martedì 26 dicembre 2006

feci

non capisco se sono felice. ho raggiunto i traguardi che a venticinqueanni mi ero posta. buon lavoro, indipendenza economica, marito e vita tranquilla. un paio di viaggi all'estero ogni anno e qualche week end al mare ed in montagna. ho amiche che mi invidiano, i nostri toni sono spesso passati dall'amichevole complicità alla gretta competizione fatta di critiche sputate sottili tra un sorso di prosecco ed un oliva. non ho più amiche, c'è solo carla che prima di essere amica è una collega. è l'unica con cui mi apro un po'. poi sì, marco. oggi non devo pensarci. oggi è per la famiglia: alberto e rufus. quel cane mi sta facendo impazzire. ha portato stupide abitudini a riempire l'imbarazzante silenzio tra me e alberto. lui ne sembra contento, un nuovo oggetto di attenzioni giacché io non lo sono più. probabilmente ha un'amante. io ho marco e lui ha una moglie. la vita era più semplice quando avevo dei sogni e non delle necessità. camminiamo di ritorno dall'abituale mattinata in centro con colazione da gigi, un paio di negozi in via indipendenza e passeggiata in piazza. "sara, l'inverno sta arrivando" dicono i miei vestiti troppo leggeri ed il cappuccio alzato del solito mendicante all'angolo. passeggio più spedita, alberto mi segue poi si ferma nel piccolo giardino di piazza s. francesco. rufus caca e alberto, ovviamente, guardando altrove non raccoglie.

mercoledì 20 dicembre 2006

via riva reno

la sveglia mi allerta inattesa. ieri sera ho bevuto forte, ho dimenticato di disattivarla. nei cinque minuti di limbo mi agito in apocalittiche immagini. la mia magra figura storpiata dall'apprensione. piccoli particolari sintomi di catastrofe: un ritardo al lavoro, un piede sbagliato, un semaforo giallo, un caffè troppo caldo. la fine, sintomo di inevitabile insuccesso, mi trova solerte come il concierge del diana. il suono noioso continua forte, si associa un rumore lontano in avvicinamento. ambulanza o polizia. o entrambi. memorie lontane richiamano nozioni male assimilate, come per la mia intolleranza al glutine, sull'effetto doppler. il ritmo si tronca poco lontano, resta solo la nenia a forzare i miei occhi pesanti in un giorno di festa. ai piedi del letto finisco la mia agonia auricolare ed appoggio una fronte sudata ai palmi. presagio di una agonia cerebrale di flash al vino rosso e frasi sconvenienti, ingigantite dal mal di testa. ho imparato a conviverci: non saranno che un lontano rumore di fondo per la mia giornata iniziata troppo presto. muovo i primi passi verso il bagno, compio azioni routinarie che mi vedono apparire meglio al pubblico noto della mia immagine riflessa. esco per un po' di aria viziata dai fumosi autobus ecologici. una veloce occhiata la negozio di musica sotto casa e poi fluido nella arteria che porta al centro. vedo un groviglio di auto per una deviazione forzata. polizia a controllare i disagi. il mio disagio mi porta ad una via secondaria. via riva reno.

martedì 19 dicembre 2006

una tazza, ...

Una tazza vuota con tracce secche di un capuccino, un dizionario italiano-inglese ed inglese-italiano con lessico economico/commerciale, un libro sul pensiero sistemico, uno sui sistemi operativi, un fermacarte, carte sparse, una lampada alogena cromata, alcuni manuali, una bottiglietta di acqua naturale, un telefono, un portapenne, un posacenere con alcuni elastici ed il mio portafoglio riempiono la mia scrivania color castagno chiaro.
Dalla finestra si intravede un cielo opaco e freddo; filtrano rumori di automobili, motorini, bus, tram.
Mancano 36 minuti al pranzo.
Tra 6 giorni è Natale.

lunedì 18 dicembre 2006

domenica

angolo tra via del pratello e via ugo bassi. attraversamento pedonale. ascolto auto misto musica bassa da morenti cuffie. le marmitte truccate dei motorini ingombrano pesantemente il mio padiglione auricolare. premo la gomma più dentro me ne ricavo un orribile "crrr". presagio di una vanagloriosa fine monca del brano. mi si affiancano persone a gruppi di due o tre ed il loro vociare si aggiunge al rumore complessivo. ripasso i graffiti sui muri e alzo lo sguardo. il cielo cemento mi rassicura. il soffitto grigio aiuta l'introspezione. l'individualismo fa da padrone e passi sicuri superano la mia attesa senza curarsi troppo. a volte è bello venire ignorati, sentire che poi in fondo è possibile scomparire dal mondo. dovrei chiarire le mie questioni lasciando questo procrastinare trascinato da anni che mi ha poi portato qui. mi soffermo a pensare a lucia, alla nostra pseudo-relazione-simil-seria di 3 anni fa. i gloriosi anni sui libri che mi hanno lasciato qualche gloriosa parola altisonante ad utilizzare per stupire l'audience. un effetto anche piacevole ma ormai logoro come il fondo dei miei jeans. cerco il perché della mia giornata in qualche pensiero lasciato nel cappuccio alzato contro il sottile vento freddo del tardo mattino. trovo poco. leggere un libro, dormire e mangiare. l'icona verde si illumina, la mia rumorosa compagnia mi lascia e il suono dei motori si riduce. riscopro la colonna sonora. passa una coppia accompagnata da un boxer. facce note, il cane detto rufus e il destino in piazza s. francesco. altri seguono nella stessa direzione incrementando lo scalpiccio. un pretenzioso fiume di persone per l'argine stretto dei portici bolognesi. dalle pieghe marziali dei vestiti mi accorgo essere domenica. nel mio cappello ancora pochi centesimi. il rumore del traffico ha ripreso, la mia musica si è spenta definitivamente.

venerdì 15 dicembre 2006

la pagina bianca

La pagina bianca incute sempre un certo timore.
Una volta credevo fosse il colore a renderla tale; oggi so che non è così.

Fino a pochi giorni fa ero un venditore porta a porta di prodotti per la pulizia e l’igiene della casa. Un imbonitore di casalinghe e pensionati. Presentavo col sorriso sulle labbra detergenti per ogni tipo di pavimento (dalla ceramica al legno), vetrate e superfici plastiche da cucina. Avevo un catalogo a colori, un listino prezzi pieni a cui applicare un vertiginoso sconto ed una sacca contenente alcuni campioncini gratuiti.
La società per la quale lavoravo mi forniva settimanalmente un elenco telefonico da cui, con immensa pazienza spuntavo gli innumerevoli rifiuti. Contattavo telefonicamente i clienti la mattina e fissavo un appuntamento per il pomeriggio o per i giorni a seguire con frasi del tipo “signora, quando le fa più comodo!”. Se al fatto che, certamente, quello non era un lavoro facile, aggiungiamo anche che io sono una clamorosa frana nelle relazioni interpersonali, il risultato è facile da immaginare: in tre mesi di quotidiano lavoro, sono riuscito a piazzare si e no una decina di ordini, chiaramente a parenti ed affini, finiti i quali, la situazione da tragica divenne insostenibile. Il mio stipendio era correlato alle vendite; dal prezzo di queste veniva calcolata la percentuale che mi spettava.


Da pochi giorni a questa parte non sono più venditore.

