sabato 27 giugno 2009

Claustrofobia

Ogni tanto ci ripenso. Passeggiavo in Firth street e cercavo di non perdermi un'altra volta. Tenevo bene a mente il percorso fatto dalla stazione della metro ma inevitabilmente mi disperdevo in pensieri e vie parallele. La domanda più frequente era: “che ci faccio qui?”. Cercavo la risposta nel cellulare ma anche i messaggi di Mara si erano fatti via via più rari. Inesistenti. Il resto del mio mondo perdeva interesse verso di me. Voltava pagina quando ero stato io a volerla girare. E mi sentivo ormai alle note di terza copertina, indeciso. Nell'aria c'era un misto di odori da grande città, ovattato e compresso. All'angolo un locale gay sovraffollato. Chiacchiere, bicchieri e coda per il bagno. Più avanti una ragazza in piedi sotto la tettoia di un negozio di libri lasciava dei volantini. Pioveva un po'. Per rendere tutto più surreale. Fotografico.
Mi affrettai con le mani nelle tasche dei jeans. La maglietta bianca vagamente bagnata. Ero già vicino alla libreria e la porta che si apriva rimandava l'odore di mobili nuovi. A pochi passi da me c'era la ragazza dei volantini coperta da un cappuccio scuro. Quasi conosciuto. Comune. Passai veloce e non vidi che gli occhi freddi e il naso deciso. Avrebbe potuto essere Carla. Avrei voluto lo fosse. C'era nello stomaco quella sensazione di digestione spastica e noia. Mi bloccai e qualche passante passò scuotendo la testa. Qualcuno mi colpì di proposito con una spalla. Avrei fatto lo stesso fossi stato in loro. E magari avrei saputo dove andare. Ondeggiai incerto. Attorno nuotavano veloci troppe persone. Ero fermo in mezzo ai coglioni. Quindi mi girai, tornai indietro di pochi passi e constatai che in effetti la ragazza con i volantini non poteva essere Carla. Mi passò una delle sue pubblicità. Un ingresso omaggio per un qualche locale che non conoscevo, dove non volevo andare.
“Cos'è?” chiese la mia faccia trascurata.
“Styldorm” mi rispose il suo sguardo catatonico. Lontano.
Già, lo stesso nome stampato sul volantino. Lo guardai veloce, non c'era molto altro da leggere, un indirizzo, un'ora e il nome di qualche dj che avrebbe dovuto dirmi qualcosa. Allettarmi. Però rimasi lì. In attesa.
Lei continuava a spargere pubblicità guardando avanti. Mi fissava incidentalmente. Inespressiva. Automatica.
“Carla” dissero i miei occhi pallidi alla luce delle mie scarpe bagnate “come va?”.
Mi rispose la pioggia e il pestare ripetitivo dei piedi che mi superavano.

