venerdì 16 novembre 2007

Il viaggio

È strano, ma la maggior parte delle volte che parto ho in tasca già un biglietto per il ritorno.
Anche la volta che siamo arrivati, noi, tre ed altri compagni di viaggio, tutti scalcinati e spettinati ragazzi al termine dell’adolescienza, che solo per uno di noi fu minata dall’acne, alla stazione ferroviaria di Copenaghen in quel freddo mattino di agosto, senza problemi reali ma mille esistenziali, con quel fagotto come bagaglio, pochi marchi ed ancor meno corone in tasca, tanti desideri ed illusioni, la carne portata addosso alle ossa come un cappotto ed un biglietto con validità un mese entro il quale fare ritorno.
Siamo partiti da Berlino dopo esservi arrivati da Amsterdam, dove un banale smarrimento di documentazione personale durante una scorribanda notturna sulle ali dell’ebbrezza ci ha costretto a trattenerci quattro giorni di più in quella caleidoscopica e cara città umida, che nemmeno le folate del vento riescono ad asciugare, in attesa che da casa mi giungesse il passaporto od almeno una documentazione che comprovasse la mia identità. Copenaghen è grigia ma di una tonalità diversa da quella marmorea di Berlino e meno acquosa di quella olandese. Un color nuvola pretemporalesca primaverile avvolge la città a trecentosessantagradi inghiottendo tutto quanto si trova in cielo ed in terra a meno di un chilometro di distanza. I colori filtrati da questo grigio perdono vivacità e lucentezza e calore e dietro alla Sirenetta evasa dal sogno di quel diverso e strano danese d’un Hans Christian Andersen, le gru e le ciminiere delle industrie e dei cantieri navali segnano l’orizzonte separando l’impercettibile differenza del mare dal cielo. Anche il bronzo di quella povera mezzadonna, finchè non arrivi ad averla sotto il naso sembra grigio. Un color grigio acqua di stagno in autunno, quando una volta in campagna cominciava a ghiacciare. Un grigio antico e freddo. Non riusciamo a capire se Copenaghen sia grande o immensa o se esista realmente oppure se tra qualche minuto ci risveglieremo e ricorderemo semplicemente di aver fatto tutti il medesimo sogno.
Diciott’anni sono pochi se li guardi dai venti, sono niente se li guardi dai trenta in poi ma sono la sintesi del significato della vita quando li hai.
Uno sleepin che sembra una palestra, camerate da sei, dieci o dodici con le pareti di compensato alte due metri e mezzo ed aperte senza soffitto è quello che riusciamo a trovare dopo qualche birra bevuta alla stazione ed un giro a Christiania per scrollarci di dosso il torpore delle ore di mancato sonno del viaggio in treno, seduti per terra lungo il corridoio a ritirare le gambe ogni qualvolta qualcuno deve passare per raggiungere il bagno o anche solo per sgranchirsi le articolazioni. La fermata dopo Berlino ma prima di Amburgo, una stazione buia e fredda con luci bianche da frigorifero, salgono solo due ragazzi ed una ragazza e nessuno scende su quei metri di cemento scassati dal gelo invernale e dalle radici delle piante e non ancora accomodati. L’unica cosa che si capisce scorgendo qualche immagine dal riflesso luminoso del finestrino è una spallina di uno zaino che recita un familiare Invicta argenteo, ed appena mettono piede nel corridoio del nostro scomparto li chiamiamo.
Sono Marco, Dino e Sandra dal salento.
Ci raccontano che sono arrivati sin lì in autobus partendo da Berlino con l’intenzione di giungere sino a Copenaghen in bus per spendere meno ma una sorte poco clemente ha fatto sì che il mezzo si rompesse proprio nel cuore della notte ed in quella sperduta cittadina buia e dimenticata da dio e dal governo della quale nemmeno loro sono a conoscenza del nome, costringendoli dunque ad abdicare in favore del nostro treno. Abbiamo suppergiù la stessa età e quello ancora più importante, la medesima destinazione quindi ricaviamo qualche centimetro quadrato accanto a noi per far sì che anche i loro sederi possano trovare posto in quel corridoio che rispecchia molto la mia idea di affollamento che immagino essere tipica della Transiberiana, nei pressi dei confini dell’immenso Impero Sovietico con qulli della vasta Pianura Mongola. Dopo pochi minuti dividiamo le provviste alimentari che avevamo praparato per sopportare le lunghe ore