Tutto è successo abbastanza improvvisamente, nell’arco di pochi e brevi minuti.
Avevo fissato un appuntamento per le tre del pomeriggio, in una via non molto lontano dal centro. In tenuta da lavoro, abito scuro, camicia tinta unita e cravatta, sono arrivato all’appuntamento con un imperdonabile quarto d’ora di anticipo sull’orario accordato; avevo valutato male la distanza da coprire, in realtà pochi minuti di strada. La villetta che mi trovai di fronte, diversamente da quanto mi ero immaginato, era una graziosa bifamiliare sistemata sul lato di un quadrato di prato tenuto all’inglese. Le pareti esterne della casa, palesemente tinteggiate di recente, erano di un giallo caldo, quasi fiabesco se tenuto conto del cielo terso azzurro pastello. La staccionata perimetrale del giardino, per restare in tema col prato, consisteva in due semplici file di assi di legno orizzontali, laccate di bianco e sorrette da paletti verticali; uno ogni tre quattro metri. Sul fianco della casa si scorgeva il vialetto ciottolato che conduceva al vicino garage. Sembrava di essere in una verdeggiante campagna anglosassone piuttosto che nella nostra grigia periferia cittadina. Invitato da un grazioso cancellino semiaperto, in stile con la staccionata, decisi di incamminarmi verso la villetta. La distanza da coprire per giungere alla soglia della porta d’ingresso bianca non superava i trenta metri (in realtà io sarei un geometra anche se non ho mai professato. Senza modestia, devo riconoscere che in quanto a stime sono abbastanza valido). Al centro della porte troneggiava la classica testa di leone in ottone che stringe tra le fameliche fauci un anello, e, appena al di sopra, una volta in vetro colorato. Giunto a metà stada, tra il cancellino e la porta, ho deciso, per scrupolo, di controllare l’ora: mancavano, infatti, ancora dieci minuti! Arrivato ormai in prossimità, memore degli insegnamenti ricevuti durante il corso di formazione per rappresentanti: “essere puntuali, assolutamente mai in anticipo!!!”, optai per temporeggiare facendo il giro intorno alla casa. Senza volerlo, con lo sguardo mi sono messo alla ricerca di qualche particolare della casa che potesse, in un certo modo, stonare, togliendo quella patina di perfezione che la rendeva quasi irreale. Per puro caso, voltato l’angolo della villetta, la mia vista venne catturata da un relativamente piccolo casotto in legno; uno di quelli solitamente adibiti a ricovero degli attrezzi per il giardinaggio. Quelle assi di legno scuro, nella parte verso il terreno anche un pò scrostate, con qualche traccia di muschio sul tetto spiovente, era proprio quello che stavo cercando! Era come la presenza di un neo che, nello splendore generale di un viso perfetto, lo rende reale. Ero ipnotizzato, come un diabetico di fronte alla vetrina di una pasticceria o come un bambino ad un passaggio a livello mentre passa il treno. Guidato dall’istinto, mi avvicinai alla casetta ancora rapito da uno strano automatismo. Se quello fosse stato il set di un film, mentre percorrevo sovrappensiero la stradina, sarei senz’altro incappato in un rastrello incautamente abbandonato sul prato, con il risultato di trovarmi il naso spappolato.
Purtroppo, alle volte, la realtà è molto differente e sicuramente più crudele della finzione cinematografica.
A pochi metri dalla casetta, ancora immerso in una sorta di autismo, venni prepotentemente richiamato alla realtà dal ringhiare di un cane. Con la stessa sensazione che si prova quando ci si sveglia di soprassalto da un sogno, impiegai qualche secondo per contestualizzare lo spazio/tempo in cui mi trovavo. Riacquistata piena coscienza e padronanza del mio corpo, mi voltai lentamente, sempre accompagnato in sottofondo dal poco rassicurante digrignare di denti del cane. Non potevo immaginare cosa si celava dietro di me. Quello che ricordo ancora nitidamente, sono due occhi color della bile persi in un muso massiccio ricoperto di pelo corto e nero con, appena al di sotto, due serie di denti bianchi come la carta ben visibili e serrati tra loro. L’istinto, senza bisogno di realizzare con precisione quello che stava accadendo, avendomi cacciato in quella situazione, cercò di sdebitarsi salvandomi la vita. In un lampo mi ritrovai di fronte alla porta in legno scuro della casetta degli attrezzi. Non ricordo bene se sia stata la fortuna a farmi trovare la porta aperta oppure la mia spallata ad aprirla, fatto sta che mi ci infilai. Appena messo piede dentro, con la velocità che solo la paura può dare, richiusi la porta alle mie spalle sentendomi finalmente salvo. Uno strillo acuto di bambina prima mi causò un serio collasso cardiaco ed in seguito una lesione al timpano sinistro. Girate le spalle alla porta vidi, seduta su una sedia in ferro brunito da giardino, una bambina sui tredici anni, vestita con una tuta rosa ed una bambola di pezza in mano. Con le spalle ben salde alla porta per evitare alla belva di entrare, mi trovai a gesticolare come un predicatore benedicente in direzione della bambina, nel vano tentativo di interrompere quell’insopportabile lamento. La luce, nella casetta, filtrava appena dalla finestrella al centro della porta. La scena vista dalla bambina, ammetto che possa essere stata ancora peggiore di quella vissuta da me: un uomo vestito di nero con un borsone sulle spalle che irrompe, sudato avvolto in un alone di luce fioca, nella casetta. La bambina terrorizzata non solo non smise di gridare ma, al contrario, aumentò ulteriormente i decibel emessi da quella, solo all’apparenza, innocua boccuccia. Trovatomi in una situazione inaspettata, con troppe variabili da gestire in un solo momento, finii con l’agitarmi ulteriormente innescando un circolo vizioso in cui: più mi agitavo più la bambina strillava e dunque il cane abbaiava. Non riuscivo più ad interrompere questa infernale catena. Il tempo, come è ben noto, è uno dei peggiori nemici dell’uomo ed anche in quella circostanza si divertì lasciarmi in uno spazio temporale pressochè immobile. Impossibile quantificare quanto effettivamente sia durata quella assurda situazione; quello che posso affermare con certezza è che in termini di vita mi è costata assai cara. Giusto il tempo di rendermi conto che il pericolo era ormai scampato quando, quel che restava dei miei timpani percepirono, tra uno strillo ed un latrato, lo sbattere del legno della porta sullo stipite della casa. Accolsi quel rumore come l’arrivo del redentore venuto a liberarmi dalla situazione in cui ero, involontariamente incappato. Quel “clack!” sordo, rappresentò il rumore della ganascia che spezza l’anello della catena. Attesi in grazia l’avvicnarsi di quei passi come si aspetta l’amaro dopo una luculliana cena tra amici. Tirando un sospiro di sollievo, distinsi, con estrema fatica tra tutto quel frastuono, la voce di un uomo imperiosa e sempre più vicina. Non ebbi nemmeno il tempo di avvertire l’uomo, ancora fuori dalla porta della casetta, che noi, grazie al cielo, là dentro stavamo bene, quando... “boom!”, avvertii un rumore intenso e simile alla legna secca spaccata, seguito da un più fisico colpo ricevuto alle spalle. Quella spinta, data con una forza ed una rabbia disumana, mi scaraventò a due metri almeno di distanza, giusto addosso alla bambina che mi stava di fronte. Una luce celestiale entrò dalla porta fasciando la figura di un uomo mastodontico che, a passi veloci si dirigeva verso di me, brandendo nella mano destra, come fosse una scimitarra, un manico di badile in legno.
Proprio quando si allevia la tensione dopo un pericolo scampato, diveniamo vulnerabili e fragili come un vaso di cristallo in un asilo.
Il frastuono, lo stordimento della botta ricevuta e la luce celestiale e mistica negli occhi, creò, tra i miei pensieri ovattati, un vuoto anestetizzante. Alcune parole che riuscii a distinguere, e delle quali conservo ancora il ricordo nitido, suonavano pressapoco così “.... brutto figlio di puttana di un pederasta che non sei altro...”, e non contento “... ti ammazzo bastardo...” e finalmente la giusta soddisfazione “... mia figlia ha solo tredici anni...” .Non un anno in più od in meno di quelli da me stimati! Subito, con enorme gioia, mi rimbombò per la testa “Allora la distanza tra il cancelletto e la villetta è senz’altro di trenta metri, dovevi fare il geometra, altro che rappresentante!”. Nuovamente l’irrazionalità dell’istinto si impossessò del mio corpo. In un baleno, dopo aver solo udito i colpi sferratimi dal padre della bambina con il manico senza avvertirne alcun dolore fisico, mi ritrovai nel classico, terribile cul de sac. Voltando le mie invulnerabili spalle all’uomo, quasi come in segno di sfida, mi trovai di fronte alla faccia la parete in legno scuro della casetta, senza trovare altra via d’uscita che non contemplasse la morte. Il marrone scuro delle assi di legno e l’odore di terra secca mista a muffa mi rimane ancora oggi impresso nella memoria.

Il bianco della pagina, ora, non mi suscita più nessun timore.

giovedì 14 dicembre 2006

pausa sigaretta

mi sentivo quasi seriamente coinvolto, come un terzino durante una partita importante. anche quel giorno, alle dieci meno cinque, ci incontrammo nella terrazza fumatori. le facce le avevamo tutte presenti: giorgio se ne sarebbe andato in due minuti ed in sette sarebbero arrivati alice, marco e francesca del reparto vendite. giorgio si limitò ad accennare un saluto col movimento del capo per poi reimmergersi nello squallido orizzonte appoggiato al balcone. noi ci si accese la solita sigaretta e lui spense la sua. ci facevamo compagnia, in quei minuti, con storie esagerate su amici e, ipotetici e raramente realizzati, viaggi. un giorno mi disse: "allora quando si parte?". ed io pensai seriamente si potesse partire assieme. si uscì anche qualche volta e poi si tornò ai nostri posti delle sicure quattro chiacchiere in dosi di cinque minuti al giorno. avevamo, in fondo, le nostre vite che in quel fumo si dimenticavano garantendoci momenti svincolati dal passato, da quello che eravamo in realtà e dalla nostra posizione nel mondo. e il suo profumo che si mescolava all'odore di pall mall light e quello sfondo impietosamente artificiale di palazzi e stracci di cielo. poi un giorno lei lasciò la got per un altro, meglio remunerato, posto da ricercatrice. io mi limitai a smettere di fumare. chiara ne fu felice.

mercoledì 13 dicembre 2006

relativamente presto

un odore strano, fresco e addormentato accompagna passi incerti oltre la solida porta di legno che, cigolando, si richiude pesantemente come un eco di altri tempi. l'orizzonte si apre, il cielo mostra cinesi orizzonti rosso e viola. assurda premessa ad un cubico grigio. carla prepara il caffè con una abbondante felpa verde. aspetta appoggiata al tavolo. qualche luce si accende alle finestre, qualche impietoso televisore ripete instancabile notizie ed oroscopi. quattro ragazzi si avvicinano a scuola. in questi momenti le strade sono abitate da piccole utilitarie e fumosi furgoni portano calcarei carpentieri ad invernali cantieri. qualche autobus passa carico di occhi velati da un sonno non ancora dimenticato e un vociare diffuso. alcuni siedono con una canzone già sentita nelle orecchie e pensano a luoghi lontani abitati quasi in altre vite. universitari ed immigrati in variopinte casacche elargiscono quotidiani in prossimità di qualche attraversamento pedonale. rumori del traffico. ci si ferma per la colazione. marco si nasconde dietro la gazzetta dello sport, sollevato dalla responsabilità dell'interrogazione in chimica con una firma falsificata nello zaino. qualche attacchino appende ai muri una nuova necessità. una sveglia ripete un nota melodia. la sensazione di solitudine da un cuscino freddo. qualcuno sbadiglia. qualcuno continua a dormire.

martedì 12 dicembre 2006

vacanza

oggi sono in vacanza. ho deciso di utilizzare l'ultimo giorno di ferie prima dell'endemico annullamento di qualsivoglia beneficio maturato durante l'anno lavorativo. non mi ha perciò svegliato lo strozzato suono di una, anacronisticamente monofonica, sveglia incorporata nel cellulare, ma l'abitudine. 2 minuti prima delle sette. mi sono rigirato nel letto come sempre, però più a lungo. ho ritrovato il sonno una ventina di minuti dopo. ma, disinteressato, alle otto ero forzatamente sveglio come uno squalo. seduto sul letto mi frego la faccia cercando di imprimermi il buon umore dovuto ai giorni di vacanza. poco convinto mi dirigo, non troppo dopo, verso la doccia.
cammino sugli stessi passi di ogni giorno, se avessi il pavimento di moquette presenterebbe strati più sottili con la forma delle piante dei miei piedi, qualche macchia di vino rosso e qualche suola di eventuali amici passati per passate cene.
senza pensare mi trovo sull'uscio diretto all'edicola per il quotidiano. scambio qualche battuta con orlando come ogni mattina col rosso al bar, lascio i miei dieci centesimi di mancia per il caffè e torno a casa pensoso per il palesarsi della mia incapacità all'ottimizzazione del tempo libero.
mi siedo alla scrivania analizzando notizie che variano per nomi e località. leggo fingendomi interessato agli occhi di un eventuale osservatore. notizie che dovrebbero essere tragiche mi passano semplicemente come le nozioni mai assimilate di algebra, le pubblicità suscitano in me qualche interesse. una sorta di necessità. sfoglio tutte le pagine e ripiego poi i fogli alla perfezione. seguendo i tratti originali. undici e cinquanta.
passo il resto della giornata a letto davanti alla televisione. domani lavoro.

