ad un qualche maglione. Che aspetta la pena capitale da una gruccia in angolo nell’armadio. Qualcuno direbbe che avrei dovuto fare il cambio di stagione. E non avrei niente da ridire. Niente di cui ridere. E quindi torno a quel’1 e 15 in quella stanza mansardata. O mansarda stanzata dall’impossibilità abitativa che ne suggeriva. Dai mobili in legno a vista. Dal divano letto sempre aperto nel soggiorno. C’era anche un computer lasciato acceso a svuotare di significato la parola videonoleggio per contribuire a modo suo al progresso linguistico del nostro ridondante dizionario. E ci dicemmo buon appetito immaginandomi più grande mentre lei sembrava immaginarmi più interessante. Probabilmente per il piacere di farci false illusioni. Probabilmente per il piacere di confondersi. Immaginarsi in un film che ci guardano da fuori. più o meno interessati. Ma lì con la luce bassa ed una seduta diventata ergonomica dall’abitudine.
E non so cosa volevo dire.
Ma mi sono stancato.

mercoledì 14 aprile 2010

La grande rimpatriata

Non posso farne a meno eppure lo so che non dovrei. Me l’hanno anche insegnato ad un corso di scrittura, di quelli che si pagano. Di quelli dove puoi anche berti una birra durante la lezione. Quelli in cui c’è l’insegnante di spicco. Qualcuno che è stato più o meno pubblicato e più o meno letto. Qualcuno che per quelle due ore tutti vorremmo essere. Magari con 25 anni di meno.
Insomma il concetto lo conosco: mai parlare di qualcosa di troppo attuale. Soprattutto mai parlare di qualcosa che non hai nemmeno molto chiaro perché ci hai bevuto troppo sopra.
E c’è anche qualcosa tipo: la vita vera non è interessante. È solo uno spunto, una brutta copia.
Un refuso. Quanto mi piace questa parola.
Soldi spesi bene in quel corso.

Nonostante tutto ieri ci siamo rivisti dopo tanto tempo. Una cosa in grande col tavolo prenotato, i segnaposto, gli album fotografici e le macchine fotografiche digitali cariche come un ventenne con un vodka redbull in mano. Il locale era a metà tra il ricercato e il kitch arancione e azzurro anni ottanta. Le bariste non erano male. I prezzi della birra inaccettabili.
Per l’occasione avevo pensato a comprare un vestito per distorcere la percezione che si poteva avere della mia vita. Fortunatamente poi mi distrassi a pensare alla fine che poteva aver fatto Caterina. Mi avevano garantito ci sarebbe stata nonostante non fosse raggiungibile su Facebook. Mi ero anche informato, non aveva ancora figli. Qualità sempre più rara.
Quindi mi ero deciso ad andare per lo meno dal barbiere. Ma non avendo prenotato al massimo potevo farmi una lampada.
“guarda oggi proprio non ce la faccio, se vuoi puoi fare una lampada” mi aveva detto così Mirko all’ingresso col suo sorriso deliberatamente ambiguo e il suo fare piacione che tradiva una certa eterosessualità controproducente.
Declinai l’invito e me ne andai avvilito con i miei capelli confusi che tiravano un sospiro di sollievo.
Detto ciò torniamo alla serata. O arriviamoci che è quasi ora di cena e le necessità fisiologiche sono decisamente prioritarie a qualsiasi sbrodolata di fatti miei più o meno accaduti ieri.
Fatto sta che alla festa c’era Caterina ed era forse più bella di come me la ricordassi, ma ero già ubriaco e non molto obiettivo.
Mi sembrava avesse anche le tette più grosse.
Qualcuno ha anche detto deciso come il Capitan Findus che se le fosse rifatte.
Qualcuno sosteneva che il Bologna avesse ottime possibilità di salvarsi dall’imminente retrocessione.
Qualcuno gli dava dell’imbecille e veniva quindi definito gobbo.
Io posso dirvi che Caterina me la sono scopata.
Ma si sa: in queste occasioni si raccontano un sacco di stronzate.

Penso sempre di più che il nostro grande mentore pluripremiato scrittore di spicco nella Bologna underground avesse ragione.