martedì 23 giugno 2009

Milano a giugno, semplicemente

Giorni strani trascorsi a riflettere sull'importanza della simmetria nella vita delle persone e del senso di sicurezza che questa infonde in me. La metafora della mela tagliata a metà ed il pensiero che corre sulle rive dell'Hudson perdendosi tra le strade della downtown prima di risalire per l'ottava Avenue fino a Central Park e poi avanti ancora e ancora, fino alla fine, fino a ritrovarsi a correre ai giardini di Porta Venezia senza alcun motivo due volte alla settimana ed arrivare a chiedersi, una volta tornati a casa, sotto la doccia, il perchè di quella corsa, di quel fiato greve e della schiena sudata senza riuscire a darsi una risposta, ormai rassegnati al fatto che, in ogni caso, il giorno dopo ci si ritroverà comunque a correre così come ci siamo ritrovati anche la settimana prima, e ci ritroveremo la successiva e quella dopo ancora fino ad entrare in un circolo vizioso senza tempo e senza fine ancora quì. Poi imbracciare la bicicletta come una carabina e lanciarsi a perdifiato giù lungo il Corso, girare in Galleria, schivare i passanti rintronati dall'eleganza del duomo, dalla magnificenza dell'opera umana e prendere velocità sulla graniglia lucida che riflette i sontuosi soffitti per arrivare a tutto gas a perdersi nelle vie anonime del centro, quelle finte fatte di plastica e talmente artefatte al punto che le vetrine prima o poi prenderanno vita, i manichini si alzeranno, si allenteranno le cravatte e si rimboccheranno le maniche delle camicie lanciando quei cazzo di gemelli d'oro contro il vetro infrangibile e calpesteranno gli occhiali a specchio griffati e poi si fermeranno d'un tratto a guardare, ad osservare, a volte attoniti altre con rabbia, i passanti che ignari continueranno a scambiarsi le stesse effusioni amorose davanti a mendicanti con la casa sulle spalle invocanti, in nome d'iddio, qualche spicciolo, con le foto dei figli malati e dei mariti morti o smarriti in bella mostra e poi verso i grassi banchieri dalle tasche piene di carte di credito, i polsi appesantiti da etti di acciaio marchiato Rolex e la bocca piena d'oro (come il mattino per mio nonno) assuefatti all'agiatezza ed ancora ai giovani artisti consacrati dalle televisioni alla celebrità, all'eccesso coatto, con i loro visi perfettamente abbronzati, le sopracciglie pettinate, i capelli sparati come atomi impazziti e le barbe dal perimetro disegnato da coiffeur laureati allo IED in omosessualità ad ogni costo, anche simulata ed infine, alle rampanti modelle tristemente destinate all'anoressia oppure a riempirsi le bocche dei cazzi gelatinosi di vecchi milionari per cercare di diventare qualcuno e magari riuscire pure a vedere la propria foto alloggiare per qualche effimero numero su qualche rivista più o meno patinata e poi il giorno dopo basta, non ci sarà più nessuno, o forse solo un Toscani finché non si sarà rotto le palle pure lui, disposto a fotografare un pezzo di pelle gettato su un'impalcatura ossea minuta e fragile ed allora, tutte queste giovani resteranno sole con le loro narici incrostate di sangue e cocaina senza più mestruazioni e troppo lontane dagli amorevoli genitori e non potranno fare altro che morire in anonime stanze polverose di hotel con le finestre che si affacciano su strade sconosciute dove i preti dal collarino bianco e gli abiti scuri toccano furtivi i bambini del quartiere mentre compiacenti genitori aspettano di vedere i propri figli cresimati dal vescovo in persona. Le scritte spray campeggiano stanche sui muri di quei quartieri che furono proletari e che oggi sono semplicemente pericolosi e tristi, dove l'eroina ed il comunismo hanno parimente perso la guerra mentre in centro, al circolo del bridge, il cerone di fondotinta sui volti delle sessantenni altolocate dal seno rifatto e dal sorriso falso comincia a colare tra una Muratti Ambassador ed una battuta razzista quando si guasta l'aria condizionata. La stazione centrale resiste al cielo pesante e plumbeo di questi giorni come Vittorio Emanuele, da vero uomo, sopporta il guano dei piccioni su tutto il corpo senza fare una piega.
"Vivo come un cammello in una grondaia in questa illustre e onorata società..."
Le casse lanciano contro le persone e le pareti, il bancone del bar, gli alberi e le stelle la voce di Battiato sotto un firmamento incendiato di una metà giugno triste-lombarda. Poi, ad un tratto lei, calata dall'alto come nelle peggiori rappresentazioni teatrali natalizie all'oratorio, di fronte a me in mezzo a migliaia di ragazzi, cani, vecchi, bambini, transessuali, malati terminali e donne gravide; i suoi occhi, due, luminosi e scintillanti che mi sussurrano parole bellissime con una voce suadente proveniente da una sirena in mezzo al mare. E poi, due birre, ancora due birre e poche parole, solo gesti, movimenti e sguardi. Non c'è sabbia sotto i miei piedi, non c'è acqua più in là, e nemmeno il fuoco acceso in piena notte alla penombra del quale fare il bagno, ma è come se tutto questo fosse dentro di me. Fuochi artificiali, neuroni che ballano nudi ebbri di vita nel parco della mia mente. Coney Island stasera è solo nella mia testa e lei è lì, accanto a me, a godersi lo spettacolo. Una strana alchimia al sapore di Menabrea e Negroni sbagliato ovatta i suoni delle parole e smussa gli spigoli delle figure, le luci si accentuano e le sfumature dei colori si sciolgono in miriadi di tonalità intermedie a me sconosciute. La mia mano le sfiora il viso, le scende lungo il collo e risale verso il suo orecchio, sinistro, splendidamente nudo. Poi la voce riprende
"E ancora, sto aspettando, un'ottima occasione per acquistare un paio d'ali, e abbandonare il pianeta..."
Niente esiste più ora. In balìa di un flusso d'incoscenza che regna sovrano sui movimenti del mio corpo, mi lascio traspostare leggero come l'elio verso di lei. Mi chino. Lei reclina dolcemente il capo lasciando che una cascata di capelli le scenda dalla nuca sulle spalle e, disegnando una plastica figura klimtiana, le mie labbra si posano sulle sue. I sentimenti e le emozioni conquistano una terza dimensione. Ora si sviluppano anche in profondità. Un brivido innocente mi percorre la schiena mentre la luna avvolge i nostri corpi inconsistenti. Chiudo gli occhi, stacco i timpani e mi perdo.
La voce continua e continua a cantare un lamento che non colgo, che non mi serve più.
"...E cosa devono vedere ancora gli occhi e sopportare?
I demoni feroci della guerra, che fingono di pregare!
Eppure, lo so bene che dietro a ogni violenza esiste
il male... se fossi un po' più furbo, non mi lascerei tentare.
Come piombo pesa il cielo questa notte.
Quante pene e inutili dolori."