venerdì 8 dicembre 2006

un senso di vuoto nella tasca destra

il primo allarme venne a pochi passi dall'autobus quando, nei pochi secondi di silenzio che separavano una canzone dall'altra, non udì il solito tintinnare di chiavi. ripassando assopite lezioni di fisica individuò due possibili cause dell'improvviso e sconvolgente silenzio: l'assenza di monete a fare da battente o l'assenza delle chiavi. non si scompose, continuò sui suoi passi rallentando poi all'avvicinarsi di una vetrina. non voleva dare nell'occhio. dissimulò profonda attenzione in un particolare ed insignificante oggetto di cancelleria. un semplice porta penne. il corrispettivo, sulla sua scrivania, era un vasetto vuoto di marmellata con infilate bic e matite mangiate sul finale. quell'inusuale contenitore aveva una storia tutta sua. non questa. marco con lo sguardo fisso tornava al giorno precedente. l'ultima birra a 4 euro e 30 gli aveva lasciato una buona quantità di centesimi che dovevano certamente albergare la sua tasca destra. ripercorse quindi al contrario l'ancor breve mattino. le chiavi erano al solito posto. ora avrebbero dovuto essere con lui. decise di appurare col tatto ciò che l'udito aveva anticipato. abbassò la mano. le chiavi non c'erano.
"merda", si scompose facendosi capro espiatorio delle insofferenze mattutine dei lavoratori che ora si affrettavano con passo incollerito scuotendo la testa. spense la musica e tolse gli auricolari cosicché il vento freddo gli rinfrescasse le idee strodite ancora da un malinconico indie rock. in casa c'era ancora giorgio, affrettandosi sarebbe riuscito a recuperare le chiavi. dopo però era certo di non uscire fino al tardo pomeriggio.
"e addio ai miei buoni propositi" aggiunse un labile coscienza. ne prese atto e inviò al coinquilino un messaggio dicendogli di lasciare nascoste fuori di casa le chiavi. la risposta arrivò a breve assieme al caffè in un piccolo bar. le chiavi erano sotto lo zerbino. era scontato, chiunque le avrebbe trovate. sarebbe stato meglio rincasare. aggettivandosi di stupidità si affidò alla benevoleza del destino.
una brutto presagio tuttavia lo accompagnò per tutta la giornata nella infruttuosa ricerca di un lavoro. alle 15 e trentasei la situazione si era fatta insopportabile. prese il 27 diretto fuori porta. scese affrettando ogni passo ed arrivando col fiatone ad affrontare le cinque rampe di scale. le affrontò impavido di gran lena. passato l'ultimo ostacolo si fiondò sul zerbino come un giocatore di baseball sul diamante. fece scivolare una mano incerta sotto il fondo di gomma impermeabile e raccolse le sue chiavi.

mercoledì 6 dicembre 2006

la chiamata

quelle pagine stampate ormai da un mese ricordavano l'urgenza dell'aereo. non avrebbe aspettato. erano chiaramente impressi dall'imprecisa stampante i tempi e le procedure necessarie all'imbarco. entro 40 minuti dalla partenza il check-in allo sportello, il passaporto valido, la mezz'ora stimata per passare i controlli di routine e i cinque minuti per raggiungere il terminal. volare lo innervosiva come le pause pubblicitarie prima del finale scontato di die hard. si domandava spesso se ne valesse la pena. tutti quei chilometri in così poco tempo, privato del piacere di paesaggi e di vite incrociate in un viaggio su rotaie. è vero poi che, spesso e volentieri, gli spostamenti in treno lo trovavano rumorosamente assopito in un sedile d'angolo con la musica nelle orecchie ed il portafogli nella tasca davanti dei pantaloni. dormiva, però nei suoi sogni c'erano mulini olandesi e piccoli villaggi montani tra italia e francia sicuramente più poetici del languido squallore intravisto dall'eurostar bologna - milano. controllò l'orologio nel telefono, era ancora in tempo. se lo rigirò tra i palmi domandandosi se fare o meno quella chiamata. una telefonata qualsiasi solo per il gusto di immaginarsi importante agli occhi di qualcuno che rimaneva. compose il numero di lorena. nessuno rispose.

martedì 5 dicembre 2006

durbans

non aveva una di quelle facce particolari che, per bellezza o per bruttezza, rimangono vive nella memoria. era la classica comparsa nello spettacolo della vita. e diciamo che quella vita era la mia nella quale, dopo qualche insignificante comparsata, si ritrovò nel pretenzioso ruolo di antagonista.

la nostra casa non era grande ma il verticale sviluppo permetteva una certa dose di privacy che mi era parsa congeniale. l'appartamento si sviluppava lungo un angusto corridoio sul quale si affacciavano le marroni porte delle nostre stanze e del bagno. la cucina/salotto era il capo del lungo verme e l'uscio il culo. sempre che i vermi ne posseggano uno. essendo la mia stanza a pochi metri dall'ingresso potevo entrare ed uscire passando inosservato nonostante il mio pesante passo ubriaco. all'inizio fu proprio così. era come vivere da solo, durbans lo incontravo di rado e ogni volta si limitava ad accennare un sorriso sguercio con la sua dentatura spostata dieci gradi a sinistra. parlavamo poco e le sue battute creavano un vuoto imbarazzante. al che io tornavo in camera e lui ai fornelli. lo passava cucinando, difatti, il tempo libero rassegnato ad un infimo destino. io me ne dispiacevo ma il più delle volte avevo altro a cui pensare. poi anche il mio futuro non mi precludeva grossi successi. fu per ovviare a questa situazione che mi trovai un lavoro "sicuro" e fu questo a far precipitare le cose.
l'omologazione degli esseri umani al tempo li porta ad una scarsa varietà nelle amicizie. i panettieri si conoscono tra loro, gli impiegati hanno i loro giri, gli studenti altri e così via. durbans era un impiegato ed ora anche io vestivo tali camicie di seconda scelta. i nostri orari avevano una discrepanza di 30 minuti ma, sfortunatamente, un ritardo congenito portava il mio coinquilino ad uscire e a rincasare ai miei stessi tempi. iniziò poi, dopo qualche giorno, anche a prendere l'autobus con me. io non ho mai trovato piacevole tenere conversazioni solo per evitare un silenzio tra conoscenti e di converso ho sempre amato eccessivamente l'ascolto della musica in ogni mio spostamento. provai a farglielo capire ma pareva permeabile come il granito ai miei timidi tentativi. iniziai dunque a sedermi solo o vicino ad altre persone. lui regolarmente si posizionava nelle vicinanze. percepivo il suo odore che ora mi nauseava. col tempo non sopportai più nemmeno la sua faccia, il suo sorriso e il suo ridere forzato alle proprie battute. "sempre diffidare da chi se le fa e se le ride" diceva mio zio. sviluppai una fobia che era più una mania di persecuzione. in 3 settimane decisi che era il caso di cambiare appartamento di nuovo. ritornai a vivere con mia madre. almeno lei aveva i denti dritti e non trovava divertente chiedere ridendo "ed oggi come esci?" in giornate piovose. perchè sì. lui amava la pioggia.

lunedì 4 dicembre 2006

fermacravatta

mio padre ha sempre sostenuto che un uomo si valuta in base al proprio fermacravatta. mio nonno gli aveva insegnato che una persona importante è introdotta dai particolari che porta con nonchalance in giro. primo su tutti l'orologio.

il dopoguerra era finito e il boom economico iniziava a lasciare le ustioni su qualche subordinato e mio nonno tranquillo passeggiava diretto al cinema con la, ancora fascinevole, mia nonna. era una routine: il venerdì al cinema. mio padre lasciato alla zia che viveva vedova nell'appartamento accanto al loro. aveva avuto il tempo di un aborto e di un lutto indotto da semplici pezzi di ferro lanciati impietosi a portare via una vita. scagliati da mano nemica. la consolazione di una foto in piazza maggiore ed un nipote che il venerdì sera poteva chiamare "al mi fangen".
il cinema era affollato come previsto ma la previdenza del nonno volle che l'anticipo calcolato gli permettesse una perfetta angolazione dalla quale osservare il polso del famigerato bond impersonato da sean connery. passarono i minuti, i "brustulli", i dialoghi, i baci e i titoli di coda ed alzandosi gino decise che l'indomani anche lui avrebbe camminato due spanne sopra tutti con quel sorprendente orologio al polso. altro che quel "zavaglio" da taschino. il vecchio si faceva il rolex. e così fu. non il giorno ma l'anno successivo. i tempi a seguire portarono bene alla sua piccola attività che passò a media e poi a grande. al suo polso sempre lo stesso orologio invecchiava assieme alla, non più fascinosa, moglie. ma lui era fedele, ad entrambi. lo avevano seguito fin lì e non li avrebbe abbandonati, mai. fu infatti così che loro lo abbandonarono una bella mattina di settembre in cui non si svegliò. il rolex passò a mio padre e mia nonna al vestito nero. la vita di famiglia non cambiò molto: mio padre già gestiva l'azienda da qualche anno con profitto e mia nonna continuava a perdere tempo tra vino e amiche delle partite a "bistia". il sole splendeva e il mio vecchio faceva la vita del borghesuccio che prova a essere nobile. auto, donne e champagne. e fu questa ricetta, ma con dosi sbagliate, a portarlo in un fosso ad ozzano dell'emilia dove lasciò mano ed alfa duetto. con la mano se ne andò anche l'allegato rolex portafortuna.

