venerdì 14 novembre 2008

una mattina, il 14 novembre

Anche quella mattina allo specchio la faccia non era la sua. Era più la fotocopia di se stesso. Diluita con acqua piovana. Non necessariamente potabile. A volte non ci credeva. A volte pensava fosse un sogno. Rassegnato. Altre volte stigmatizzava ghignando allo specchio: “il buongiorno si vede dal mattino”
“Già” si rispondeva accompagnato da qualche rumore generico non camuffato dal vetro sottile della cucina. Qualche volta anche dalla radio accesa. Eternamente indecisa tra una stazione ed un’altra.
Si mise quindi sotto la doccia. Il solito odore sterile di vapore aromatizzato da bagnoschiuma allungato. Sotto l’acqua uno scafandro umano rappezzato da qualche ora di palestra ed alcuni buoni propositi. Tipo smettere di bere, trovare il tempo per qualche lampada, finire di leggere Moby Dick. Pensò che quella era una giornata speciale. Scorreva mentalmente la sua logora agenda alla data oggi stesso: 14 novembre. Intanto si insaponava le palle con un sapone generico probabilmente dal PH sbagliato. E pensava a Giulia ed al suo detergente intimo lenitivo Infasil. E a quanto siano poco importanti i temi dell’amore vero nella realtà a dispetto dei film e di un sacco di libri. L’amore ed il sesso gli sembravano cose inflazionate. Il lavoro una merda.
Il problema è che non riusciva a pensare ad altro.
Sperava solo di risvegliarsi in un altro sogno, un’altra vita.
Iridescente.
L’acqua calda intanto tendeva al tiepido nonostante il rubinetto sparato sul rosso fuoco che in idraulica si legge caldo.
Si sciacquò veloce e recuperò l’asciugamano in servizio ormai da troppo tempo.
“Domani ti cambio” gli disse asciugandosi dietro le orecchie.
Lo specchio era appannato. Le orecchie pulite.
La finestra faceva passare un grigiore stronzo accompagnato da una pioggia ormai perenne.
Giulia non aveva mandato nessun messaggio nella notte.
Non che si aspettasse un “TI AMO”. Bastava un “MI STO GUARDANDO STAR TREK”.
Rimase perplesso disegnando una faccia sorridente sullo specchio.
Poi suonò la seconda sveglia.
Aveva 15 minuti per uscire di casa.
Il tempo di vestirsi.
Indossò la sua uniforme multibrand. Spense e riaccese il cellulare. Controllò le banconote ordinate nel portafogli. Si passò la lingua sui denti. Raccolse le chiavi ed uscì. Chiuse la porta e controllò di averla chiusa rifacendo un piano di scale.
Poi si suicidò.

Il biglietto diceva:

VAFFANCULO, MARCO MASINI

mercoledì 29 ottobre 2008

Nebbia

C’era la nebbia. Una impossibile nebbia invernale. Chissà perché. Il clima esterno ed il suo andavano di pari passo. Sincroni nell’insensatezza. Trascinati dagli eventi. Dall’entropia.
Si trovava a camminare sul marciapiede. Tempo libero, ore di libertà. Tutti i negozi erano ancora chiusi, c’era solo un assonnato barista che lambiccava con il lucchetto della serranda. Probabilmente inespressivo, insensibile: abituato.
Venne inghiottito dall’aria densa in pochi passi.
E l’ambiente vomitò lo sferragliare della serranda.
Poi basta.
Immaginò accendersi l’insegna al neon rosa e blu. La radio. La macchina del caffè. Una scatola di plastica contenente le paste del mattino. Avvenenti cornetti alla crema e insignificanti paste integrali al miele. Ed una sensazione di solitudine inghiottita come una medicina non poi troppo amara.
Erano passate le 6 del mattino.
Presto sarebbe iniziato ufficialmente il giorno. Quello incorniciato dai telegiornali ripetitivi. E dalle previsioni meteo.
E già: in effetti questa nebbia l’avevano prevista.

lunedì 13 ottobre 2008

Certi momenti riescono bene solo nei film

La incontro e mi saluta.
“Ciao” dice con lo sguardo incerto di chi si domanda se proseguire o fermarsi un attimo. Ha gli occhi azzurri. Il labbro superiore leggermente sporgente. Quando le chiude la bocca forma un cuore. Troppo largo però. Come quello di chi ha molto da dare per partito preso. E per questo si rovina la vita. Ed il cavo uterino.
Ha l’odore dei sogni: dolce e sottile dal retrogusto amaro del caffè della mattina. Una lontana sensazione di paglia. Quella che mi faceva prurito dietro le ginocchia d’estate, a giocare nei campi.
Non so cosa fare. In tasca un pacchetto di Marlboro non mie. Un tesoro recuperato su dei gradini davanti ad un negozio. Chissaperchè, visto che nemmeno fumo.
Le offro una sigaretta.
Mi guarda stupita.
Fisso la mia mano che regge il pacchetto aperto come in un film.
Raccoglie titubante uno di quei rotolini di tabacco dalla dubbia provenienza.
Penso al governo Allende in Cile come alla nostra relazione. Incastrata tra il dover essere e l’impossibile.
“Socialismo democratico”. Mi rimbalza in testa come quelle palle magiche da pochi euro che vendono nei distributori automatici davanti ai bar. Gli stessi che una volta distribuivano le cicles. Causa delle mie carie. Chissà ora.
E c’è questa giacca logora usata da me e da mio nonno. E prima da qualcun altro che l’ha venduta per poche lire in montagnola. L’unico elemento a darmi un piglio anticapitalista.
In tasca ho un iphone, 2 carte di credito ed un bancomat. Una tessera dell’Esselunga ed una della Coop per una questione di par condicio. Una tessera ikea per il caffè gratis.
Immagino lei non sappia niente di tutto ciò. Sono passati degli anni in fondo. Io ero qui e lei altrove. O forse il contrario. Il bello di due rette che non si intersecano sono le schegge impazzite che le attraversano entrambe creando incontri da effetto doppler. Ed eco. Per sentito dire. Le stesse amicizie, gli stessi gusti musicali. Facebook, probabilmente.
Lei accende la sigaretta. Forse immagina qualcosa da dire.
So che non possiamo ricominciare da dove abbiamo lasciato. Ce ne siamo dimenticati entrambi. E lo sappiamo. Immagino ci sia una punta di vergogna in tutti e due.
Ce ne siamo fregati.
Ma probabilmente questa è la mia versione. La sua magari è piena di recriminazioni. Non sono mai riuscito a mettermi nei panni di una donna. Mi stringono le palle e smaglio le calze. Poi non trovo la giusta tonalità di rossetto per ovviare all’effetto battona. Chiamiamola misoginia.
E lei mi guarda tirando dalla Marlboro accesa che si illumina di più.
Mi rendo conto che non ci siamo detti più di due frasi.
Quasi scontate.
Mi dice: “beh, grazie allora. Ci si becca in giro”.
Ma quando mai?
Erano 2 anni che aspettavo questo momento ed è stato il meglio che sono riuscito a fare.
Avrei potuto almeno regalarle il mio pacchetto di sigarette.

lunedì 22 settembre 2008

Sfogo domenicale

Tre posti di blocco affrontati come un condannato affronta tre volte la gogna e per tre volte viene graziato senza una reale motivazione.
La prima per la faccia d'angelo che porta.
La seconda per qualche motivo oscuro come la notte.
La terza per l'irrefrenabile desiderio di sorpasso di chi gli stava dietro.

Un senso di trasparente disinteresse lo avvolge e lo rende invisibile alla gente. Sparisce tra le pieghe delle coperte mentre fuori il termometro riporta dieci gradi centigradi. Temperatura sotto la media stagionale.

