mercoledì 13 febbraio 2008

Andare

Andare, andare, lasciarsi trasportare dalla strada nella notte più buia e sola del secolo, cullati dalla melodia cantata dalla scassata radio economica dell’auto di Anselmo, errando per i campi affumicati dalla nebbia della bassa provincia padano-lombarda percorrendo e serpeggiando per i tracciati delle sconnesse strade protoprovinciali, maleassestate e per questo deserte ed assonnate, lasciandosi strisciare accanto le poche luci al neon delle due o tre insegne ancora accese in questa notte densa come fossero meteore incendiate nel giorno di San Lorenzo. Avere benzina sufficiente per andare e tornare e non come l’estate scorsa quando, una volta arrivati a destinazione, ci siamo accorti che il serbatoio era ormai a secco ed i nostri soldi sputtanati per tutta la notte in birra e vino e rum, vodka ed infine per l’ultimo caffè prima di rimetterci in viaggio lungo quelle strade già percorse e dover poi abbandonare la macchina ormai asciutta sul ciglio friabile della strada, al margine dell’asfalto e spegnere i fari ma non la radio, abbassare i finestrini ma non troppo per via delle zanzare ed assopirci ebbri e contenti e stonati in quella notte trafficata e rumorosa di civette e topi e nutrie, ricci e gufi, ranocchi. Lo scorrere incostante del segno di mezzeria color avorio spento sotto gli occhi appannati di noi tre decisi a trovare il senso della vita e dell’universo intero tra ricordi di una giovinezza non ancora terminata e progetti futuribili, bottiglie vuote come le tasche e cappotti fuori moda, cantando il romanticismo immortale della rivoluzione, ci fanno sentire viventi esseri in movimento. La chiave della vita, in quelle notti, è tutta racchiusa nell’atto stesso dello spostamento, del trasferimento continuo ed infinito, nell’assecondare ed armonizzare il trascorrere del tempo con lo scorrere della strada, dei chilometri macinati, inghiottiti, fatti nostri in qualunque condizione, indipendentemente dal clima, dagli impegni, dai progetti che, sempre in quei frangenti, rimangono in divenire al motto del ci sarà tempo per farlo. La macchina scassata, con le molle del sedile posteriore che ti trapanano il culo ed impediscono di svaccarti comodamente, la seconda che gratta come la gola di un vecchio tabaccoso e che, ogni qualvolta si deve cambiare, fa pregare gli angeli, gli gnomi, le fate e le madonne perchè resista anche questa volta, ancora quella volta e la prossima, i tergicristalli che non tolgono l’acqua dal vetro ma la tirano fino a farla sembrare olio, fino a farci credere di essere entrati nell’apocalisse ed arrivare ad attendere la pioggia di rane perchè di cavallette ce ne sono già in abbondanza e di più ancora non si saprebbe come farcele stare. Il motore è costante sotto il comando del piede di Anselmo che ama guidare, adora la sensazione di avere il pieno controllo dello strumento magico del movimento; guida prudente anche perchè per le nostre strade non si potrebbe fare altrimenti se non si vuole rischiare di finire come una supposta nel fiume gonfio e plumbeo come un cielo sudamericano. E al posto del passegero anteriore, il gigante buono, Artù, che col suo metro e novantotto non poteva stare altrimenti, quando da quel giorno, per il suo compleanno, Anselmo ha deciso che sarebbe dovuto stare comodo, con le gambe allungate e non costretto come un animale allo zoo e dunque al termine di quella serata alcolica ed onirica che fu in seguito nominata dell’amicizia, con una lucidità umida negli occhi che non rispecchiava quella della sua psiche, ha divelto con un colpo sicuro il cassetto portaoggetti per risistemarlo nel baule. Tutti abbiamo riso divertiti allo show di Anselmo che nell’operazione si era pure tagliato un dito e sanguinava lamentandosi come un maiale norcinato e poi Artù che, come un vero re, si è sistemato al suo posto di passeggero comodo comodo come un pashà e che per dimostrare l'ampiezza ricavata, alzando appena un poco la chiappa destra ha mollato una scorreggia tonante come riconoscenza e poi l’abbraccio col suo amico col dito bendato dal panno di daino.
Le scorribande notturne, con i nostri genitori in pensiero, preoccupati, che non riescono a capire il perchè di quella che ai loro occhi appare come una nostra inspiegabile inquietudine e che per questo non possono raggiungere il sonno sapendoci in giro a fare baldoria, perchè per conoscere lo stato dei fatti non è necessario farselo dire, e dunque attendere la notte intera seduti sul divano, col plaid tirato fino alle spalle per tenere lontano il freddo dell’attesa, con lo sguardo illuminato e pesante fissato sulle immagini di un televisore stanco senza volume a tendere l’orecchio teso per carpire qualche rumore di automobile sperando in cuor loro che sia quella giusta ma scaramanticamente dicendosi che no, non può essere questa, ed il sollievo quando, ormai stremati dalla stanchezza, abbandonati ad un necessario trascinato riposo, all’orecchio giunge il metallico scoccare della serratura e le forze che rimangono bastano solo per un burbero saluto grugnito a mezza voce prima di andare definitivamente poche ore a letto.
Ma noi stiamo bene in giro, in macchina, a bere in compagnia e lo sappiamo quello che sta succedendo a casa ma non lo riteniamo corretto e per questo non intendiamo lasciarci intimidire e limitare, non possiamo nemmeno lontanamente concepire come giusta una tale coercizione alla nostra vita e così andiamo, andiamo e strisciamo tra i campi di grano, i vigneti ed i campi arati, i pioppeti e le cascine dormienti, cantiamo, beviamo brindando alla notte ed alla vita, alla nostra imensa vita tra le anse delle strade sull'argine del fiume. Lo facciamo naturalmente, spontaneamente perchè, inconsapevolmente, sappiamo a cosa siamo destinati, cosa ci attende, cosa tutti prima o poi, spesso contro la propria volontà, sono finiti con l’accettare: le responsabilità, il lavoro seduto dietro ad una scrivania a fissare un monitor, rispondere al telefono e chiedere sempre come va? e rispondere bene anche quando in cuor proprio verrebbe spontaneo dire che è tutto una merda e che fa schifo e che la vita ci si ricorda com’era bella, e poi ancora il doversi svegliare la mattina presto dopo una nottata inutile, sprecata, il traferirsi in un altro posto, in una città maleodorante di chiuso, di chimico ed infetto in cui la umile puzza di letame e l’umidità della bruma ci sono proibite, vietate, relegate a semplice ricordo adolescenziale, i buchi nelle strade ci sono ma quello che manca è il buio, il verso dei gufi, delle civette, il gracchiare metallico e melodioso dei ranocchi e del cambio ed il cicalare dei grilli, manca la luce delle stelle e la luna si confonde col faro di qualche antenna sul tetto di un grattacielo e gli amici sono lontani, persi. Noi sappiamo che la vita è da spremere quanto più possibile quando può offrire il suo nettare migliore. Non vogliamo conservarla sotto teca, in formalina o come un reperto od un qualcosa da tenere per ultimo, per l’occasione giusta che non arriva mai, come la bottiglia più buona della cantina o le fragole della macedonia.