da quel giorno mio padre non porta l'orologio, ha tuttavia un costoso fermacravatta.

domenica 3 dicembre 2006

dicembre

Era dicembre e la neve tardava a venire. Il fumo dai comignoli saliva dritto verso il cielo: alta pressione e niente vento. La neve avrebbe aspettato ancora. Le giornate trascorrevano uguali e monotone. Non c'era niente da fare, niente da sperare e niente da vedere. La vita appariva come un puzzle steso su un tavolo, lasciato a metà. La cornice era completa. Tutti e quattro lati uniti creavano una vaga idea del contesto ma niente di più. In alto l'azzurro del cielo, in basso colori scuri non meglio definiti ed ai lati una gradazione di tonalità che spaziavano da un estremo all'altro della tavola cromatica. Il centro era vuoto. Sul tavolo nessun tassello da inserire. Il puzzle era finito ed incompleto. La vita, in quel periodo, appariva proprio come il puzzle.
I vecchi amici erano ormai lontani come i ricordi, i luoghi cambiati ed i sogni infranti. Il tedio era l'unico ingrediente che riempiva quei giorni; nel ricordo di quelli passati e probabilmente nella prospettiva di quelli a venire. Tutto appariva pesante e faticoso, non tanto per la sua fisicità quanto per l'estrema inutilità che quel tutto lasciava trasparire. Le campane della vicina chiesa scuotevano l'animo e scandivano l'ordinato trascorrere del tempo. La cosa più terribile che possa accadere non è il peggiorare di una situazione quanto l'immobilità della stessa. In quei momenti di stallo, in cui non esiste e non si prospetta nessuna evoluzione sul piano spazio/temporale, non si riesce nemmeno a pensare a quando, in un futuro più o meno prossimo, si alzeranno gli occhi dal tavolo e si getterà uno sguardo malinconico fuori dalla finestra. Quando quel momento arriverà, nel cuore una sensazione di vuoto e di fame si spingerà sino a raggiungere la mente dove, un primo pensiero sotto forma di domanda appesantirà gli occhi: "a cosa è servito?"! Il rammarico che ne seguirà generato da un secondo pensiero sarà "perchè non ci ho mai pensato prima?"; la pesantezza agli occhi si sfogherà con lo sgorgare di una lacrima.

Mi infilo gli occhiali, mi alzo scostando la sedia e mi avvicino alla finestra.
Non nevica ancora.

venerdì 1 dicembre 2006

scatola di cartone

e dalla scrivania lo guardava. lui, dentro una camicia rosa ralph lauren. "custom fit" gli aveva comunicato, quasi orgoglioso, il commesso al momento dell'acquisto. non gli aveva prestato grande attenzione rispondendo "va bene, la prendo" ed allungandogli, con gesto comune, la carta di credito. quella camicia lo aveva da subito fatto sentire a proprio agio. era stata in svariate occasioni il suo portafortuna ed ora lo lasciava nudo davanti alla inquisitoria scatola marrone. una scena vista mille volte nei film americani ma mai vissuta in prima persona. erano i poliziotti che riempivano le scatole con le loro scartoffie, era maverick che porgeva alla vedova la scatola di effetti personali di goose. aprì un cassetto trovandolo pieno di scartoffie inutili alla sua futura vita fuori da quelle mura: le sue penne erano sicure nella valigetta in pelle nera, il computer con loro. non aveva veramente molto da fare, la sua ultima giornata era più un commiato che un giorno lavorativo. aveva già provveduto a passare i suoi clienti a michele introducendolo negli ultimi mesi e passandogli tutti i suoi contatti. a lui da ora inutili. aveva chiuso con quella vita e doveva solo riuscire a riempire il vuoto della scatola. priscilla lo aveva messo in difficoltà. prese l'ingombrante oggetto e lo poggiò in attesa in angolo. chiamò giovanna e le domandò di disporre dolci e patatine sul suo tavolo. sarebbe tornato in un'ora, il tempo di un ultimo giro per l'azienda e quattro chiacchiere coi colleghi più stetti. passò una buona mezzora ed un altro cappuccino con michele. poi tornò preparandosi ad accogliere tutti per il suo addio. alla domanda "che farai?" avrebbe risposto vagamente. non lo sapeva con certezza, pensava ad una vacanza in qualche località conosciuta. ormai avrebbe potuto vivere di rendita, il suo piano era riuscito. i 13 anni di impegno costante lo avevano premiato ed ora poteva raccoglierne i frutti. soddisfatto se non felice. rimaneva quella maledetta scatola in angolo. risultò forse evidente il suo imbarazzo a tutti quelli che nelle ore successive passarono per il suo ufficio. la vuotezza di quegli anni rappresentata da un contenitore pieno di niente. la colpa della stronza iniziativa di priscilla. passò anche lui, con sguardo triste lo salutò un'ulteriore inutile volta.
dopo un paio di ore decise la fine delle visite. Era pronto ad andarsene. avvicinò la porta e si diresse alla scatola che lo fissava ancora dalla sua stupida bocca aperta ed affamata. la affrontò: la mise sul tavolo, aprì il cassetto della cancelleria, prese un pugno di bic, una gomma e li poggiò nello spazioso fondo. chiuse la cassettiera a chiave. ci giocherellò fino alla porta poi la porse a giovanna con una busta di ringraziamenti ed un cospicuo assegno. vide la tristezza nei suoi occhi assieme a quei fugaci rapporti avuti negli anni passati. camminò oltre. incrociò priscilla , gli fece cenno e lo vide abbassare occhi che, accidentalmente, incrociarono il triste contenitore. decise qui di salpare alla volta di qualche remota regione della francia meridionale.

giovedì 30 novembre 2006

banche e supermercati

erano 3 giorni che non bevevo. quando mi lasciò chiara passai 5 giorni in una ubriachezza disperata. poi semplicemente mi fermai. la strada da coprire tra casa mia e il primo sportello automatico era troppo impegnativa e un guasto aveva reso inattuabile il pagamento con carte al supermercato. avevo provato ad incaricare qualcuno. ma chi presterebbe aiuto ad uno sconosciuto con la barba troppo cresciuta, la camicia del lavoro sporca di cinque giorni e l'alito rinfrescato da mentine più che da lavaggi accurati collutorio-spazzolino-dentifricio? provai ad affidare la mia carta di credito ad un paio di ragazzi sui diciassette anni e finsero di non vedermi. tentai invano anche con una signora avanzata nell'età che mi fece vergognare di me stesso. o meglio mi disse di vergognarmi. non lo feci mai, in fondo la mia reazione era stata perfettamente razionale. non avevo gridato, ne infranto stoviglie. avevo semplicemente aperto il frigorifero e stappato la costosa bottiglia di champagne che avevo comprato per il nostro sesto anniversario. sarebbe stato dopo tre giorni.
mentre deglutivo frizzanti sorsate lei prendeva le sue cose preparandosi ad una uscita di scena non teatrale come aveva previsto. non dissi una parola e lei cercò di guardarmi il meno possibile quando passava davanti al divano con una borsa o con un'altra. non pensavo ai momenti belli o al nostro primo incontro. mi chiedevo solo quanta roba avesse lasciato nel tempo a casa mia. era già passata una buona ora ed ancora lambiccava con i cosmetici. borbottava a volte qualcosa sui cd che, colpevole, mi avrebbe lasciato sapendo mi sarebbero mancati e poi tornava a infilare oggetti nel suo beauty case da viaggio. aveva bottigliette dei più svariati colori, molti non li avevo mai visti ne sul suo volto ne sulle mani. comunque, pensai, non erano adatti alla sua carnagione chiara e lentigginosa. decisi di uscire evitando il momento dell'addio. le dissi che dovevo comprare delle cose e rispose che sarebbe stato anche per lei più facile così. notai una certa dimestichezza con la frase, doveva essersela preparata. mi atterrii il fatto di essere rientrato nelle sue previsioni ed avrei dato qualsiasi cosa per tornare indietro pochi secondi evitandomi quella ovvia uscita di scena. tuttavia ero sull'uscio ed uscii. non avevo una meta, decisi di andare al supermercato a pochi passi da casa. appena dentro fui istintivamente attratto dal reparto alcolici e, appena mi resi conto della bottiglia di whisky che mi giravo tra le mani, chiamai al lavoro. stavo male. la mia malattia durò una settimana dopodichè mi rasai, indossai una camicia pulita e tornai in ufficio. come se nulla fosse stato. in poco tempo ottenni una buona promozione e dopo essa stefania. conosciuta per caso e banalmente a casa di amici. la mia vita andò avanti per altri sei anni in tranquillità ed oggi una email mi comunica che anche stefania è andata. per fortuna ora vivo vicino a 2 supermercati e a 3 banche.

mercoledì 29 novembre 2006

natale

natale, il buon umore inevitabilmente indotto dalle luci intermittenti e dall'odore dell'inverno. il freddo condensato fuori da respiri pesanti più di quanto non siano i pensieri per i regali dimenticati. e io cammino per una via dell'indipendenza spettralmente vuota di vita e viva di una sottile nebbia. ascolto il silenzio innaturale della strada e penso ai brindisi e alle tavolate imbandite. è mezzogiorno ma potrebbero essere le sette di mattina per il grigeo colore del cielo che non promette niente di buono. non nevicherà avvolgendo di morbido bianco il mio umore strabiliato dalla mancanza. qualcosa oltre la nostalgia, un vuoto grande e semplice, senza appigli ne eco. semplicemente grigio con un blu intermittente a ricordare l'albero che festeggia, solo, in piazza. pochi minuti ed i primi si avventureranno fuori da case e ristoranti affollando le vie per la digestione. congestionando il traffico ed uccidendo quel buon umore dell'appagamento dell'anno apparentemente andato lasciando pacche sulle spalle e buoni propositi. tutto poi ad infrangersi in meno di una settimana con il suo definitivo collassare. io penso a me e metto un piede davanti all'altro gustandomi questa malinconia mista ai biscotti della mattina. mi avvicino alla piazza atterrito dall'eventualità di incrociare qualcuno con il brio di augurarmi buon natale sorridendo sotto una spessa sciarpa. "buon natale" leggo nella una vetrina di un negozio chiuso per ferie. mi soffermo sulla clip art raffigurante un paesaggio invernale. una immagine vista migliaia di volte a cui non ho mai prestato troppa attenzione. egoismo. penso sia il freddo ad acuire la mia scarsa capacità di osservazione ma in realtà sono queste scarpe comode a coprirmi due paia di calze e la giacca nuova speditami da casa. il mio regalo assieme ad un biglietto con i vari "ci manchi" ed una promessa di vedersi presto. ininfluenti nella mia passeggiata che si estinguerà prontamente oltre uno dei ponti che porta alla prima periferia dove peraltro vivo e tra poche ore mi troverò a sistemare rossi centrotavola per i pochi non ancora pieni di festeggiamenti. certamente ci sarà "al dutaur" a festeggiare con la stessa studentessa ormai fuori corso, ha prenotato il solito tavolo d'angolo. penso alla mia lara, al dove sarà e al dove avremmo potuto essere, mentre ormai saluto l'albero che pare aver trovato la compagnia di un travestito da babbo natale bramoso di qualche spicciolo per la sua immagine impressa in pixel o su pellicola. avevo anche pensato di scambiare due chiacchiere. l'albero non avrebbe risposto.

il ricordo della fine

Quasi sempre rimane più nitido e chiaro il ricordo della fine di qualcosa piuttosto del suo inizio.