La notte condita da sogni torbidi come una birra di fosso, anzi di più, come cinque, sei birre di fosso. La sensazione di leggerezza dovuta alle bollicine accarezza la schiena e solletica la nausea.
Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra... bum.
Poi, facce nuove, nomi, situazioni, posti e parziali soluzioni. Solo parziali. Sesso con una ragazza che non ha nome, è solo viso: un'entità di capelli corvini, pelle liscia ed occhi d'ebano, denti ed orecchi al posto giusto. La testa diviene un'autostrada ingombra di pensieri con fari accesi e nevrotici clacson urlanti. Contemporaneamente inizia a piovere. Fuori. Progetti importanti sono ad un passo dal cessare di essere progetti per diventare realtà oniriche: come la formazione del GDBU, acronimo di Gruppo Di Ballo Uichis o come la sfida tra bolidi a quattro ruote scoperte su lucidi asfalti al limite del centesimo di secondo con Go Kart noleggiati fuori stagione, quando fa freddo e c'è umido. E molti altri ancora ma forse troppo poco assurdi per essere ricordati e riportati. Vanno solo sognati.
Scintille negli occhi annunciano il giorno. Bruciori e crampi allo stomaco ricordano la sofferenza della vita ed una cena frugale. Un chiodo alla tempia ed un cerchio alla testa richiamano più un gioco estivo da spiaggia che un senso di malessere da reduce dell'esistenza: "Vuoi vivere? Allora soffri!".

Mente locale attivata. Focalizzazione dei significati. Sintonizzazione delle sinapsi sul calendario. La messa è finita, giù dal letto.

mercoledì 17 settembre 2008

23 e 15

Ogni notte la vedevo. La anticipava un cartone per la pizza da asporto e nessun rumore. La intravedevo alla luce di un primo lampione. Sussulti dorati che increspano il buio o piscio di gatto sopra un capolavoro a carboncino: i due volti della notte. Per me era respirare vicino ad un lago di montagna. C’erano i suoi capelli raccolti in una coda e qualche volta abiti scuri. C’era il suo viso capace di sorridere e di incuriosirsi. Occhi che non si potevano vergognare nemmeno nel pianto. Ed il suo camminare semplice. Un piede dietro all’altro. Mi domandavo che odore avesse.
“Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, l’odore è quello del fegato” è sempre stata la mia frase preferita in formato Baciperugina.
Mi incuriosiva quella pelle chiara che si palesava al passaggio sotto le luci. Poi spariva e tornava anonima. Silenziosa. Ogni passaggio di luce era un accordo maggiore: semplice e chiaro. Di una bellezza pura e genuina. Poi sfumava. Il tempo irregolare e morbido del mare.
Quella sera non aveva nessun cartone da pizza con se. Le mani spinte nelle tasche e la testa bassa. Come se piovesse. La grondaia risplendeva di un ghigno ramato e asciutto. Odore di estate. Ritornai alla mia sigaretta.
De Gregori cantava: “…e quanti mascalzoni hai conosciuto e quante volte hai chiesto aiuto ma non ti è servito a niente…”
Ed il fumo mi usciva dalla bocca, lo immaginavo entrare dal naso. Una scena consumata: da nausea. E non riuscivo a fare niente. Bloccato come un uovo sodo mandato giù intero, senza maionese.
Lei passò oltre. Ricordo un piede dentro una Converse All Star Bordeaux illuminato dall’ultimo lampione che riuscivo a vedere. E basta.
Non passò più per quella strada.
O forse mi stancai di aspettarla alla finestra alle 23 e 15.

mercoledì 3 settembre 2008

Storia di me che limono con una strafiga

Tra noi c’era una pirofila di tagliatelle al ragù. Bianca.
La guardai incerto sul da farsi, come in Lilly ed il Vagabondo.
Poteva essere un momento speciale.
Qualcosa di più che una pausa pranzo.
Qualcosa di più che un rapporto professionale.
Qualcosa di più che una relazione scandita da un’ora di inizio e di fine che si ripeteva. Ancora ed ancora ed ancora.
Ad onor del vero c’era un sacco di gente attorno a noi ma la sua visuale dava verso la vetrina. La mia su innumerevoli sguardi attaccati al culo di Antonella appartenenti ad altrettante persone.
L’odore del ragù.
Chiacchiericcio.
Una bottiglia monodose di vino rosso.
Davanti a lei 50 cl di Vitasnella. L’acqua che fa pisciare un sacco. Tecnicamente: favorisce il ricambio idrico.
Una radio lontana. Vicino alla cassa. Prima dell’uscita.
La tovaglia era di carta riciclata. Giallina.
Lei sorrise. Quasi imbarazzata.
Deglutì. Il taglio delle labbra leggermente aperto. Rosa pastello. Gli occhi allungati sembravano ancora più sottili.
Mi costrinsi a non abbassare lo sguardo. La lingua spinta sui denti davanti. Guardai nei suoi occhi. Poi, con la stessa naturalezza con cui si può guardare dentro una telecamera e dire “mi manchi”, le domandai che ci fosse.
Disse che non sapeva da dove cominciare.
Dall’inizio.
Abbassò lo sguardo. Dolce come un gelato Algida.
Ormoni e curiosità erano la mia colonna sonora per il suo monologo.
Avvicinò una mano. Il gomito ben oltre il bordo del tavolo, posato sul piano.
Unghie laccate.
French manicure.
Scene di sesso estremo.
Specchi.
Autoerotismo reciproco.
Vestiti aderenti.
Biancheria minimalista.
Si toccarono le punte delle nostre dita.
Magico come ET l’extraterrestre.
Era sconveniente quello che mi stava per dire.
A seconda dei punti di vista.
Non il mio.
Non il suo.
Forse si riferiva al vasto audience che aveva il suo culo in quel momento.
Non so se ci baciammo prima o dopo la fine del suo discorso.
Le puzzava l’alito.
Ma questo non lo dissi mai ai miei amici.

Iniziammo in silenzio il pranzo con la pasta che nel frattempo si era raffreddata.

martedì 2 settembre 2008

Myspace

Dico a tutti di rifuggire la rete.
Non so come funzioni Facebook.
Non ho un Myspace.
Non ho il Microsoft Messenger che si apre automaticamente all’accensione del PC.
Però.
Controllo compulsivamente la mail ciccando ripetutamente sul tasto invia e ricevi.
Controllo la cartella che si riempie automaticamente di spam. Non si sa mai.
Spesso controllo su Google la fama dei miei conoscenti.
Nella ricerca per immagini di Google trovo sempre più della pornografia che mi serve. Non mi dispiace.
Perdo un sacco di tempo.
Ed ogni tanto scrivo un blog.
Ma non è sempre stato così.
C’è stato un giorno in cui mio padre mi comprò una bicicletta nuova. Rossa e con le marce che si incastravano. Roba d’altri tempi. Mountain bike la chiamavano. La verità è che era talmente pesante che si faceva il doppio della fatica ad andare sul piano. Ed il triplo ad andare in salita. Mi sono levato grosse soddisfazioni solo con le discese. Ero sempre il più veloce. In quei momenti Pippo mi invidiava con la sua BMX gialla. Tra la puzza del fango rappreso e polvere.
Eravamo sempre in competizione io e Pippo. Inevitabile per chi ha gli stessi gusti. Lottavamo per l’ultimo ghiacciolo alla menta, ci allenavamo a fare sorrisi sempre più ampi per la maestra di italiano. E spesso ci battevamo sporcando i vestiti d’erba senza farne nessun vincitore. E le nostre mamme si incazzavano. La mia proibiva la televisione dopo cena. Quella di Pippo non lo seppi mai.
L’orgoglio.
La sfida.
Quella che chiamano amicizia è in realtà una tacita tregua fatta di sottili affondi.
La mia festa di compleanno al McDonalds.
Pippo con i pattini a rotelle.
La collezione degli exogini.
La piramide degli exogini.
Il castello di Grey Skull.
La mia mountain bike rossa.
E poi niente.
Una estate a correre per il cemento cenere sollevando polvere e grilli spaventati. Le rane si provavano in evoluzioni verso l’acqua stagnante del fosso. Poche auto. Molto sole. Giallo e gravido come un brufolo maturo sulla fronte di un quindicenne. Pesante come la peperonata a mezzanotte. Macinavamo chilometri. In tondo. Come gli insetti sui lampioni. Non ci chiedevamo perché. Sapevamo che qualcosa sarebbe successo. Come in quei pomeriggi che viene da grandinare. Come le notti senza sonno. Come il bingo, forse.
E ci furono gare, e magliette sudate.
Poi finì l’estate. Ed io avevo un po’ di nostalgia. Specie quando incrociavo in cantina la mia rossa arrampicatrice. La scuola era normale. Il solito scorrere del tempo insipido come i pasti all’ospedale. Pippo lo incrociavo qualche volta e non parlava molto. Sembrava non gli importasse. Nemmeno quando annunciai di aver completato l’album delle figurine del calcio. Quelle con gli scudetti stampati su carta luccicante.
Roba da urlo.
Lui disse “ah”. E passò oltre. Affrettandosi verso casa.
Ed io lì con il mio album in mano. Con l’acido di un trionfo marcio in bocca. Sfogliando incredulo le pagine perfettamente riempite di adesivi. Avevo ordinato via posta le 3 figurine che mi mancavano. Le avevo pagate mille lire l’una. Da non credere.
E lui si allontanava un passo dopo l’altro.
Così.
Pippo compie gli anni il 27 agosto.
Quest’anno, come molte altre volte, me ne sono ricordato in ritardo. Chiamiamola vendetta.
Il 27 agosto 1989 alle ore 10 e 20 di mattina Pippo entrava in possesso di un Amiga 500. Era una domenica e ad Ozzano dell’Emilia pioveva. Si registrava una temperatura media di 23,4 gradi.
Pippo oggi è molto famoso in internet. Ha anche una pagina su myspace.