in treno: in tutto quattro panini farciti con un salame a buon mercato trovato in un supermarket vicino alla stazione e due passate di burro. Sono praticamente due morsi a testa niente di più e niente di meno di quanto basta per farsi venire appetito. I tre nuovi amici per ricambiare la cortesia estraggono dallo zaino Invicta una stagnola con dentro qualche pezzetto marroncino di ottimo hascish acquistato due giorni fa in un caseggiato occupato di Kreuzberg, dove, in seguito, scopriamo avere trascorso due delle nostre notti berlinesi e dicendo che magari ci si era anche visti ma con tutta quella gente sarebbe stato impossibile ricordarci le facce. Scopriamo, ricordando il nostro soggiorno ad Amsterdam, che anche loro ci hanno fatto tappa e che hanno trovato una bellissima camera in affitto vicino alla stazione, a due passi dalla zona libera dove ogni sera si va a far baldoria nei coffe shop e poi intontiti a girovagare per il red district abbagliati dalle luci intense e colorate delle vetrine solo a fantasticare su quello che si potrebbe fare, ed il giorno successivo ancora rincoglioniti fino al Van Gogh Museum per rimanere estasiati dinnanzi alla maestosità della pazzia di un uomo morto suicida a poco più di tent’anni, di un genio, poi a bivaccare e riposarsi insieme a mille altri giovani da tutto il mondo sotto le frasche di qualche centenario albero in Vondelpark. Sì, a Vondelpark, diciamo noi, abbiamo dormito in tenda con dei ragazzi spagnoli poichè appena giunti, girando per ore non siamo riusciti a trovare null’altro che un buco merdoso e puzzolente molto costoso in camerate con tossici e puttanieri dove trascorrere la notte, mentre il giorno dopo ci siamo imbucati in un ostello un pò fuori mano, uno sleepin di quart’ordine ma sicuro ed economico. Che giornate! Nessuna coppia tra loro, sono amici di lungo corso, ci dicono e noi per riscaldare l’ambiente facciamo gli stupidi dicendo che siamo una delegazione dell’arci gay e tutti ridiamo. Sandra è carina e simpatica, sorride spesso e sa ascoltare e canta bene, vuole fare la scrittrice e si è iscritta a Bologna e diventerà una fuori sede, piena di entusiasmo.
Ormai, dopo quella condivisione esperienziale siamo come vecchi compagni di elementari riscoperti ed a pieno titolo coprotagonisti del viaggio da qui in avanti.
Passiamo alcune ore a conversare, intontiti dal fumo balsamico delle canne che, una dietro l’altra abbiamo prima rollato e poi fumato, incuranti degli altri passeggeri infastiditi, proprio là nel corridoio di quel vagone di seconda classe dei convogli spartani delle ferrovie tedesche. La gente si lamenta per l’odore, una signora sulla sessantina in una lingua troppo lontana dalla nostra, minaccia di chiamare il controllore o perchè no addirittura la polizia perchè, dice, quella è droga e lei non vuole sentirne nemmeno l’odore e e e ... Poi finalmente si addormenta, il convoglio intero si azzittisce e le mille teste cominciano a percorrere le proprie personali strade dei sogni ed allo sferragliare dei ruotoni metallici sulle giunture delle rotaie, cullati dall’ondeggiare seguendo le svolte, alla luce soffusa notturna del corridoio e la testa leggera, piena di fumo e desideri e sogni, ci addormentiamo anche noi. Ci svegliamo che è già mattina, ma il sole non è altro che una palla pallida a mezz’aria tiepida e velata da una cataratta bianca lattiginosa.
Non sappiamo dove siamo, quanto manca a quando arriveremo ma abbiamo la schiena rotta, le gambe anchilosate ed informicolate per la posizione tenuta per quelle lunghe ore di distratto sonno adagiati sul linoleum lercio del corridoio. Marco, Sandra e Sesto il mio amico, insistono nel loro scomodo dormire, tutti piegati uno sull’altro come pastori di cartapesta da presepio, con la bava della notte che pende dagli angoli della bocca e cola sulla spalla del vicino. Nel convoglio si respira la notte trascorsa e la gente comincia a passare per andare al bagno ed anche gli ultimi si svegliano stirandosi la pelle e sbadigliano aria pesante di sonno e si avverte ancora l’odore del fumo della sera precedente mentre fuori dai finestrini la campagna danese verde e marrone e grigia si stende ai lati dei binari come se proprio da questi fosse originata. Anche se nessuno lo sa, tutti abbiamo come l’impressione che Copenaghen sia ormai prossima, tutto ce lo dice, alcuni passeggeri che disfano il giciglio improvvisato negli scompartimenti e tirano giù le valigie dal portabagaglio oppure guardano fuori dal finestrino per carpire qualche riferimento per provare l’avvicinamento alla capitale danese.