Da qualche giorno era inverno ma le foglie resistevano sui rami, il sole scaldava ancora, niente fumo dai comignoli e le vacanze erano ancora lontane.
Lei, più o meno dall'inizio dell'inverno, era cambiata o almeno così sembrava ai miei occhi. Guai a dirle qualcosa al riguardo... la sua reazione era furibonda e sproporzionatamente violenta.

Ci eravamo conosciuti ai tempi degli inutili e ripetuti tentativi di disintossicazione da teina e caffeina. Lei, una bella ragazza sui venticinque anni tremante come una foglia al vento, io non molto diverso da come sono ora. Eravamo stati gli unici due ad essersi recati quel giorno alla presentazione del programma di prevenzione e riduzione del danno al sistema cardiocircolatorio. Avevamo letto entrambe il volantino divulgativo del programma mentre sorseggiavamo, in due punti distinti, anche se non troppo lontani, della stessa città, la rispettiva sesta e ottava tazza di caffè della giornata. Erano circa le due del pomeriggio.
Nel salone, durante la vana attesa dell'arrivo di altre persone, ci eravamo scambiati qualche parola. Non essendo arrivato più nessuno, colui che si insigniva del titolo di dottorone e ricercatore, relatore quella giornata, ci aveva avvertiti che per due sole persone non avrebbe tenuto nessuna presentazione. Dopo esserci scambiati un'occhiata di intensa e senza proferir parola ci eravamo ritrovati in un bar a bere una tazza di caffè: rispettivamente la settima e la nona della giornata; erano circa le due e mezza.
Come spesso accade, la passione e l'amore per gli stessi interessi lega più di un caco acerbo.

Da qualche giorno, i suoi atteggiamenti erano cambiati, le sue abitudini diverse ed anche i discorsi mutati. Denti stretti durante i saluti, pugni sempre serrati nelle discussioni e nessun tipo di effusione amorosa. Trascorso qualche giorno, ho deciso di affrontare di petto la situazione.
"Cara dobbiamo parlare!" le ho detto con tono imperativo.
"Si, credo proprio che dovremmo farlo!" mi ha risposto, con fare a metà strada tra lo scocciato ed il sarcastico, mentre prepava un caffè.
"In questi ultimi giorni tu sei un'altr..." un tonfo sordo e metallico, simile a quelli che si sentono in televisione durante le scazzottate, mi ha impedito di proseguire la frase. E' stata l'ultima cosa che mi ricordo di aver udito. Dopodichè, nei miei ricordi, solo buio ed una ciclopica emicrania. Lei non l'ho più rivista da quei primi giorni d'inverno.

Quasi sempre rimane più nitido e chiaro il ricordo della fine di qualcosa piuttosto del suo inizio... non sempre...

martedì 28 novembre 2006

priscilla

non sapeva come fosse arrivato fino a quel punto. certo dalla finestra vedeva la sua auto e conosceva benissimo i 3km e mezzo del percorso casa-lavoro. sapeva i tempi di attesa dei semafori e le facce nelle macchine che accompagnavano le quotidiane tristi processioni cariche di grigio e rumori. quella mattina era in anticipo. passò il cartellino (nominato badge dall'anglofono e tecnologico HR manager) nel lettore magnetico e sorrise alla scheda che per 5 secondi gli veniva presentata sul monitor. codice, nome e cognome, giorni di ferie attribuiti, goduti e orario di arrivo. col medesimo buonumore si diresse alla macchina del caffè per il solito cappuccino. qualche passo ed era in ufficio. fu in ufficio. priscilla ovviamente si palesò essere la prima chiamata ricevuta, la aspettava. si diresse nel reparto amministrativo con le mani in tasca assaporando gli ultimi aromi sintetici del cappuccino istantaneo. bussò e si vide accolto da un sorriso accondiscendente dietro minimalista scrivania a supporto di 2 computer, 2 palmari e 3 cellulari. le penne e la carta intestata nel cassetto dei contratti in basso a destra. altre pagine bianche nella stampante. una grande fotografia di famiglia ad una parete. priscilla, moglie e i due figli: tutti con scriminatura a destra, vestiti chiari e colori seppia. una famiglia ideale: la moglie e bambini avevano salpato da 5 anni alla volta di una remota regione della francia meridionale. lo avevano lasciato solo con il suo oroscopo computerizzato abile a preconizzare l'evento. non per questo capace di renderlo evitabile. si sentì colpevole ma prima di qualsiasi parola priscilla sentenziò freddo.
"è stata una proficua e più che soddisfacente collaborazione la nostra, ti auguro il meglio per il futuro..."
non riuscì a rimanere sul formale presentandogli una piccolo pacchetto rettangolare. già sapeva dell'orologio, ne avevano parlato qualche giorno addietro. cercò di toccare i tasti giusti per lasciare una buona impressione, sapeva che priscilla prendeva la cosa molto sul personale, sapeva di esserne l'unico confidente. garantì si sarebbero tenuti in contatto e che avrebbe chiamato nei giorni a venire. poi salvifico il telefono squillò e colse il momento utile a defilarsi. non si aspettava nient'altro. fu in quel frangente che priscilla gli affidò, inattesa, una scatola di cartone per gli effetti personale recuperata accanto alla cassettiera. si allontanò così con l'incomodo pacco sotto braccio ed il telefono che suonava. non avrebbe risposto.

lunedì 27 novembre 2006

una scelta avventata

il caso volle venissi cacciato dal mio precedente appartamento per un principio di incendio iniziato dal mozzicone inavvertitamente appoggiato sul divano. "era una telefonata importante", fu la mia giustificazione. in realtà stavo ordinando la pizza e avevo dimenticato il menù in camera. poi dimenticai la sigaretta sul divano. assieme alla pizza arrivò l'odore di bruciato e le imprecazioni dei coinquilini. riuscii ad assicurare la pizza in camera mia prima di riempire secchi d'acqua. non ci volle molto a spegnere il divano. il più fu portare giù dalle anguste scale i componenti semicarbinizzati. si fece anche quello e il passo successivo fu il mio con le valige fuori dall'uscio.
pochi giorni dopo lo vidi per la prima volta e mi sembrò abbastanza normale. ho sempre avuto una limitata capacità di giudizio a prima vista. sarà la miopia che mi porto dietro o la sfiga che mi perseguita. fu così comunque che mi trovai a prendere l'infelice decisione di condividere l'appartamento con durbans.

venerdì 24 novembre 2006

uova

ho nove uova il cui destino è perentoriamente impresso sul guscio con un timbro rosso. la data di scadenza. quel giorno è domani. mi ero ripromesso di cucinarle nelle più svariate maniere in settimane ma il classico contrattempo del "ho proprio voglia di" ha lasciato le mie intenzioni tali. mi trovo quindi oggi sopraffatto dalla dimensione temporale e dal suo inarrestabile impatto in quella materiale. potrei fare una torta e beffare l'avverso destino della decadenza. trovo così in internet la classica ricetta per la classica ciambella col buco in mezzo. mi ci provo ma per otto persone ci vanno solo due uova ed io sono qui in preda a deliri di onnipotenza con la mia solitudine, sette uova predestinate e 2 destinate di ripiego al dolce. padrone del loro destino mi adopero quindi ad impolverare la cucina di farina, immergere le mani nell'appicicaticcio per poi ottenere una palla che adagio adattandola nella classica forma. il tutto va nel forno e lascia dietro solo la confusione che mi sopraffà come un letto ikea soppalcato. istruzioni incluse, in svedese. pulisco quindi col fare sgraziato dell'autodidatta e col sacchetto dell'aspirapolvere troppo pieno. il risultato non è tutto sommato male. rimane comunque 2. ho ancora sette uova da sistemare prima della mezzanotte. dal computer ancora acceso giungono allarmanti notizie sulle salmonelle, dal mare della norvegia i salmoni e dal forno un invitante odore. potrei invitare qualcuno pertanto però rimarrebbe insoluto il ridotto, ma pur persistente, problema: sette uova in scadenza. è fuori discussione una nuova torta, non ho abbastanza amici. me la devo cavare come posso, con le mie forze. impietoso l'orologio tocca le sette e diciotto. mi sforzo di mangiare due uova fritte alla meno peggio anche se una si ritrova essere più strapazzata che semplicemente fritta. inconsistenza del tuorlo. se fecondata sarebbe sicuramente nato un pulcino scemo. per quel che vale. sono conscio che un pollo non cambia il mondo e nell'arrostirsi il petto diventa stopposo e secco. l'uovo non è poi così importante. prendo le cinque rimaste, le metto in una pentola e le bollo. intanto la ciambella prosegue nella cottura ed è già chiaro uscirà senza buco.

