mercoledì 13 marzo 2013

Freddo e fame ad Islington


Mi ricordo quando non pagavamo il riscaldamento. Eravamo felici. Mi ricordo quella mattina in cui non sapevo come ripulirmi dall’impasto della pizza che mi si era appiccicato alle dita. Ed abbiamo aspettato annusando l’aria di lievito stanco guardandomi le dita seccarsi. E poi grattando con tutte le unghie che avevamo. E ci baciavamo allungando i nostri discorsi con pinte d’acqua del rubinetto. Convinti come eravamo di essere nel posto sbagliato in un momento storico controproducente. Ci sentivamo addosso questa missione di umanità, il bisogno di affermare la nostra esistenza in quanto essere. Senza etichette o colonna sonora. Semplicemente un incontro senza convenevoli e sorrisi dispensati per i migliori addii.
È stata l’unica volta che ti ho visto ridere davvero. Quando ho accolto la mia inadeguatezza chiedendo un bonifico per un biglietto aereo di sola andata e quello che bastava per festeggiare con qualche birra il nostro addio. Ed è stata una notte fantastica. E siamo finiti ad Islington in una casa imbiancata di fresco che non si aspettava il nostro ingresso. E così ci siamo salutati la mattina. Mi allontanavo mentre tu rimanevi lì a guardarti i piedi, con l’unico sorriso che mi ricordo.
E sono tornato a casa a rivestirmi con gli stessi abiti e scegliendo bene le parole da inserire in una frase. “Pensa prima di parlare” è sempre stato il motto di famiglia. Avessimo potuto l’avremmo inciso nello stemma nobiliare. Ed il resto è storia. Ed è come se niente fosse mai successo. Non mi ricordo nemmeno più cosa voglia dire avere freddo e fame di qualsiasi cosa che non ti faccia sentire lo stomaco, ma che ti faccia sentire tutto meglio e ti avvicini al mondo. Alla vita che è diventata il riproporre gli stessi stereotipi dei film.
E andare al cinema ogni mercoledì per trovare una nuova ispirazione per ingannare l’assuefazione.

giovedì 7 marzo 2013

San Valentino


È San Valentino ed ho deciso di amarti. Ho comprato un mazzo di fiori da 25 euro incartato con un telo di juta e mi sono messo il profumo sul collo. Ti passo a prendere sotto casa. Ti aspetto con le doppie frecce e la pioggia che picchietta nervosa sul cofano della mia auto. In questo preciso momento non sto pensando, mi sto comportando di conseguenza. E sono questi momenti a farmi stare bene. Penso c’entri qualcosa la logica dell’adeguatezza. Ma non vorrei sbagliarmi. Vorrei solo che tu scendessi subito. Non mi piace aspettare, mi fa sentire stupido ed asincrono. Mi ricorda vagamente una canzone dei Police col suo incedere impeccabilmente traballante. Che credi sempre si fermino, sbaglino ed invece no. Vanno avanti. Un passo ed un altro ancora. Ed io qui che osservo la pioggia che rimbalza sfumata da un lampione tendente al giallo. E davanti a me il centro di Bologna ed una infinità di vite a cui vorrei affacciarmi, che vorrei assaggiare. Vorrei essere in un appartamento di studenti dal frigo suddiviso in scomparti riempiti di birre del discount, vorrei un tavolo claudicante apparecchiato per tre con delle tovagliette americane spaiate, vorrei sentire un accento che proprio non si riesce a mascherare. E passare le serate a guardare Sanremo di nascosto solo per sentirsi un po’ più a casa.
Invece niente.
Aspetto.
Conto fino a dieci e mando giù la gomma che masticavo.
Mi immagino soffocare ma non succede.
Un’auto mi passa accanto. Il tizio alla guida mi guarda dritto negli occhi. Ha quell’aria di minaccia che sa di succhi gastrici dopo uno sforzo a cui non eravamo preparati.
Conto ancora fino a dieci.
Considero l’ordine estremamente pulito del mio abitacolo.
Guardo ancora l’orologio.
Penso di accendere la radio ma non voglio sembrarti nervoso. In questi momenti sono felice di non fumare. Non voglio lasciare trasparire niente, voglio essere affabile ed impeccabile.
Dopo mezz’ora ti chiamo.
La tua voce si confonde con il rumore di altre voci e piatti appoggiati sul tavolo.
Pronto? – sorridi.
Ciao, scendi?
Eh?
Ti sto aspettando.
Bè, è un po’ tardi. - Mi rispondi incespicando nelle parole.
Perché?
Perché non ci sentiamo da cinque anni. - Lo dici che sembri meravigliata.
Ed allora cosa faccio qua sotto?
Non lo so.
Hai detto che mi avresti aspettato.
Se ti ricordi mi hai detto di non aspettarti.
Mi sbagliavo.
No, è stata l’unica volta che avevi ragione.
Quindi non scendi.
Non sono più qui.
Ci sono solo io.
Me ne vado con un pugno in pancia.