Ci diamo il buongiorno ed arriviamo finalmente in stazione dopo aver sostato qualche decina di minuti all’ingresso in attesa probabilmente di lasciar strada a qualche convoglio in uscita magari in ritardo oppure perchè essendo noi in ritardo, per non far ritardare anche gli altri gli abbiamo concesso la precedenza. Scendiamo, con le ossa a pezzi e gli occhi appesantiti dal sonno, nel grigio della stazione e da lì ci affacciamo come il mattino alla nuova città tanto sospirata ed attesa da tutti e sei, in questo tour della ricerca della libertà, che segna l’uscita da una fase della vita di cui non ne possiamo proprio più e l’ingresso tanto atteso e sospirato ad una nuova fase. Copenaghen oggi è come la nuova vita, alla quale si approda in una mattina fresca d’estate con pochi bagagli e sparpagliati ricordi con le tasche vuote la testa ripiena come un tortello di ideali, utopie e speranze. L’aspettativa è altissima, la tensione pure e la voglia di andare, scoprire, provare è incontenibile e tutte le volte che si scende dal treno in una nuova città, le narici si inebriano di odori sconosciuti, i piedi calpestano asfalti e cementi differenti, gli occhi vedono colori, tonalità sempre diverse e nuove ed invitanti ed i ruomori sono musiche, colonne sonore di clacson, tram, voci straniere, treni, aerei, martelli pneumatici, biciclette, tacchi, cani e e e...
Siamo a Copenaghen, siamo lontani da casa da un mese tra quattro giorni ed ho compiuto diciott’anni due settimane fa in cui abbiamo bevuto sino ad avere la nausea e ballato per le piazze e le strade ed urlato alla notte ai passanti e canzonato i poliziotti vestiti di verde rischiando di prendere un sacco di botte perchè da queste parti non ci vanno tanto per la leggera e fatto gli scemi con le ragazze riuscendo persino a rubarle una toccata, un bacio. Tutte le notti sono la stessa notte, ubriachi di vita nuova, di vino, di birra e di fumo e amore, a girovagare come zingari profani ed a voler fare i bohemienne, parlando con tutti e di tutto in qualunque lingua anche inventata. Siamo partiti in tre, siamo diventati anche dieci, ad Amsterdam, per poi dividerci chi per andare a Capo Nord, chi per tornare a casa e chi per restare là e fare una telefonata a casa ogni settimana per rasssicurare i genitori dicendogli che si stà bene, si è trovato un lavoretto e la gente è troppo simpatica e friendly e la vita è bellissima... Oppure, come noi per proseguire e rimanere ancora in tre a Copenaghen per poi raddoppiarci e vivere il presente.
Mi frugo con una mano la tasca superiore dello zaino e trovo il biglietto di ritorno con impressa la data del e non oltre, il che significa dover tornare tra quattro giorni, novantasei ore. Novantasei ore per poi fare ritorno al come prima, al mio mondo in cui sono nato e cresciuto, in cui mi sono innamorato ed ho perso ma anche vinto, imparato ed ho peli sul viso che coltivo da settimane e vesciche nelle scarpe bucate ed un anno in più rispetto a quando sono partito per comprovare a tutti, al mondo che sono cambiato, dentro ed intorno. Ci mancano ancora un sacco di cose, lo sappiamo ma non ci vogliamo pensare adesso, ad Aalborg ed alla sua via dei locali, la “Gaden” che tutti ci dicono essere il paese dei balocchi, la più caratteristica ed economica via del divertimento in tutta la Danimarca, a Skagen con un piede nel Baltico e l'altro nel Mare del Nord che, con le loro correnti opposte, formano piccole onde dalle spire terribilmente pericolose oppure attraversare le acque per approdare in terra scandinava, anche solo per provare d’averlo fatto o ancora... E invece niente, solo quattro giorni per rituffarmi nel mio nome e cognome, nei panni del figlio di Tal dei Tali, nella mia casa amata dove riincontrerò i resti ancora caldi della mia adolescenza intatta ed il mio letto rifatto e guarderò il tutto dall’alto, come si guarda Berlino dalla torre della Tv in Alexander Platz...