domenica 31 agosto 2008

Microonde

In famiglia nessuno ha mai saputo cucinare. Il microonde ed alcuni cibi precotti sono state le migliori innovazioni nella nostra cucina minimalista. Anche nell’arredamento. Niente era mai fuori posto. O forse mancava. Non ho idea di come si pulisca un branzino al sale. Non ho nessuna posata particolare, strana. Il ristorante mi affascina. Misterioso come le notti senza luna. Spesso faccio delle pessime figure. Le ragazze mi trovano tenero. Per questo le porto fuori a cena. E pago sempre io. Prendo piatti sempre più difficili. Non disdegno crostacei e cacciagione. Sporco sempre sia la tovaglia che il tovagliolo steso con troppo contegno sulle mie gambe. Spesso considero più conveniente pulirsi la bocca nella tovaglia. So che non lo devo fare e quindi non lo faccio.
Deglutisco.
Ungo sempre il bicchiere. Ed in quei momenti sorrido. E scopro il mio fato per la serata. La mia palla di cristallo è un bicchiere di vino rosso che male accompagna un secondo di pesce.
Anche Cristina sorride. Ed è proprio come quei giorni prima delle vacanze in cui si legge promosso accanto al proprio nome. Quando poi si parte per un lungo giro trionfale e ci si sente più grandi. Improvvisamente.
Cristina l’ho conosciuta da poco. Amica di amici che non conosco. Dante e Beatrice. Dante dev’essere quello che è stato alle superiori con lei Beatrice la fotoreporter. O forse mi confondo.

Facciamo un salto indietro. A quand’ero grasso. Quando non facevo niente se non girare la manopola dei secondi del mio forno nero Wirlpool con funzione crisp. Avevo 13 anni ed uscivo poco. Passavo i pomeriggi ad inventare personaggi che non conoscevo e che mi avrebbe aiutato conoscere. Gino il camionista. Danny la ragazza delle superiori. Mike il duro. Don Perignon il mio amico nobile.
Facevo la terza media ed ero l’unico ad ignorare il sapore del tabacco, a non essersi mai battuto e a non avere avuto mai una insufficienza in matematica. Era come non esistere.
Niente.
Nessuno.
Francesco era il campione del basket e lo conoscevano tutte le ragazze delle altre sezioni, Gennaro, detto il terrone, era il suo grosso braccio destro. Lo seguiva ovunque. Abitavano nello stesso palazzo. Poi c’era Luca che aveva un fratello grande all’estero, Giulia la bionda, Marco lo sfigato, Mimmo il butterato.
Mi sarei cambiato anche con lui. Lo prendevano tutti in giro. Ma almeno sapevano il suo nome. Anche se spesso lo chiamavano brufolo. O pus.
Invece niente.
Scrivevo sul banco e nessuno se ne accorgeva. Rubavo i gessi prima di uscire all’intervallo e li gettavo nel cesso. Le mie mani sporche di bianco passavano inosservate e qualcuno veniva mandato a recuperare dalla bidella dei gessi nuovi.
Rigai anche la macchina del preside Laurenti (uomo affabile, alto, dorico e calvo). Ma la colpa se la prese Gennaro. Che l’aveva fatto 5 minuti dopo di me.
Rivedo la scena.
Dopo l’intervallo del mattino. Eravamo in aula e c’era lezione di tecnica. Quella col professore che sputava con le parole dai baffi spessi e sporchi di sigaro. Io non ascoltavo. Cercavo solo di essere sulla pagina giusta. Non ero il solo a sudare: era maggio avanzato. C’era l’odore delle frutta troppo matura, marcia. Quella che mi spiegheranno poi essere la pubertà.
Entrò Stefania. La coordiatrice di cui segretamente ero innamorato. Con cui segretamente ho avuto una storia inventata. E probabilmente anche qualche figlio. Certamente biondo come me. Si diceva tenesse un vibratore nella borsetta. Qualcuno aveva spiegato cosa fosse tenendo una lezione nell’intervallo. Usando il viale ghiaioso come lavagna. Disegnando un cazzo stilizzato. Come quelli che c’erano sulle piastrelle del bagno.
Comunque.
Comunque entrò Stefania con la sua scia di capelli neri-quasi-blu. Non bussò. La faccia tesa. Severa.
Disse che era successo un fatto increscioso.
Capii subito a che si riferiva.
Disse che qualcuno era stato veramente oltraggioso e non l’avrebbe certo passata liscia.
Mi sentii orgoglioso.
Disse che il preside doveva fare due chiacchiere con Gennaro. E lo guardò torvo.
Mi avevano derubato.
Niente fama e popolarità.
Niente.
Passai il pomeriggio con i miei amici immaginari a pianificare la conquista del mondo. Avremmo utilizzato il camion di Gino. Su quello non c’era dubbio. Gennaro sarebbe stato preso prigioniero. E gli avremmo messo una maschera che nessuno lo avrebbe più riconosciuto.
Quel ciccione.
Il giorno dopo c’era ancora il sole. E il caldo. E Gennaro era più famoso di prima. Forse tanto quanto Francesco.

Poi sono cresciuto.
Sono dimagrito.
Di quel periodo mi rimane una buona scorta di fantasia. Ed una grande varietà di nomi. Il più strano è Arsace. Che è un nome da uomo.

Il cameriere mi chiede se desidero un dolce.
“Il signore desidera un dolce?”
C’è odore di aria finta da condizionatore. Con retrogusto di plastica. Sterile.
Prendo il solito sorbetto al limone con ciliegia in immersione.
Cristina prende una crema alla mela verde e cannella.
La stoffa della sua camicia sembra liscia. Probabilmente è seta.
Mi chiede di Dante. Forse mi ha già incontrato con lui.
Forse.
Non ho per caso un Burberry Blu?
No.
“Certo” le dico.
“Allora eri tu!”
“Allora ero io!” sentenzio lanciando il tovagliolo macchiato a coprire altre macchie sul mio lato di tovaglia.
Il tavolo è tagliato in due dalla mia goffaggine.
La lascio parlare.
“Mi sembravi più basso”
Lo prendo come un complimento.
“E non parlavi molto”
Cerco di fare uscire la ciliegia dal flute senza far strabordare il sorbetto. Non riesco.
Lei sorride. Paziente.
Ora il problema è sputare il nocciolo senza dare nell’occhio.
Ci penso. Questa situazione devo averla vissuta. C’è sicuramente una risposta giusta. Come ai quiz in televisione.
Lei è composta. Il suo lato del tavolo immacolato. Quasi riutilizzabile. Il tovagliolo ha ancora i segni composti delle pieghe. Capace che odora ancora di lavanderia. O ammorbidente casalingo. Tipo Bolt.
Decido di ingoiare il nocciolo. Lo accompagno con un sorso d’acqua versata nel bicchiere sbagliato.
Cristina sembra non accorgersene. Continua a parlare.
Il suo sorriso è senz’altro la cosa che mi ha colpito per prima. Riesce a frapporlo tra una frase e l’altra. Mi fa sentire interessante. Con qualcosa da dirle. Concretizzare un pensiero in questi momenti è catastrofico. Penso: qualcosa di bello, Maicol dille qualcosa di bello.
Mi viene in mente una bomba che esplode.
Teste mozzate.
Sangue.
Morte.
Niente.
Lei ha smesso di parlare dopo che io ho smesso di ascoltare. Forse aspetta una risposta.
Temporeggio giocando col tovagliolo.
Le macchie sembrano muoversi. Disporsi secondo un disegno.
Lei continua a fissarmi.
Dille qualcosa di bello.
Gonorrea.
Inizio incerto. Vorrei raccontarle di quanto è stupenda. Che il solo saperla lì con me, ad elemosinarmi un po’ del suo tempo, mi basta. Che non voglio altro. Nemmeno il caffè.
Ci provo, e suona anche molto naturale.
Non accenno al processo di rimozione della pelliccia dai procioni.
Sorrido.
Si avvicina il cameriere.
Mi domanda se desidero altro.
“Il conto” dico con sufficienza. Imitando qualche film che non ricordo. Probabilmente con Tom Cruise.
Scompare.
Rimaniamo io e lei.
Nient’altro.
Nessuno.
Poi mi trovo a pagare il conto al solito più basso di quel che mi aspettavo.
Ed esco.