giovedì 23 novembre 2006

come un sacco

A bordo ero un peso inutile, una zavorra pesante d'impiccio all'equipaggio! Decisero così, di comune accordo, di destinarmi alle acque torbide e gelide dell'oceano, di affidarmi alle maree come un eretico alle fiamme, in una serata di foschia, di cielo pesante e senza luna, nessun riferimento polare, nessuna destinazione.Il tuffo non durò molto più a lungo del salto nel vuoto che spesso ci apre le porte al sonno, niente più di un piccolo capogiro prima dell'impatto con il mio nuovo destino.La profondità l'avvertii solamente per via della pressione dell'acqua sui miei timpani; potei quindi solo immaginarla. Il senso di disorientamento fu immediato e totale. Non esistevano per me nè più virtù nè tantomeno più punti cardinali. Prudenza a Nord, giustizia ad Est, fortezza a Sud e temperanza ad Ovest si dissolsero alla velocità della luce e svanirono come i sensi dopo un colpo dato col calcio della pistola alla nuca. Manca proprio un pelo perchè anche la vita se ne vada mentre, invece, qualcosa la trattiene, la stringe e la costringe a restare.Fui affidato alle scure, insicure acque dell'oceano con la grazia e la naturalezza con cui l'ostetrica porge l'essere neonato alle sicure braccia amorevoli della madre. Spesso l'inizio e la fine, come nell'arcobaleno completo, si confondono, si mescolano e non si distinguono mantenendo lo stesso mistero che si cela dietro la vita e la morte. Nel buio più totale non si pone più nessun problema di spazio; tutto è e rimane una questione di tempo, di durata prima che qualcosa succeda, abbia il sopravvento.Avvolto dall'acqua e dal sale del mondo sottomarino si perde la cognizione della massa e del peso; ci si alleggerisce e ci si spoglia del peso della vita terrena mantenendo solo l'illusione di avvertire quello dell'anima, della coscienza. Sospeso tra cielo ed abisso, immobile, immutabile, ogni movimento risulta un inutile e vano tentativo di sottrarsi alla volontà, al destino. Senza fiato nei polmoni si avverte sempre più la presenza dell'inesorabile avvicinarsi dell'ignoto, del non conosciuto. E' proprio allora che l'ultimo atomo di razionalità svanisce, si dissolve e ci abbandona lasciandoci in balia dell'istinto e del terrore. E' allora che comincia l'inesorabile perdita di controllo della mente sul corpo; è allora che si delinea la nascita della dualità tra anima e corpo; è allora che la mente arrocca lasciando scoperto e vulnerabile il corpo; è allora che l'anima, in estrema ratio, sacrificando il corpo non sa di immolare tutta se stessa; è allora che il buio dell'abisso lascia il posto al niente della fine.Fu proprio in quell'eterno istante, in quell'interminabile attimo in cui si avverte una lucidità superiore, celestiale, suprema, iper-razionale, che m'avvolse un fascio di luce. L'ebbrezza della fine nessuno può raccontarla, descriverla o farla provare perchè a tutti spetta, ma una sola ultima volta. Quando i miei occhi distinsero quella luce, quando le mie orecchie udirono il ronzio di quella luce, le mie mani tastarono l'inconsistenza di quella luce, il mio naso e la mia bocca gustarono il sapore di quella luce, per me fu la fine. Fu allora che mi resi conto, che presi coscienza di essere stato rifiutato dalla vita, per poi essere rigettato contemporaneamente, od in rapida successione, prima dagli abissi ed in seguito dalla morte.Non esiste solo la contraddizione e l'antagonia tra vita e morte, bensì anche quella tra morte e fine.Solo quando ci avvolge la solitudine e non si riesce a colmare l'incompletezza si assapora l'agrodolce sapore della fine.

barba e birra

Ci fu un sospiro seguito da un "pronto", pronunciato a bocca impastata semichiusa.
"Ciao, come stai?" chiese una voce femminile conosciuta, a metà strada tra una contentezza contenuta e un imbarazzo difficile da gestire. Non pronunciò nessun nome certa di essere subito riconosciuta.
"E' un pò di tempo che non ti fai più sentire..." proseguì quella voce, sempre in incognito, lasciando sfumare le ultime tre lettere in un silenzio di quasi quattro secondi.
Dall'altro capo del telefono il silenzio non venne rotto. Se quella sfumatura fosse voluta o nascondesse un significato..., allora, lui non ne colse nè l'intenzionalità nè il senso, continuando a godersi quel silenzio.
"... Sei ancora al telefono?" continuò lei riprendendo in crescendo la sfumatura.
"Si" fu la seconda parola che lui pronunciò dall'inizio della telefonata.
"Non ti sentivo più, credevo fosse caduta la linea..." e ci fu il secondo tentativo, più marcato del precedente, di trasformare il monologo in dialogo.
"...", nessun rumore fece sfumare anche questo secondo. Seguì un ulteriore momento di silenzio ancora più lungo e profondo.
"Non mi dici niente?..." rilanciò, un pò più spenta rispetto all'esordio, la voce della ragazza scandendo bene le parole. "...dimmi almeno qualcosa, ... come te la stai passando, cosa fai... insomma, sono mesi che non ci sentiamo più..." dall'alterazione del tono e dall'incalzare del ritmo della voce, si percepì l'aumento dello stato di agitazione della ragazza. "... Non puoi fare così, non puoi farmi questo... cosa credi?, che io non abbia sofferto quando abbiamo preso la decisione?! eh?..." la voce fu minacciata, come il cielo plumbeo di novembre, da uno scroscio di lacrime. Lui capì che da lì a poco sarebbe sfociata in un pianto, il solito pianto. Lei non era cambiata mentre lui si! Era il motivo del loro allontanamento.
Un singhiozzo avverò la profezia.
"... Potresti... almeno dire qualcosa..." uscì dalla bocca della ragazza tra un sospiro ed un singhiozzo. "... dirmi come stai, ... come sei?".
La voce, quando si piange cambia tono, consistenza, diventa più acuta, più stridula, molto simile a quella di un bambino. Forse è proprio questo il motivo per cui quando sentiamo qualcuno piangere, siamo mossi da uno spirito di compassione, di tenerezza che difficilmente riusciamo a controllare. Lui, invece, non provò nessuna di queste emozioni. In lui nulla si smosse. Tutto rimase come qualche secondo prima di ricevere la telefonata, quando si era alzato dalla poltrona per andare al frigo. In un baleno si ricordò di quello che stava facendo quando fu interrotto dallo squillare del telefono. Subito si sentì la gola secca. Il silenzio della sua stanza e quello che proveniva dall'apparecchio conciliarono la sua concentrazione.
Allungò la mano, afferrò la maniglia del frigo e tirò. Lo sportello cigolò, ma non tanto forte da essere percepito dall'altro capo del telefono. Ne estrasse una lattina tiepida di birra. Alzò la spalla destra e, inclinando il capo dalla stessa direzione, incastrò la cornetta.
"Come sono? ..." replicò lui per la terza volta al telefono. Un rumore metallico e secco risuonò tra le pareti; questo potrebbe anche essere giunto all'orecchio della ragazza.
"... Beh ...", continuò lui, "... sono sempre con la barba e con una birra in mano".

supercar

con la fronte imperlata di sudore si svegliò nel ventricolo destro del cuore della notte. il buio e la solitudine lo avvolgevano come un budello di maiale avvolge il salame. stretto. troppo costretto in quella situazione di sconforto in cui era caduto dalla sera precedente. quando aveva realizzato di averla definitivamente persa. senza eventualità di appello o di seconde istanze. nella vita si danno molte cose per certe come le notti di ligabue ed inevitabilmente scemano nell'alba appassendo. passando. nessuna garanzia, questa la lezione imparata se c'era qualcosa da cavare da quella amara ed amena situazione. il domani sarebbe arrivato in poche ore e le prime conseguenze sarebbero comparse assieme alla rugiada ad imbiancare i prati e rimaste con le macchie di olio su quella felpa dalla bandiera americana sul petto. non sarebbe stato lo stesso in compagnia e nella loro solitudine tra un impegno e l'altro. cercò il sonno in un gregge troppo esiguo ottenendo qualche sporadico sbadiglio forzato. una lacrima gli umidì prima il naso poi la guancia sinistra. si era ripromesso non avrebbe più pianto. un puerile atteggiamento che doveva lasciare. in fondo non era unica, era sostituibile e pure si era divertito con altre. ma quella era esclusiva. tutti gli amici la guardavano con ammirazione ed invidia. e l'invidia è una brutta bestia come diceva mio padre che non era poi tutto questo splendore. il sospetto cadeva su andrea di quando in quando ma lui sapeva non era così. era colpa sua. aveva inavvertitamente infilato il suo modellino di supercar in un sacchetto destinato poi alla spazzatura di un cassonetto poco lontano dal cortile della sua scuola.

mercoledì 22 novembre 2006

gamberetti lidl

le cose più belle mai fatte mi sono state suggerite. sono sempre stato trascinato nelle situazioni giuste. forse per questo sono vivo. non credo nel destino ma nella fortuna. e nella mia vita, fino ad ora, ne ho avuta molta. potrei passare ore a raccontarvi un sacco di storie di cui sono comprimario o comunque vicino spettatore, potrei farvi provare invidia, potrei farvi provare la mia nuova bicicletta od un paio di scarpe nel negozio in cui attualmente lavoro. a kathmandu. è stato il caso a portarmi qui, assieme ad un aereo e ad una buona dose di tranquillanti. io non sopporto volare. l'uomo non ha le ali ed è quindi innaturale volare. come cercare di fare entrare oggetti contundenti in pertugi non propriamente creati allo scopo. ochei, posso soprassedere su quelli femminili da cui più volte mi sono lasciato sedurre. ma sedersi è facile e comodo e nemmeno questa eccezione va fatta. tutti compiono degli errori, tra questi pare rientri pure io. specie se fuori fa freddo. ed ora non fa proprio caldo con i pinguini che passeggiano per firth street in pieno quartiere islandese. è una allegra situazione, come le barzellette brevi prima che scadano nel finale scontato, come i prodotti vicini alla scadenza che affollano indesiderati ancora gli stessi scaffali del supermercato del momento. in questo preciso istante sarebbe lidl e l'agognato prodotto una confezione da poche centinaia di grammi di gamberetti. l'insalata e la salsa rosa aspettano nel frigo. io aspetto ancora un paio di giorni una ulteriore svalutazione del prodotto qui citato. quella sera salto la cena. la sera dopo la corda. torno il giorno stabilito, venerdì, e scopro lo scaffale rinnovato. domando con sollecitudine al sollecito commesso che fine abbiano fatto i gamberetti. mi risponde che sono scaduti. oggi è sabato.