mercoledì 7 novembre 2007

spiegazioni

Lei era bionda. Come la birra che mi aspettava davanti. Condensando. Non c’era più molto da dirsi. “Certo che è caldo” era tutto ciò che mi veniva in mente. A sproposito come i calzetti bianchi sotto le scarpe nere. Passavano auto in cerca di parcheggio. Ne seguivo qualcuna con gli occhi mentre speravo incominciasse. Tutto in lei ricordava la trasparenza. Il vestito leggero, il trucco semplice e lo sguardo piatto. Occhi quasi grigi. Era sempre lo stesso bar. Avevamo sempre frequentato quel posto, da quando ci eravamo conosciuti. Ci incontravamo lì anche se lei viveva ad un passo. La barista si chiamava Carla. Bella ed unica come la pasta fatta in casa. Ci accoglieva sempre con un sorriso. Ci chiamava per nome anche se non ricordavo di essermi mai presentato. Io stringevo il corpo fragile di Simona ed ordinavamo. Spesso provavamo vini nuovi, qualche volta una birra. Come quella volta. La birra è sempre stato il compagno ideale per accompagnare una discussione come quella. Taglia fuori un lato emotivo fatto di vino rosso e frasi lasciate sospese. “La birra lucida gli spigoli” diceva mia nonna. Ed era proprio per quella cristallina lucidità che sentivo solo l’affannarsi del mio respiro. E mi dispiaceva sentitamente. Avrei voluto una ambientazione diversa. Chessò: un aeroporto. Uno di quei posti dove ci si intristisce facile per un arrivederci o un addio. E dove tutto è pulito sebbene non ci siano bidoni dell’immondizia. A terra, nel dehor del bar, c’erano: stuzzicadenti, mozziconi, noccioline ed un paio di ossi di oliva nascosti ai piedi di un tavolo. Dovevo parlare. Lei continuava a guardarmi tranquilla. Era il momento delle spiegazioni e non aveva nessuna fretta. Fredda e calcolata. Teneva una mano bianca appoggiata al bordo del tavolo. Aperta. Non aveva niente da bere davanti a lei. C’era solo il mio bicchiere. Lo sollevai lasciando un cerchio bagnato sul tavolo. Presi un sorso poi deglutii con un sospiro lungo. Lei socchiuse le labbra sottili. Senza rossetto.
“Certo che è caldo” dissi piano.
E lei se ne andò.
Mi concessi tutto il tempo per finire la birra ed ordinare finalmente un bicchiere di rosso.

martedì 6 novembre 2007

Pop corn e maionese

Brulicare di elettricità statica.
Lampi blu nella notte.
Lacrime bianche sparse nel firmamento.
Silenzio innaturale nella testa.
Sbilanciamento condizionato dallo spostamento gravitazionale.
Niente rime.
Solo visioni spezzettate.
Ingorgo neuronale interno al cranio.

Luce di un falò proietta ombre sulla volta della grotta.
Un uomo è seduto quieto a contemplare gli anfratti nella roccia bruna ed umida al chiarore del fuoco.
Un uomo cammina per la selva buia in balìa di grida, colpi alle gambe e licenza di tremare di paura, anche per niente.