domenica 24 agosto 2008

Mattina molto presto (prima che suoni la sveglia)

Piacevolmente considerai che mi rimaneva ancora più di un’ora di tempo da dormire prima della sveglia. La clemenza dell’estate pareva più una avvisaglia d’autunno. Il vento soffiava sempre da sud. Dritto sulla finestra del bagno che si muoveva sui cardini incerti, ballando come su un vinile rovinato. Sopra di me c’era ancora il rassicurante soffitto appena imbiancato da Rocco. Le pale del lampadario ferme, le coperte disordinate come i petali di una rosa blu sfiorita. L’aria aveva lo stesso odore inconsistente e finto.
Passò un minuto. Si spense una luce rossa nella sveglia e se ne accesero altre. Come nel conto alla rovescia a capodanno. Solo senza vischio e spumante.
Mi rigirai sul materasso troppo economico per essere comodo.
Fuori scorreva qualche auto. Tesi l’orecchio. Capace che passava anche la raccolta dei rifiuti col suo gracchiare robotico.
“Mica male” mi dissi.
Stefania si mosse.
Trattenni il respiro.
Lei mi guardò attraverso per un secondo. Poi distese la fronte.
Il petto le si muoveva in alto ed in basso come se qualcuno le avesse infilato una pompa in culo e soffiasse ed aspirasse.
Controllai.
“Piantala!” disse girandosi di spalle.
Ascoltai un po’ il mio respirare sghembo poi riaddormentai.
Sognai di essere rapito dagli alieni.
Poi suonò la sveglia.

lunedì 21 luglio 2008

Aspettando l'ora di pranzo

Il muro decrepito che circonda il cantiere, tra brandelli di manifesti sopravvissuti alle atrocità del tempo ed alla caduta dei calcinacci, recita, con una stanchezza degna d’un pomeriggio afoso di luglio, alcune parole che non ricordo dove ho già letto: la differenza tra un intellettuale e un operaio? L'operaio si lava le mani prima di pisciare e l'intellettuale dopo.
Penso a chi potrebbe aver riportato quelle parole sul muro e mi sforzo inutilmente di ricordare chi le avesse rese note. Non ho più voglia di bere, è tardi, ma il sapore dolciastro di carne avariata che mi alberga la bocca spesso arriva fino al naso e mi da fastidio. Mi fa schifo. Sputo ma non serve a nulla. Aspiro ampie boccate di aria tiepida che del glicine o del sambuco ha poco ma ristora ugualmente un poco i miei polmoni.
Penso ad una birra fresca e gocciolante. Aumenta la salivazione. L’insegna del bar dall’altro lato della strada deserta ha un neon blù intermittente. Annuncia la sua fine a breve. Sono tentato di scommettere con me stesso sul momento esatto in cui accennerà per l’ultima volta ad un breve lampeggio. Mi concentro e mi dico che, per dieci a uno, quel neon non durerà più di due giorni. Soddisfatto, quasi come se due giorni dopo fossi ancora là sotto ad aspettare, ed il neon improvvisamente, non per me, avesse smesso per sempre. Avrei intascato la mia vincita e mi sarei rimesso in cammino. Ma al momento non ho a disposizione due giorni da dedicare al neon e soprattutto la porta del locale sembra chiusa da un bel pò di tempo.
Penso, se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Non mi degno di darmi una risposta e riprendo la mia strada. In lontananza percepisco lo stridìo metallico delle ruote di un treno sulle giunture delle rotaie scandire la notte come le stelle ordinano l’universo. Unisco, tracciando con il pensiero brevi segni, alcune centinaia di stelle cercando sempre di leggerci qualcosa di nuovo, spesso alla ricerca di un buon auspicio. Ringrazio una nuvola che passando cancella tutte le mie geometrie celesti e con questa svaniscono i miei sogni di gloria. La ferrovia corre poco distante ma il vento probabilmente spira verso est allontanando ed attenuandone il rumore.
Penso ai viaggi fatti e soprattutto a quelli che farò, non so quando, forse domani, forse mai. Vorrei incontrare qualcuno, meglio se un animale, qualche essere che si limiti a starmi vicino e guardarmi con occhi pieni di compassione e misericordia, gli occhi di un cane randagio o di un gatto di periferia, di un gufo metropolitano. Invece nessuno. Lunghe ed alte file di lampioni in un rapporto di uno sano tre fulminati mi anticipano, mi seguono ed accompagnano fedeli al mio fianco come un cane zoppo portato al guinzaglio.
Penso a Don Chisciotte, Robert Jordan, Winston Smith, Jackson Pollok e Michael Jackson. Realizzo che i primi tre non sono mai esistiti. Due di loro sono morti pur non essendo mai esistiti. Alcuni pazzi ritenevano che il quarto fosse matto mentre l’ultimo potrebbe non essere mai esistito o morire da un momento all’altro e la mia vita sono certo che non si sposterebbe di un centimetro. Evito una traccia di presenza umana nella sua forma più ancestrale e per questo ben riconoscibile. Avverto la presenza dell’uomo ed allungo il passo. La sconfinata periferia non sembra accennare nemmeno per un momento ad una smorfia di stanchezza. Metallica e cementata, dai lineamenti tirati e severi, acciaccata nei vetri, nei muri e nelle recinzioni, la periferia industriale ha tutta l’aria di una salma imbalsamata, di un Lenin transurbano, dimenticato e scomodo da non esibire ma al contrario nascondere, sotterrare. Due macchine buttate lì, addosso ad una muraglia di mattoni un tempo rossi, con i finestrini infranti, le gomme a terra e la vernice slavata han ciuffi d’erba selvatica che spuntano da ogni anfratto. Calcio una lattina di birra lontano come fosse la mia vita ed il suono metallico rimbomba nella via alzandosi al cielo e disperdendosi troppo velocemente. Ne rimane solo un vago ricordo nella mia mente, archivio umano vivente di emozioni, fino all’attimo successivo in cui una sirena, con il suo grido liquido, rompe la notte. La ascolto e mi convinco.
Penso che devo partire, devo decidermi a partire. Ho maturato delle certezze, ho delle convinzioni sulla vita che mi spetta se dovessi rimanere qui, in questo non luogo a vivere questa non vita, ad aspettare le nebbie ad offuscare un pò la realtà rendendola meno terribile.
Penso al fumo di Londra, al marmo di Berlino e Vienna, alla erre moscia di Parigi, alla San Francisco beat, al Mare Mediterraneo, ai geyser islandesi, agli immigrati di Nuova York, alle ostriche della Normandia, alla Nike di Samotracia, ai leoni africani ed alle tigri di Mompracem, ai treni dell’Orient Express, all’Oceano Indiano, ai canguri di Camberra, all’aurora boreale in Alaska, al Malecon all’Avana, ai fenicotteri rosa, alla Nieva ghiacciata di San Pietroburgo, agli elefanti ed alle vacche indiane, alla Roma dei sette re, ai giardini zen in Giappone, ai clacson di Città del Messico, alle isole di totora del lago Titicaca, alle falde del Kilimangiaro ed alle cataratte del Nilo, alle due Santiago, all’elevatore di Lisbona, alle cicogne di Salamanca, alla Polinesia di Gauguin, ad Hagia Sophia ed ai mille nomi di Istanbul, alla Guinness irlandese, ai laghi canadesi, alla Terra del Fuoco ed alle isole Svalbard...
Penso a me e mi chiedo quanto manchi all’alba. Sono ore che vago per questa periferia incontaminata da ogni forma di vita. Mi convinco che sia iniziata una nuova era postatomica in cui dovrò abituarmi all’idea di essere l’unico superstite. L’unico essere umano sopravvissuto alla morte del pianeta Terra. Arrivo alla conclusione che probabilmente sono semplicemente morto anch’io insieme a tutta la Terra. Non mi preoccupa più di tanto questo pensiero. Anzi, mi alleggerisce le gambe stanche dalle lunghe ore di cammino e la testa dai troppi pensieri, mi allenta la pesantezza sulle palpebre e mi attenua la fatica di respirare.
Penso a quanta gente sia morta fino ad ora, ai parenti, agli amici, alle grandi menti illuminate, alle pornostar dell'infanzia, ai sanguinari dittatori di ogni era, ai cantanti, ai calciatori dei mondiali vinti ed agli scrittori. Penso a tutti gli scrittori di sempre, a Miller, ad Orwell, a Calvino, a Thomas, ad Hemingway, a Delillo, a Kerouac, a Vittorini, a Bukowski, a Tolstoj, a Neruda, a Fante, a Ginsberg, a Corso, a Tondelli, a Pasolini, a Fenoglio, a Pessoa, a Prevert. Jacques Prevert, proprio lui, quello dell'aforisma sulla differenza tra un intellettuale e un operaio.
Già, ora mi sento meglio. Devo solo decidere dove andare.