martedì 21 novembre 2006

fuoco

... le guardie dissero "Avanti, tocca a lui! Portate qui quel figlio d'un cane!". L'impossibilità di percepire i rumori aveva creato in lui l'incapacità di relazionarsi con tutto quello in cui si trovava immerso. Gli odori erano annullati e lasciavano spazio solo alla percezione del tempo che non voleva trascorrere. Sapeva quello che avrebbe dovuto pronunciare in faccia ai suoi boia ed il modo in cui farlo. Aveva avuto tre giorni e due notti per pensare ed esercitarsi; per creare lo stato d'animo giusto per accettare quello che gli spettava nel momento in cui qualche grammo di piombo, sparato alla velocità di uno lampo, si sarebbe infrapposto tra lui e la vita.
Sapeva perchè si trovava lì e sapeva anche che era il frutto di una sorte avversa: aveva avuto la metà delle possibilità di trovarsi dietro al fucile e l'altra metà di trovarsi davanti.
Aveva puntato tutto sul rosso e la pallina si era fermata, beffarda, sul nero.
"Mettetelo spalle al muro!", tuonò una voce con rabbia.
Il suo momento era giunto. Davanti a se aveva quattro persone in divisa con lo sguardo basso e concentrato su un punto indefinibile del terreno.
"Caricare!", ruggì la voce.
"Mirare ...".
Ecco, era giunto il suo momento. Ora doveva raccogliere tutte le forze che aveva ancora in corpo per dare un significato alla sua morte.
Il suo sguardo, comprensibilmente agitato, non sapeva quale parte del plotone fissare, quale altezza da terra tenere e quale espressione assumere.
Non era un attore, non lo era mai stato e mai lo sarebbe diventato nemmeno se la sua sorte si fosse rivelata più clemente; nonostante ciò, in un attimo, si calò nella parte di un attore che, alla sua prima apparizione, davanti ad un pubblico importante ed esigente, per l'emozione, per la tensione e per la novità, sbaglia la posizione sul palcoscenico e, quando la regia glielo fa notare, il niente più assoluto si fa largo nella sua mente, nel suo cuore e nel suo sguardo.
L'unica cosa che lo riportò per qualche istante alla realtà fu una parola pronunciata con disarmante sicurezza dal tizio con la mano alzata
"Fuoco!", sembrò rimbombare nella sua tesa.
Il momento che, in ultimo, avrebbe potuto dare un senso a tutto questo nulla, era sfilato via in un baleno ricacciandolo per sempre nell'eterno rimpianto dell'inutilità della sua morte!

il compito

mi hanno detto "fai qualcosa". al posto di quel qualcosa c'è però una puntuale descrizione del compito che puntualmente non ho colto. nove e 40 e sono in ritardo di 10 minuti. non che sia una novità, ne peraltro un problema. cerco quindi nel mio scarso repertorio di sguardi ed atteggiamenti quello del "io no capire". provo ad autoconvincermi della mia ingenua ignoranza come da metodo strasberg e stanislavski. ma l'interlocutore è sempre lì. inarcuo ancora di più le sopracciglia ma ancora pochi risultati. devo agire in fretta, parlare. un buco nero inghiotte tutte le vocali permettendomi solo un "cm" che suona più come "mmh" che come un "come" appunto. il volume è però basso e la controparte, nel rumore eufemisticamente di sottofondo, non recepisce e si avvicina. sarà a 5 passi da me. se facessi un passo indietro sarebbero sei ma prima o poi mi raggiungerebbe. dovrei girarmi e correre ma sarebbe una fuga davanti al nemico ed io non sono un codardo. non lo sono mai stato e ne sono lapalissiana dimostrazione le vittoriose competizioni alcoliche con gli amici nei passati 17 anni. il mio sguardo diventa fiero facendo cadere la maschera vestita solo pochi attimi fa. ciò non sembra incrinare i nostri rapporti dati gli spessi occhiali di lei. avanza come un kilo di pasta per 2 persone e non posso farci niente. è al di sopra delle mie possibilità. mi ci provo fissandomi sui miei piedi come un cowboy alla resa dei conti. un altro passo. non resisto, mi sposto lateralmente e la vecchina ringraziandomi scende dal 13 col suo fardello di borse coop.

lunedì 20 novembre 2006

tuttavia

Cammino a testa alta per le vie di ogni città!
Mi prendo rischi che spesso non valgono la pena, ma solo dopo averli corsi ne acquisto la certezza!
Ho cominciato a cinque anni a fare esperimenti con la forza di gravità ma non per spirito scientifico quanto per incoscienza. All’età di cinque anni avevo già perso tre denti e avevo già quattro punti di sutura sparsi tra la fronte e la bocca; facendo di necessità virtù, il mio costume di carnevale era sempre quello del pirata.
Poi è subentrata prepotente la passione per il fuoco, un’attrazione fisica irrefrenabile per il più forte di tutti gli elementi! Questo mi ha spinto a compiere atti di vandalismo a danni di oggetti simbolo di qualcosa che detestavo! Con il fuoco a portata di mano mi sentivo invincibile ed invulnerabile: era la mia guardia del corpo. Mi dilettavo nel perfezionare bottiglie incendiarie che, con mia grande soddisfazione, testavo nel mio cortile. Il fuoco mi ha difeso in diverse circostanze, esonerandomi dall’adempimento di azioni che reputavo inutili ed offensive del mio status di studente “sui generis”! Ho bruciato quattro flauti dolci in plastica, due libri di musica, innumerevoli quaderni di matematica...
Crescendo, ho via via preso coscienza di tutte le sconfitte accumulate nell’infanzia e nell’adolescenza: la forza di gravità ha sempre avuto il sopravvento ed ho scoperto che il fuoco non è lo strumento più efficace per intervenire sul pensiero delle persone!
Ora non suono nessuno strumento, odio la musica, non so le tabelline dal sei in avanti ed ho difficoltà nel calcolare le percentuali.

Talvolta, tuttavia, riesco ad essere felice.

lo struzzo

ho visto un sacco di claudicanti: reali ed immaginari. lo sterotipo che ne ho ricavato e' per lo meno quello del bastone. tutti gli zoppi hanno una stampella in genere associata ad un cattivo carattere che fa brandire il suddetto legno a mo di spada. con fare sgraziato, quasi vichingo. ma lo struzzo no, e' goffo ma niente bastone per lui, solo una scarpa su misura per il suo piede zoppo. che il piede poi non ha nulla di strano, e' tutta colpa della gamba o meglio della zampa. l'innaturale flessione del ginocchio fa infatti pensare al passo pesante del grande uccello, un tentativo fallito di incrocio tra specie a creare un uomo capace di correre a 50km/ora. struzzo al massimo corre 9km/ora, poi probabilmente inciampa. non e' questa poi la sua vera storia. varie sono le teorie giacche' sarebbe brutto fermarlo e chiedergli: "ma che hai li sotto?". certo non brutto come il tempo quando diluvia.

giovedì 16 novembre 2006

dal blog di prima, insomma mi sembrava brutto cancellarlo

undici: scelte
1 day ago


indeciso sul da farsi, come peraltro sul menù della mia parca cena limitata da vincoli economici e culturali, non faccio niente. classica situazione da discoteca che ormai è allungata nella memoria da anni di non frequentazione. nemmeno saltuaria. l'abitudine a questa sensazione di impotenza però mi è rimasta con le scarpe lucide mio vanto ora incasellate in una scarpiera in qualche dove. i miei stracci sparsi per quelle che sono state le mie case formano un po' le molliche di pane di hansel a gretel con la differenza che non mi porteranno a casa, giacche' ne ho più di una. o forse nessuna, che è un po' lo stesso. tanto sono qui e aspetto un autobus che peraltro vedo avvicinarsi. salgo.

and so a stare briefly at my hands. i look up and the girl still stares back at me, smiling. cars keep going and with them a couple of busses. i don't know if one of them can be mine, i start to feel comfortable in this place, why should i go somewhere else? the couple starts to sound more quite and the beard man keeps staring in his direction but slowly moves one feet. that should be his bus, his way home. perhaps can be mine, but not now. that's definitely not my bus. so i withdraw myself form the border of the street and let the bus and the beard man on it pass by. on the other side the girl has faded on another bus, on the opposite direction. i put my hands back to my pockets and i walk back home.

los coches siguen pasando, no me dejan cruzar la calle. la chica sonríe y me saluda. hago lo mismo, la gente a su lado mira la escena hablando. claramente nos encontraremos. solo tengo que esperar unos menudos y cuidar a mis nervios. tranquilo me digo mientras que la pareja a mi lado me toca las espaldas y me hace entender que el autobús acaba de llegar. salgo sin pensar, veo la chica del otro lado en el mismo instante en que las puertas se cierran. me entero solo ahora que es el autobús equivocado y no se como decirle de parar. la chica sigue saludándome.

dieci: quattro e un quarto
3 days ago

in un preciso momento si ferma. saranno le 4 e un quarto. mi guarda con faccia interrogativa spalancando occhi che suppongo azzurri. lo noto dall'inarcuarsi delle sopracciglia sopra i grandi occhiali. guarda me e io guardo lei. dovrei fare qualcosa per rendermi interessante. abbasso lo sguardo nervoso. pessima mossa, il classico passo falso che scatena un effetto domino non proprio piacevole. memorie di indianajones. rialzo veloce lo sguardo per scoprire che lei e' ancora ferma a guardarmi. sorride. io accenno lo stesso in risposta, spero non mi venga fuori la classica posa plastica da fotografia. ma credo sia inevitabile.