L’uomo in cammino scorge in lontananza un bagliore naturale incendiare la notte.
Un brivido di natura diversa lo scuote attraendolo magneticamente.
I nervi delle sue mani si tendono stringendo forte il sasso al punto da bloccargli la circolazione e gelargli le estremità delle dita.
Il viso si tira in preda a convulsioni mentre quel bagliore sempre più vicino gli accende gli occhi.
La grotta gli si apre ai piedi.
Luce intensa diffonde calore su tutto quanto incontra.
L’uomo si ferma all’ingresso. Accecato.
Si volta verso dove è venuto e vede il buio nella sua ombra contornato da una volta di chiarore, il tutto immerso nell’oscurità si confonde e svanisce.

L’uomo seduto accanto al falò viene distolto dal suo intento di capire la roccia.
Ruota il volto all’apertura della grotta e si accorge della presenza perfettamente illuminata dell’altro uomo con l’oblio che gli fa da sfondo.

L’altro uomo in piedi con le spalle alla notte osserva il contorno della figura scura che si ritrova di fronte e che copre il fuoco.
Gli si avvicina avvertendo il calore sempre più insistente sul suo corpo.
Si ferma un passo prima di pestare i piedi all’uomo buio che volta le spalle al fuoco.
Alza la mano con le dita gelide. E con una forza bruta cala il sasso sulla testa dell’altro uomo.

Nell’attimo esatto in cui il sasso colpisce il cranio dell’uomo buio, le teste di tutti e due gli uomini esplodono simultaneamente lanciando poltiglia grigia ovunque. Anche sul fuoco crepitante.

Dopo, silenzio.

domenica 4 novembre 2007

Colazione

Anche quella mattina andammo al bar.
“Due caffè”
“Uno macchiato”
Il barista non sorrise.
Tirò una leva e riempì il filtro e lo avvitò alla macchina del caffè. Aveva un gilet verde a completare una camicia bianca vecchia a quasi trasparente. Pantaloni neri. Le scarpe probabilmente le aveva ma non saprei dire. Non le vidi. Venni distratto dal crollo della borsa raccontato dalla pagina aperta a caso su un giornale lasciato al suo destino sopra un tavolo poco distante.
La scritta lucida vibrò assieme alle tazzine banche. Erano d’accordo? Seppi in seguito di no.
Noi non avevamo niente da dirci. Come sempre. Guardavamo probabilmente in due direzioni diverse. Lei sicuramente stava valutando le calorie di un croissant integrale alla marmellata. Si bilanciava prima su un piede poi sull’altro. Incerta.
Il caffè fu pronto.
Lei ruppe gli indugi e si spostò verso la teca dei dolci.
L’avevo previsto. Allungai la gamba e cadde.
Ebbe la prontezza di ammortizzare l’urto sulle mani.
Catalizzò l’attenzione.
Si rialzò da sola.
“Ma perché sei così?” domandò nervosa.
Aveva gli occhi stanchi di chi non ha dormito. La faccia usata di chi ha tentato di risolvere una equazione matematica, senza esito. Il vestito era leggero sebbene fosse inverno. Verde con dei puntini bianchi e viola che probabilmente volevano essere fiori. Ma il destino gli aveva beffati. Si sarebbe detto una bella donna ma gli avventori parlottavano di altro.
Io tenevo il caffè con due dita dalla piccola e spessa impugnatura. Avevo una mano appoggiata in cintura ed un gomito al bancone. Riuscivo vagamente ad annusare il mio profumo. E mi faceva stare bene come l’auto lanciata veloce di notte.
Lei continuava a guardarmi interrogativa assieme a parte dell’assonnato pubblico. Un ometto sulla sessantina, una signora sull’uscio, un uomo distinto per il papillon nero e la barba bianca.
Mi sentivo importante. Unico.
Non risposi tuttavia. Sarebbe stato come spiegare una barzelletta.
Feci un inchino ed uscii di scena.
Era una splendida giornata e il barista continuava a non sorridere.