giovedì 5 giugno 2008

pranzo

A pranzo avevo mangiato una scatoletta di tonno e qualche grissino.
Non sono mai stato bravo in cucina. Non mi è mai mancato il tempo ma la voglia. Nel mio frigo conto 6 sottilette, 2 mozzarelle, un caspo di insalata da buttare, qualche uova, burro ed una bottiglia di passata di pomodoro aperta da troppo. Ho anche un barattolo di marmellata che ora mi tiene compagnia accanto ad una fetta biscottata tonda e spessa. Di quelle che si spezzano difficilmente e sporcano meno.
Quel giorno comunque non ero molto in vena di ragionamenti, avevo alzato il volume della televisione senza considerare troppo il canale od il programma nello specifico. Avevo bisogno di sentire parlare qualcuno per me. Un talk show qualsiasi. C’erano toni accesi e avrei potuto parteggiare per una parte a caso senza necessariamente perdere. Ma non feci niente di ciò. Mi limitai a schiacciare con la forchetta il tonno nel piatto cercando di separarlo da gran parte dell’olio extravergine di conservazione. Poi diedi un morso ad un grissino accompagnandolo con un boccone del pesce.
In televisione continuarono a urlare ancora per un po’.
Lasciai il piatto da lavare.

mercoledì 7 maggio 2008

La seicento gialla di Stefania ed il medico

Il posto è il solito, il Giwawa, ancora aperto.
La gente è la stessa, Marco, Giorgio, Carlo e Sergio e come sempre, nessuna donna.
Il barista non può che essere Silvano.

La scena si svolge alle quattro di mattina, ovvero, due ore dopo l’orario di chiusura obbligatoria per i locali notturni. Tutti gli avventori sono completamente ubriachi. Silvano, il barista, forse è più ubriaco dei suoi clienti. Io non ci sono. Il Giwawa è il classico posto dove nessuno ci finisce per caso. La luce è sempre soffusa, le pareti sono impregnate di fumo e, nonostante non ci si fumi più ormai da anni, l’aria sa di tabacco stantio misto saliva. I muri hanno assunto, nel corso del tempo, una tinta eterogenea di diverse sfumature di grigio. Il bancone, in legno scuro, domina un lato intero dell’unica sala che compone il Giwawa. Ci sono solo tre sgabelli “sani”, ovviamente riservati ai clienti fissi. Gli altri sette sono allentati ed un sinistro cigolìo accompagna ogni movimento; come se non bastasse,i poggia piedi sono ormai tutti definitivamente caduti. Entrando, sul lato sinistro, ci sono due tavoli da biliardo. Uno normale con il tappeto non troppo bucato o macchiato e l’altro indecente, bruciacchiato e stinto. Il primo all’italiana, il secondo con le buche. Ovviamente, sulla destra rispetto all’entrata, c’è il bagno. Uno tra i peggiori bagni della zona. Turca zozza perennemente intasata, lavello ad altezza orinatoio, invitante e per questo spesso utilizzato come tale. Tutti lo sanno e, di conseguenza, nessuno lo utilizza come lavabo. Per quello si va dietro al bancone. Lo sciacquone è guasto da sempre, ma il cartello che avverte “guasto”, Silvano, lo riscrive ogni martedì. In questo modo, per gli sprovveduti, l'inconveniente sembra appena accaduto. In compenso c’è un capiente secchio da pavimento da utilizzare per tirare l’acqua. La serratura alla porta è saltata più o meno quando lo sciacquone si è rotto.

Nella zona, quella sera, sono di pattuglia l’agente Mirko e l’agente Sabrina, due poliziotti di quartiere. Il loro compito è sostanzialmente riassumibile in due parole: fare presenza. Ovvero, far avvertire la loro presenza alla cittadinanza e rassicurarla indipendentamente dal fatto che alle quattro di mattina difficilmente qualcuno riesce ad avvertirne la presenza. L’agente Mirko, ogni volta che è di turno con l’agente Sabrina, ci prova spudoratamente. Cammina con quell’andatura inconfondibile da bulletto delle medie, fuma anche se non potrebbe, fa spaventare la collega urlando all’improviso dietro ogni angolo ed ha sempre l’aria scocciata. Ondeggia ampiamente le spalle mandando avanti un passo dietro l’altro come se stesse calciando l’aria. Si tocca spesso la pistola e fa battute stupide sulle manette ed il manganello. Ha 37 anni è scapolo e non scopa troppo di frequente anche se i suoi occhi sono azzurri. Solo se lo conoscete o lo incontrate potete spiegarvi il perchè della sua discontinua attività sessuale nonostante il colore degli occhi giochi a suo favore. L’agente Sabrina è, come si suol dire, un bel pezzo di passera anche se tutto sommato, senza divisa, probabilmente sarebbe una normale trentenne ben tenuta. Alta il giusto, con un sedere nella norma ed un seno del quale difficilmente si riesce a valutarne l’entità. Gli occhi sono castani e lo sguardo è profondo. Il cappello le dona e si destreggia molto bene in quegli abiti poco civili portando con disinvoltura la una Beretta 92F al fianco sinistro ed un nero e duro manganello al fianco destro. Le manette cromate le luccicano nella zona alta della sua natica sinistra. È molto seria e professionale. Non ama discutere e, quando ha già preso una decisione, spesso si dimostra inamovibile. Non sopporta i marpioni, quelli che sanno di avere gli occhi azzurri, gli uomini in divisa ma soprattutto odia lavorare in pattuglia con Mirko. Non lo ha mai detto a nessuno ma lo reputa, niente più e niente meno di un emerito coglione. Tra un paio di ore finisce il loro turno e per Sabrina sarà un sollievo mentre per Mirko si concretizzerà l’ennesimo rifiuto. Stanno pattugliando Via della Madonna. Per strada a quell’ora di un mercoledì non vola una mosca. Non ci sono gli spacciatori che sono soliti afforlarla il fine settimana e di conseguenza non ci sono nemmeno i tossici collassati su qualche gradino; nessun ragazzo o vecchio ubriaco fa casino. La città il mercoledì sera sembra immobile e pulita, sembra un reperto in equilibrio precario sotto teca. Tra due giorni tornerà invece ad essere quella lurida e popolata città del cinema e dalle mille sfaccettature dello stesso coccio di vetro. Nemmeno una zoccola per strada. Il camion dei rifiuti è già passato e quello del lavaggio strade ha fatto il suo lavoro. Per strada si respira addirittura profumo di deodorante da gabinetto tipico degli autogrill. Quello potente che sa di menta piperita e citronella chimica. Almeno non si sente puzza di vomito o merda. I due agenti si stanno avvicinando con passo non sincronizzato all’angolo con Via col Vento. Da dietro l’angolo si vede una luce illuminare la strada, forse un'insegna di qualche locale che, rimasta accesa nel buio della notte splende come un faro da stadio. Si sentono delle voci. L’agente Sabrina sbircia l’orologio mentre l’agente Mirko avvicina la mano destra al fianco sinistro avvertendo un freddo metallico al contatto delle sue dita. Ha un brivido. Gli agenti incrociano i loro sguardi restando in silenzio. L’agente Mirko si leva quella solita espressione da deficiente che lo accompagna sempre e ne assume una un pò meno deficiente anche se non di molto. Sabrina tende l’orecchio. L’agente Mirko slaccia il cinturino in cuoio della fondina. Uno sguardo reprentino dietro le proprie spalle rassicura l'agente Sabrina.