a quarter past 4. bus stop, cars pass by and the girl stares back at me. a smile in her face, a smile on mine. my hands in my pockets, i try to keep them there and not take them out and fold my arms. i play with one of that strange coins they use here and keep my eyes on her. somebody has to make a move or in few seconds we'll just watch away. i recollect all the wrong moves i've made and the few good ones. shall i wave or just cross the road and try to communicate? still unsure i take my hands off the pockets.

ella me mira con curiosidad. bien, pienso. ahora solo tengo que cruzar la calle y decirle algo. pienso en como me va a entenderme. aquí nadie habla español. una manera la encontraré, no va a ser imposible. tengo que intentar sino voy a seguir en una interminable espera. me acerco a la calle y el semáforo se hace rojo en mi dirección. los coches pasan sin mucho ruido. miro la chica y ella sigue mirándome moviendose siempre con su música encendida. yo diferentemente estoy parado esperando que el trafico se apague.

nove: una ragazza
8 days ago


c'è quindi questa ragazza. circa la mia età ma non sono molto bravo in certe stime. forse motivo della regolare dimenticanza di compleanni che dovrei invece ricordare, per rilevanza. l'età diventa pertanto irrilevante e lo è solo il suo essere lì staccata dagli altri con un caschetto biondo corto e due buffi occhiali da sole anni 70. la guardo e lei è distratta dall'ambiente attorno. sembra meravigliata di tutto ciò che vede come appena arrivata qua. non lo è, qualcuno passa e le chiede qualcosa e lei risponde sorridente. conosce la lingua e non sembra minimamente a disagio dal contatto con indigeni. a ben vedere i suoi lineamenti ricordano vagamente le linee sicure tipiche dei volti sicuri di questo paese.

and there she is. i can't help watching her, the way she moves and the way she waits. relaxed with her amazed face looking here and there. i guess she also gives a quick look at me as well. just a look, no thoughts. she seems to have deeper things to think and to be happy about. i just want to be with her, take the same bus and go to the same places that cannot be but wheat fields and relaxing cafes. i suppose she has a date with someone more interesting than i can be and she looks happy about it. i don't.

miro la chica y me encuentro nostálgico pensando en lo que deje' detrás de mi. todos los planos con mis compañeros de trabajo, la empresa que tuviéramos que empezar y el amor. que no lo era pero ahora me parece que fue. el pasado siempre parece mejor. como las chicas que aun no conocemos. la de enfrente por ejemplo que se mueve tranquila en la espera casi bailando al sonido de su walkman. que escuchara'? no se parece fría como los demás a su lado, su ropa es blanca y verde. me gustaría bailar con ella pero estoy aquí, sin música y sin animo para intentar ligar con alguien. sigo mirándola.

otto: pensilina omologa
9 days ago


un soffio di vento freddo e le mie mani spingono più giù nelle tasche dei jeans. scrollo le spalle ed alzo lo sguardo dai miei piedi. nei precedenti momenti mi osservavo le scarpe. piuttosto orgogliosamente direi. attraverso la strada e, non proprio di fronte, ma a pochi metri dall'ideale attraversamento perpendicolare attraversamento delle carreggiate trovo una pensilina omologa alla mia. più persone la affollano e non mi curo di contarle anche se sicuramente basterebbero le dita delle mie due mani che permangono nelle tasche. da destra arriva una ragazza che si ferma a pochi metri dal gruppo. distaccata ma il suo fine è condiviso dalla folla. anche lei deve prendere l'autobus.

a police car passes by. the noise shakes me, it sounds hilarious like coming from a toy car. the decorations are also funny. i remember me seeing similar cars in a movie. it was time ago. i recall the image of me and my girlfriend seated on her L shaped sofa. we had a shiny orange ikea blanket on our knees. outside it was cold. i think i fell asleep before the end of that movie. but the car is now gone, and my girlfriend before. they both are far away. she is farther than the police and the crowd on the other side of the street is closer. but still is on the other side of the street and not exactly in front of my bus stop but slightly at the left. where another shelter is. this bunch of people and a girl standing by herself. all waiting for the bus. like me.

esta chica está en el otro lado de la calle. a su lado hay unas personas que esperan el autobús. ella espera también. por lo meno es lo que creo. no estoy seguro de muchas cosas desde mi llegada. los problemas con mi dni en el aeropuerto y la media ora en espera por mi maleta me parecen signas de una ciudad que no me quiere. no será fácil mezclarme como fue en mi ultima casa, ya lo se. nunca hubo problemas allá en coger un autobús. aquí los tengo.

sette: and so it goes
10 days ago

le auto passano e il tempo pure. non alla stessa velocità, le prime nei vincoli del traffico, semafori ed una innumerevole segnaletica; il secondo no. il tempo non si ferma, quelli sono gli orologi. mi domando che ora sarà nell'ultima casa assediato da una melancolica sensazione di nostalgia. tutto quello che ho lasciato per portarmi dietro un bel ricordo. assieme al portafogli in pelle nera come regalo di addio. ora vuoto di valuta a me nota. mi distraggo nuovamente tra le mani in tasca ed il continuo borbottio della coppia. poi ritorno a me, alle mie priorità. innanzitutto aspettare l'autobus.

and so it goes. i stand still in this lonely place. it's a big city and i still don't know it. afraid of getting lost, getting mobbed, getting homesick. there's no turn back, no return. i have to do it as frank did in new york. or was it just a song? everything is blurred in my mind: the journey, the hopes, the few words i know in this language and the dreams i'd carried form different lives. and the couple still chat and that still annoys me. i just need silence to recover, to cope with myself. i wish i could kill with a touch or at least the bus was here.

aquí sigo. esta parada sigue llevando las mismas personas. la pareja sigue hablando. el otro mira sin moverse. yo hago cuatros pasos a la derecha me do la vuelta y vuelvo adonde estaba. esta espera me esta' matando, pienso en lo que he dejado y porque' lo he hecho. me estoy arrepintiendo de mi elección. pero es demasiado tarde. tuviera que escuchar lo que me decían los que me querrían de verdad mientras que ahora solo oigo las incomprensibles tonterías de la pareja. en espera del autobús.

sei: il barbuto modello
13 days ago

aspetto quindi come da piccolo aspettavo il natale, diversamente da una donna che aspetta un bambino. le macchine passano e due dei tre compagni di avventura chiacchierano tra loro. il terzo siede e guarda un punto nell'orizzonte dal quale dovrebbe spuntare l'autobus. mi ci identifico abbastanza se non fosse che ha la barba ed io no. comunque lo imito. in un arco di tempo quantificabile come inferiore ai 2 minuti mi distraggo. le targhe delle auto che passano, le persone dall'altra parte della strada catalizzano la mia attenzione. il barbuto modello invece continua imperterrito la sua osservazione. la coppia segue a parlare.

and so i wait. there's nothing great about waiting, it's just this situation i'm stuck in. and there's nothing i can do about it. i just wait for things to change. basically for the bus to pass by. the people around me are doing the same. one looks dignified staring at a far away point where the bus is supposed to come from. the other two keep chatting obnoxiously. at least they sound like that. i still don't understand anything. i take the wise man attitude, i try to be like him, but i don't have a beard.

así espero. y conmigo la gente a mi alrededor. uno de esos lleva barba y sigue mirando lejos adonde se supone el autobús va a llegar. hago lo mismo aunque no llevo barba. los demás hablan y hablan y hablan. yo no me entero de nada pero me molesta el ruido que siguen hacendo. se parecen mosquitos acerca de un río en un caliente verano. me gustaría callarlos pero hasta ahora no hablo ni una puta palabra de este idioma.

cinque: autobus
14 days ago

un paio di giorni che sono qua. completamente disorientato mi ritrovo alla classica fermata dell'autobus dove appunto l'autobus dovrebbe fermare. non ne sono certo ma aspetto. ci sono 3 persone accanto ma, non conoscendo la lingua, preferisco fingere sicurezza intessendomi nel background. ovvero nella pensilina. ritengo fondamentale difatti abituarmi ai costumi del luogo, anche prima di imparare la lingua. quelle poche lezioni prese nell'ultima patria mi aiutano a sopravvivere. non a prendere l'autobus.

a couple of days since i'm here. confused i find myself at the typical bus stop where, obviously, the bus is supposed to stop. i'm not sure but i keep waiting. there are 3 people around but, ignoring the language, i rather pretend self-confidence acting as i'm supposed to in that background. the shelter clearly. i find fundamental getting used to the way of life of a new place, even before learning the language. those lessons taken in the last homeland help me surviving. not taking the bus.

llevo unos días aquí. confundido estoy en la típica parada del autobús donde supuestamente el autobús tendría que parar. no estoy seguro pero sigo esperando. tres personas están a mi alrededor pero, no conociendo el dioma, prefiero parecer seguro moviendme en el background. la parada por supuesto. creo fundamental en efecto acostumbrarme a los costumbres del país, también antes de conocer el idioma. las pocas clases atendidas en la ultima patria me ayudan a sobrevivir. no a coger el autobús.

quattro
15 days ago


il bloody mary è una delle cose belle della vita, la redbull no.

the bloody mary is one of the good things in life, the redbull is not.

el bloody mary es una de las cosas buenas de la vida, el redbull no.

rancid - outta my mind
16 days ago


you're working like a monkey
who's been training by a sick junkie
on a mission to get money for a new suit and tie
to wear to a reception where they envy your deception
and give compliments and praises to the ones they despite...

tre
17 days ago

sono al lavoro e lo odio. chiaramente mi sto annoiando.

i'm at work and i hate it. obviously i'm getting bored.

estoy en el trabajo y lo odio. claro que me estoy aburriendo.

due
17 days ago


andrea, che e' notoriamente una persona raffinata e di buon gusto, oggi ha detto che mi trovava bene cosi' mi sono nascosto. invano.

it's so silly to translate in other languages!

andrea es un gilipollas!

uno
20 days ago


il blog e' una cosa stupida.

blogging is a stupid thing.

el blog es una tonteria