Al Giwawa la serata sembra non arrivare mai alla fine. Il fusto della birra è stato cambiato già tre volte dalle nove, orario in cui Silvano ha aperto la porta e sono entrati i suoi quattro avventori ormai vecchi amici. Poi più nessuno vi ha più fatto ingresso. I cinque hanno tutti il ventre talmente ricolmo di birra da lasciare il primo bottone dei pantaloni sbottonato. Hanno parlato di tutto quella sera ma sembrano non aver ancora esaurito gli argomenti. Qualcuno si sta semplicemendo ripetendo, qualcuno si è ricordato di quella vecchissima barzelletta sull’italiano, il francese e l’inglese; per fortuna tutti la ricordano e lo bloccano sul nascere. Silvano è appollaiato sullo sgabello sano alla destra del bancone, Marco è seduto sul tavolo da biliardo senza buche, Sergio è dietro al bancone, dove solitamente si trova Silvano, e sta giocherellando con un cavatappi professionale color nero e le cromature luccicanti. Carlo sta pisciando da dieci minuti e Giorgio sta pensando a cosa stia facendo Carlo da dieci minuti al cesso. Silvano sostiene che domani il tempo cambierà: gli duole il ginocchio. Sergio invece insiste nell’affermare che tra il ginocchio di Silvano ed il tempo non ci sia nessun tipo di relazione e che se qualcuno vuole sapere che tempo farà domani, non deve far altro che aspettare. “Saggio” è quello che Marco pensa di Sergio dall’alto del suo tavolo verde all'italiana. La voce dei tre è velocemente cresciuta nel corso della serata ed ora, nonostante si trovino tutti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro ed immersi in un silenzio surreale, gridano ed urlano come sordi reduci della guerra del quindici-diciotto. Silvano non sembra affatto contento per l’affermazione appena fatta dal “saggio” Sergio. Per ribadire l’attendibilità del suo ginocchio-oracolo ricorda l’aneddoto di quando, l’anno scorso, ci fu il terremoto in Molise. In quella circostanza, la sera prima Silvano avvertì un fastidio insistente al ginocchio e profetizzò qualche calamità per le prossime ore. Nemmeno quella volta qualcuno gli diede retta. Quando alla fine, il giorno dopo, Silvano ascoltò il telegiornale ed ebbe conferma del terremoto, si rallegrò a tal punto da decidere, per quella sera, di offrire da bere a tutti, amici e conoscenti, al suo bar. Invitò anche alcuni rappresentanti della protezione civile della città amici della cugina acquisita di Marco. Alla fine di quella serata ad alto contenuto alcolico, quando anche la delegazione della protezione civile era pesantemente ubriaca, Silvano fu insignito del titolo onorifico di “premonitore cataclismatico”. Sergio, invece, quella sera lo definì una semplice Cassandra. Silvano appena sentito quel nome pensò subito a qualche prostituta e, offeso, non gli rivolse più la parola per qualche giorno. Poi, senza nemmeno doversi chiarire, il loro rapporto tornò alla normalità.
Carlo torna dal cesso con una faccia pessima e solleva Giorgio dal pensiero. Tutti si voltano verso di lui e lui si sente, a ragione, improvvisamente osservato. Qualcuno rompe il ghiaccio, forse Marco, chiedendo “se si sta così bene al cesso, cosa ci facciamo noi ancora qui?”. Carlo, col viso pallido e madido di sudore sbatte le ciglia lentamente ed attonito dice, scandendo bene le parole una ad una “amici, ho appena avuto un’esperienza extracorporea”. Si crea silenzio tra i quattro intorno a lui e poi, all’unisono, scoppiano tutti in una fragrante, grassa e rumorosa risata ubriaca. Carlo sembra sul punto di svenire ma per il momento resiste. Sergio fa il giro del bancone, si ferma davanti a Carlo fissandolo serio negli occhi. Gli mima col cavatappi l’estrazione dell’anima dal petto e poi, all’improvviso, corre verso la porta del locale ridendo ed urlando a pieni polmoni “porca puttana. Eccola che corre. Ecco l’anima di Carlo che scappa da quella bara ambulante”. Sergio spalanca con una manata la porta mentre Carlo sviene e cade sul pavimento zozzo del Giwawa tirandosi appresso qualche bicchiere vuoto dal bancone. Nella caduta si aggrappa in cerca di punti fermi, prima all’attaccapanni ed in seguito allo sgabello malfermo. Niente lo sorregge e Carlo rovina a terra con tutto il resto, battendo violentemente la testa.

L’agente Mirko sente delle urla disumane accompagnate da un rumore strano, come di cocci, poi un botto sordo ed un tonfo. Non si capisce bene cosa stia urlando quella voce nella notte. L’agente Mirko afferra solo un “puttana”, un “corre via”, ed un “anima... bara”. L’agente Sabrina cerca con lo sguardo gli occhi del collega e li trova. L’agente Mirko fa un cenno col capo in direzione delle voci, voltato l’angolo. I due agenti si sono capiti e, seguendo lo schema che hanno imparato, si schiacciano contro il muro. Ora anche l’agente Sabrina ha il calcio della pistola ben saldo tra le mani. Tolgono la rispettiva sicura con un semplice “click”. L’agente Mirko sporge un occhio da dietro l’angolo. A poche decine di metri si vede un uomo che, urlando, spalanca con forza la porta di un locale ancora illuminato nonostante la tarda e desolata ora e salta fuori dimenandosi da invasato con qualcosa di scuro e luccicante tra le mani. Da dentro il locale non si odono più rumori. Quell’uomo si è lasciato dietro una scia di luce e silenzio. All’agente Mirko era già capitata una situazione simile. Era appena entrato in servizio nel corpo dell'arma quando, durante un turno di notte, incappò col suo collega in un regolamento di conti tra malavitosi. Quella volta l’agente Mirko non fece nemmeno in tempo ad impugnare la pistola d’ordinanza che quelli avevano già incominciato a sparargli contro. Lui ed il suo collega si salvarono per miracolo rifugiandosi dietro un’utilitaria gialla posteggiata in divieto di sosta davanti ad un passo carraio. Probabilmente l'abitazione di un medico che, a qualunque ora del giorno o della notte avrebbe potuto aver bisogno di uscire dal garage con l'auto per una chiamata urgente o probabilmente no. Una volta terminata la sparatoria e salvata la pelle, l'agente Mirko ebbe l’istinto di fare una contravvenzione all’auto dietro la quale si era salvato la vita. Non la fece ma di quella sera, a distanza di anni, ricorda con precisione solo la seicento gialla in divieto di sosta e pochi altri particolari. Indagando scoprì che l’auto gialla era stata acquistata, pochi giorni prima, da una certa Stefania. La seicento era di seconda mano. Sa di dovere la propria incolumità a questa certa Stefania.
L’agente Mirko srolla la testa facendo svanire quel ricordo e con incredibile decisione, mette in atto una plastica mossa da basket e, senza muovere il piede “perno”, routa col busto di centottanta gradi finendo nella classica posizione immortalata in mille film quando un poliziotto si appresta a sparare. Nelle sue orecchie ha solo un ronzio che gli impedisce di sentire tutto quello che lo circonda, ovvero, il silenzio quasi assoluto. Niente fa più rumore; tutto ronza come un maledetto moscone insinuatosi nel condotto uditivo. Con le gambe larghe, molleggiate, col busto leggermente sbilanciato in avanti, le braccia tese con le mani unite intorno al calcio freddo della pistola ha l’indice destro fermo sul grilletto. Sudore gelido gli scende dal cappello e gli cola sulle palpebre, sulle labbra e lungo il collo. Urla “fermo dove sei! Non ti muovere”. Poi mentendo, come la registrazione di un nastro preimpostato, continua con convinzione “sei corcondato, sei fottuto. Arrenditi bastardo”. Dietro di lui anche l’agente Sabrina si è lasciata coinvolgere dalla situazione e, da buona seconda guardia, si posiziona due passi dietro il collega, alla sua sinistra, impugnando rigidamente la sua pistola. Le dita avvinghiate al calcio sono bianche e gelide, non circola più una sola goccia di sangue. L’agente Sabrina non ha mai sparato un colpo fuori dal poligono di tiro. Non si è nemmeno mai immaginata come potrebbe essere farlo. La tensione le è salita dallo stomaco sino alla testa per poi invertire rapida il suo corso e ridiscendere con un gelido brivido verso le gambe. In mezzo alle gambe avverte una leggera vibrazione, un minimo bruciore ed una sensazione di caldo seguire veloce il brivido giù fino alle caviglie. Non capisce cosa stia succedendo e, come un bambino di fronte ad una nuova emozione, rimane immobile, impietrita.

Sergio, brandendo quello stupido cavatappi nero sente qualcuno urlargli qualcosa di indecifrabile dall’inizio della via. Si volta in quella direzione e si blocca come una lepre abbagliata dai fari di un bracconiere. Sgrana gli occhi, inarca le sopracciglie e gli si blocca il respiro in gola. Vorrebbe deglutire ma non riesce per il nodo che gli si è repentinamente formato. Vede due poliziotti, nota che uno è donna e sembra carina. Sergio cerca lo sguardo della donna ma i suoi occhi si incagliano sul luccichìo della canna di una pistole che, anche se di poco, precede lo sguardo dell'agente. “Cazzo mi stanno puntando delle maledette pistole, cazzo” è quello che gli esce involontariamente dalla bocca con voce malferma e roca. Sergio non comanda più il suo corpo. Tutto quello che gli passa per la testa si materializza nella realtà. Si scuote liberandosi dall’immobilità che lo ha rapito e, comprendendo l’intenzione dei due poliziotti, gli porge le braccia tese e le mani a dimostrazione della sua inoffensività. Il gesto è istintivo e veloce; si gira in direzione dei due e fa un passo verso di loro.

L’agente Mirko non riesce più a resistere a quel ronzio che gli riempie la testa e gli comprime le meningi. Vede un sipario rosso calargi sugli occhi. Tenta di resistere ma il sipario ormai lo ha privato della vista. L’agente Mirko stringe il calcio della pistola e strizza gli occhi più volte voltando il capo dalla parte. Digrigna i denti e tende tutti i nervi del suo corpo fino a che la pressione del sangue che gli pulsa violentemente sulle tempie ed ai lati del collo diventa insopportabile. L’agente Sabrina, ora, sente anche i piedi bagnati mentre una debolezza la invade, la scuote e la getta a terra come uno straccio strizzato seguendo la traiettoria di caduta di una piuma.

Dentro al Giwawa Carlo è soccorso dai due amici e da Silvano. Ha ripreso conoscenza ma si lamenta del dolore alla testa. Giorgio ha preso del ghiaccio dalla celletta frigorifera dietro al bancone. Silvano ridacchia vedendo risorgere Carlo prima di tre giorni. Tutti ridono divertiti. Il pericolo che Carlo potesse farsi veramente male era alto ma è ormai scongiurato. Marco si dirige verso la porta per dare la buona notizia a Sergio e soprattutto perchè urge “un brindisi alla morte che nemmeno stavolta si è degnata di prendersi Carlo”. Arrivato sulla soglia del Giwawa Marco vede Sergio in mezzo alla strada tendere le braccia avanti a se come un Gesù urbano ed incamminarsi lentamente verso l’inizio della via come uno zombie. Marco non fa in tempo a pensare che questa sera sono tutti matti quando avverte un botto secco, sordo e luminoso.

Marco si china d’istinto appoggiandosi alla porta e guardandosi, spaventato, intorno.

Silvano, Carlo e Giorgio si voltano di scatto verso la porta d’ingresso.

L’agente Sabrina è incoscente distesa in mezzo al suo stesso piscio.

L’agente Mirko non sente più il ronzio. Si sente leggero ed inebriato. Gli fanno male i polsi ed ha le narici invase da un odore strano, piccante. Forse gli verrà da starnutire. Non ha ancora riaperto gli occhi ma ha calde lacrime che gli rigano il viso e singhiozzi e convulsioni che non lo fanno respirare per lunghi momenti. Diventa cianotico per l’apnea.

Sergio giace riverso in mezzo alla strada in un denso lago scuro, illuminato da un lampione di luce calda e gialla. Gli brilla il cavatappi accanto.


La settimana scorsa mi ha investito un taxi e sono convalescente a letto con una gamba rotta. Non riesco a prender sonno perchè è tutta notte che invidio i miei amici. Sono certo si stiano divertendo, ubriachi fino all’osso, al Giwawa. Spero di rimettermi presto.

martedì 6 maggio 2008

Una favola

Dopo l'ennesimo litigio lei gli disse con tono deciso "non farti più vedere!".

Lui diventò invisibile e vissero felici e contenti.

lunedì 31 marzo 2008

una lettera da lontano

Che fine aveva fatto? Certo non l’avevo cercata molto. L’avevo persa ancora prima che partisse sul serio. Non che mi importasse molto. Un modo per riempire i miei momenti buchi. Che in quel periodo erano tanti come le auto in coda dirette verso il centro della città. Un fiume di frustrati spermatozoi.
Chiamò Luca. Era passata mezzanotte e di solito da quando uscivo dall’ufficio potevo contare al massimo su un paio di telefonate che comunque si esaurivano prima delle 9 di sera. Come i programmi a quiz di canale cinque. Luca mi raccontò qualcosa. Era palesemente ubriaco ed io palesemente stanco. Recuperai un paio di battute da un repertorio che lui fu felice di ricordare. Poi ci salutammo. Il giorno seguente ci saremmo probabilmente incontrati per affrontare sobriamente un aperitivo. Il classico aperitivo del venerdì sera. Al solito posto con la solita gente. Come un telefilm ripetuto alle 4 del mattino di una domenica notte.
Tornai a quella lettera aperta. Avevo tagliato la chiusura lungo la piega con le mie polivalenti forbici dall’impugnatura rossa che usavo per aprire i pacchi, accorciarmi la barba e tagliare la pizza da asporto prima che si raffreddasse tutta. Veloce come l’eiaculazione precoce.
Stefania diceva di stare benone. Aveva passato un paio di mesi splendidi a Madrid ed ora si era stabilita più o meno stabilmente a Saragozza. Sapevo dove era Madrid. Non sapevo dove fosse Saragozza. Andai avanti a leggere. Non parlava di me, nemmeno del noi che poteva esserci stato. Raccontava semplicemente quello che era successo. Sterile come un preservativo ancora nella sua busta di alluminio colorato. Aveva imparato qualche ricetta nuova, aveva bevuto questo e quello. Non parlava di persone conosciute nel dettaglio. Segno che ce n’era una importante. E non ero certo io. Non c’era niente di me stesso in tutta la lettera se non l’indirizzo. Accantonai quindi il foglio e ripresi la busta. Accarezzai le parole che scandivano il mio nome. Sancendo la mia esistenza.

mercoledì 13 febbraio 2008

Andare

Andare, andare, lasciarsi trasportare dalla strada nella notte più buia e sola del secolo, cullati dalla melodia cantata dalla scassata radio economica dell’auto di Anselmo, errando per i campi affumicati dalla nebbia della bassa provincia padano-lombarda percorrendo e serpeggiando per i tracciati delle sconnesse strade protoprovinciali, maleassestate e per questo deserte ed assonnate, lasciandosi strisciare accanto le poche luci al neon delle due o tre insegne ancora accese in questa notte densa come fossero meteore incendiate nel giorno di San Lorenzo. Avere benzina sufficiente per andare e tornare e non come l’estate scorsa quando, una volta arrivati a destinazione, ci siamo accorti che il serbatoio era ormai a secco ed i nostri soldi sputtanati per tutta la notte in birra e vino e rum, vodka ed infine per l’ultimo caffè prima di rimetterci in viaggio lungo quelle strade già percorse e dover poi abbandonare la macchina ormai asciutta sul ciglio friabile della strada, al margine dell’asfalto e spegnere i fari ma non la radio, abbassare i finestrini ma non troppo per via delle zanzare ed assopirci ebbri e contenti e stonati in quella notte trafficata e rumorosa di civette e topi e nutrie, ricci e gufi, ranocchi. Lo scorrere incostante del segno di mezzeria color avorio spento sotto gli occhi appannati di noi tre decisi a trovare il senso della vita e dell’universo intero tra ricordi di una giovinezza non ancora terminata e progetti futuribili, bottiglie vuote come le tasche e cappotti fuori moda, cantando il romanticismo immortale della rivoluzione, ci fanno sentire viventi esseri in movimento. La chiave della vita, in quelle notti, è tutta racchiusa nell’atto stesso dello spostamento, del trasferimento continuo ed infinito, nell’assecondare ed armonizzare il trascorrere del tempo con lo scorrere della strada, dei chilometri macinati, inghiottiti, fatti nostri in qualunque condizione, indipendentemente dal clima, dagli impegni, dai progetti che, sempre in quei frangenti, rimangono in divenire al motto del ci sarà tempo per farlo. La macchina scassata, con le molle del sedile posteriore che ti trapanano il culo ed impediscono di svaccarti comodamente, la seconda che gratta come la gola di un vecchio tabaccoso e che, ogni qualvolta si deve cambiare, fa pregare gli angeli, gli gnomi, le fate e le madonne perchè resista anche questa volta, ancora quella volta e la prossima, i tergicristalli che non tolgono l’acqua dal vetro ma la tirano fino a farla sembrare olio, fino a farci credere di essere entrati nell’apocalisse ed arrivare ad attendere la pioggia di rane perchè di cavallette ce ne sono già in abbondanza e di più ancora non si saprebbe come farcele stare. Il motore è costante sotto il comando del piede di Anselmo che ama guidare, adora la sensazione di avere il pieno controllo dello strumento magico del movimento; guida prudente anche perchè per le nostre strade non si potrebbe fare altrimenti se non si vuole rischiare di finire come una supposta nel fiume gonfio e plumbeo come un cielo sudamericano. E al posto del passegero anteriore, il gigante buono, Artù, che col suo metro e novantotto non poteva stare altrimenti, quando da quel giorno, per il suo compleanno, Anselmo ha deciso che sarebbe dovuto stare comodo, con le gambe allungate e non costretto come un animale allo zoo e dunque al termine di quella serata alcolica ed onirica che fu in seguito nominata dell’amicizia, con una lucidità umida negli occhi che non rispecchiava quella della sua psiche, ha divelto con un colpo sicuro il cassetto portaoggetti per risistemarlo nel baule. Tutti abbiamo riso divertiti allo show di Anselmo che nell’operazione si era pure tagliato un dito e sanguinava lamentandosi come un maiale norcinato e poi Artù che, come un vero re, si è sistemato al suo posto di passeggero comodo comodo come un pashà e che per dimostrare l'ampiezza ricavata, alzando appena un poco la chiappa destra ha mollato una scorreggia tonante come riconoscenza e poi l’abbraccio col suo amico col dito bendato dal panno di daino.
Le scorribande notturne, con i nostri genitori in pensiero, preoccupati, che non riescono a capire il perchè di quella che ai loro occhi appare come una nostra inspiegabile inquietudine e che per questo non possono raggiungere il sonno sapendoci in giro a fare baldoria, perchè per conoscere lo stato dei fatti non è necessario farselo dire, e dunque attendere la notte intera seduti sul divano, col plaid tirato fino alle spalle per tenere lontano il freddo dell’attesa, con lo sguardo illuminato e pesante fissato sulle immagini di un televisore stanco senza volume a tendere l’orecchio teso per carpire qualche rumore di automobile sperando in cuor loro che sia quella giusta ma scaramanticamente dicendosi che no, non può essere questa, ed il sollievo quando, ormai stremati dalla stanchezza, abbandonati ad un necessario trascinato riposo, all’orecchio giunge il metallico scoccare della serratura e le forze che rimangono bastano solo per un burbero saluto grugnito a mezza voce prima di andare definitivamente poche ore a letto.
Ma noi stiamo bene in giro, in macchina, a bere in compagnia e lo sappiamo quello che sta succedendo a casa ma non lo riteniamo corretto e per questo non intendiamo lasciarci intimidire e limitare, non possiamo nemmeno lontanamente concepire come giusta una tale coercizione alla nostra vita e così andiamo, andiamo e strisciamo tra i campi di grano, i vigneti ed i campi arati, i pioppeti e le cascine dormienti, cantiamo, beviamo brindando alla notte ed alla vita, alla nostra imensa vita tra le anse delle strade sull'argine del fiume. Lo facciamo naturalmente, spontaneamente perchè, inconsapevolmente, sappiamo a cosa siamo destinati, cosa ci attende, cosa tutti prima o poi, spesso contro la propria volontà, sono finiti con l’accettare: le responsabilità, il lavoro seduto dietro ad una scrivania a fissare un monitor, rispondere al telefono e chiedere sempre come va? e rispondere bene anche quando in cuor proprio verrebbe spontaneo dire che è tutto una merda e che fa schifo e che la vita ci si ricorda com’era bella, e poi ancora il doversi svegliare la mattina presto dopo una nottata inutile, sprecata, il traferirsi in un altro posto, in una città maleodorante di chiuso, di chimico ed infetto in cui la umile puzza di letame e l’umidità della bruma ci sono proibite, vietate, relegate a semplice ricordo adolescenziale, i buchi nelle strade ci sono ma quello che manca è il buio, il verso dei gufi, delle civette, il gracchiare metallico e melodioso dei ranocchi e del cambio ed il cicalare dei grilli, manca la luce delle stelle e la luna si confonde col faro di qualche antenna sul tetto di un grattacielo e gli amici sono lontani, persi. Noi sappiamo che la vita è da spremere quanto più possibile quando può offrire il suo nettare migliore. Non vogliamo conservarla sotto teca, in formalina o come un reperto od un qualcosa da tenere per ultimo, per l’occasione giusta che non arriva mai, come la bottiglia più buona della cantina o le fragole della macedonia.

domenica 6 gennaio 2008

grasso

La doccia mi sveglia sempre 3 minuti dopo la sveglia polifonica del cellulare. Qualche volta apro gli occhi prima delle otto. Nella stanza c’è odore di sonno, che è un po’ quello degli avanzi della cena. Spesso ho l’alito pesante. Osservo la tonalità di blu dietro le tende. Cerco di ricordare un particolare che mi dia la certezza di aver puntato l’allarme del telefono. Non lo trovo mai e mi alzo a controllare. E la campanella è sempre sul display. Scuoto la testa e passo gli ultimi minuti di torpore sotto il piumino IKEA. La sveglia suona e mi lavo via lo sporco dei sogni (e le caccole gialle dagli occhi). Una volta ogni due giorni mi rado anche la barba. Raramente mi taglio ma uso una schiuma al mentolo e quando passo con la lametta pizzica un po’. Non credo che questo mi piaccia. Faccio colazione solo se la sera prima ho bevuto forte ed ho bisogno qualcosa per distrarre lo stomaco. Quando succede arrivo in ritardo a lavorare anche se guido più veloce.
Ed il capo mi dice.
“Un’altra bella signora da riaccompagnare a casa?” sorride dietro il solito bicchierino marrone in plastica da caffè istantaneo.
Non gli rispondo. Gli passo accanto annusandone la piccante colonia e striscio la mia carta magnetica nel lettore.
“DANTE STAGNI” scrive lo schermo verde. Lo leggo sempre con la stessa apprensione degli studenti davanti ai tabelloni con l’esito degli scrutini.
Poi inizio a lavorare.
Stacco per prendere un latte macchiato con Danilo verso le 10 e 45. Quando ritornano Sabrina e Patty dalla loro pausa. Non possiamo lasciare la postazione vuota. Nei nostri 5 minuti di pausa di solito Danilo parla dei suoi problemi con la moglie ed io ascolto. Quindi torniamo a lavorare sempre con la solita battuta.
“Dai, andiamo a diventare ricchi”.
Non so chi l’abbia detta prima. Se io o lui.
La nostra pausa pranzo è dalle 13 alle 13 e 45. Abbiamo una mensa interna e non dobbiamo pagare niente. Possiamo anche fare il bis. Non si mangia troppo male.
Il pomeriggio faccio un paio di chiamate con il telefono dell’ufficio. Una a mia madre ed una a Bangkok. Ho l’elenco che ha dimenticato Raj quando se n’è andato. Non ho ancora trovato qualcuno che parli la mia lingua. Ma tutti quelli che hanno un telefono sanno l’inglese. Hanno un accento orribile e non mi piace parlargli. Lavoro quindi fino alle 18. Fatto questo torno a casa. Il martedì mi fermo al supermercato e faccio la spesa. A volte esco dopo cena.
Ultimamente sto ingrassando: proprio come i capponi.