Penso a tutto questo, alle guerre più o meno giuste, alle elezioni perse ed alla crisi, alle pandemie ed ai milioni in Svizzera, al cioccolato ed agli orologi, faccio associazioni logiche irrazionali, ci ragiono sopra e giungo alla conclusione che non me ne frega nulla, adesso non più...

La notte non è mai abbastanza lunga e buia quando vorresti non svegliarti più.

mercoledì 17 giugno 2009

Triste (con lieto fine)

Ci incrociamo, probabilmente per caso, e lei mi chiede come va.
"Sei felice?" mi domanda. Spontanea come i tacchi alti indossati in casa. Come quei film porno a cui ora sto pensando. In cui ora mi sto immaginando. Quindi fingo di pensarci e penso ad altro. Precisamente: lei nuda, io sopra ed il mio culo che si agita. Pessima regia. Nessuna colonna sonora funky.
Comunque è ancora lì. Certa che la sua domanda mi stia dando da pensare. Orgogliosa a modo suo. In quel vestito studiato tra l’elegante e il decandente. Allusivo come un neon a forma di cuore che lampeggia davanti a un hotel su una strada secondaria. Ha un odore morbido, il solito di sempre. I capelli più lunghi del solito. Lo sguardo disegnato da sopracciglia troppo sottili.
Passa un nugolo di gente composta per l’80% da studenti universitari. Ci schivano. Rumore di passi, parole a pezzetti, odore salato, scalpiccio lontano.
Lento raccolgo i pensieri dalle mie mani in tasca che iniziano ad imbarazzarsi.
“Non so” mastico mentre passa una auto troppo veloce e rumorosa per la zona a traffico limitato.
Lei mi guarda ancora. Interrogativa od affermativa non saprei dire. Domando allo zaino agganciato alla sua spalla destra se lei a sua volta è felice.
“Certo” risponde certa con un sorriso anemico. Troppo studiata, troppo immediata.
Bene, ora sono molto felice di averla incontrata. Quindi la saluto e mi allontano.
Triste.
(Certo poi dopo lei mi insegue, entriamo a bere qualcosa nel primo locale sulla destra e passiamo la notte a fare sesso estremo).

lunedì 1 giugno 2009

insetti

Fuori piove. Ascolto dalla finestra semi aperta lo scalpiccio si scarpe più o meno estive. Eco ad una primavera salutata anzitempo. Come le felpe impilate in una scatola. Odore di condensa dentro una macchina. Patate al forno, pollo al forno e ketchup dal frigo. Da bere la coca cola che mi hanno portato ieri con la pizza. Consegna gratis, bibita gratis. I risvolti positivi della crisi.
Mastico vorace. La cottura al forno di pollo e patate richiede almeno 40 minuti di famelica attesa.
Poi tutto mi sembra più buono e più piccolo.
Ripasso le lezioni dei miei sul mangiare veloce. Mentre allungo il boccone con la coca so di me che soffoco, del mio stomaco che si buca per un osso acuminato mandato giù, il mio labbro aperto dalla lattina della bibita che ora sta finendo.
Fuori non è cambiato molto. Si è liberato un parcheggio davanti a casa.
E poi finisco il pranzo.
Tutto qui. Ci fosse stata Stefania le avrei preparato un dolce. Invece esco e prendo un caffè dal bar di Paolo che sa meno di bruciato del mio. Lascio la tavola apparecchiata tanto torno subito.
Poi mi ricordo che dovevo anche comprare le sigarette.
Ed il mio appartamento si riempie di insetti.

un bel film in TV e poche cose da lasciarsi detti

“Maddai!” disse lei. Sorrideva.
Già, un bel ricordo. Quella via sporca e discutibile, quel casino di idee e capelli in testa. L’odore di kebab che colludeva col piombo sciolto dell’aria. Troppo caldo, umido. Bologna d’estate.
E quindi lui camminava con una camicia rosa Benetton irriguardosa per se stesso. Schernito dagli eventi. Intento a demolire la teoria dell’annientamento che vedeva logorare i pochi punti fermi che avesse. Teoria che peraltro aveva sempre condiviso. Fino a quando la barricata l’aveva passata aprendo la porta che ora pareva irrimediabilmente chiusa. Ed in tasca si ritrovava 3 buoni pasto, 5 euro e 70 ed un cellulare che non faceva nemmeno le foto. Era il 2007 e tutti i cellulari facevano le foto. Comeccazzo era successo che non avesse un cellulare che immortalasse gli immortali momenti degli intramontabili 27 anni? E poi quali momenti immortali?
E lei sempre di fianco, col dito tra le costole sudate e molli. Colpa del calcio. Più latte e meno cacao. Come nella pubblicità.
Via delle Lame angolo via Riva Reno. Semaforo verde. Passavano loro. Nessun’altro per come sa essere fantasma Bologna. Irreale e catatonica.
Via Marconi, poi piazza Malpighi, poi piazza San Francesco. Una plausibile destinazione per un po’. Che poi l’unica destinazione era salutarsi. In un odore di mattoni a vista. Un cordiale addio con tanto di recriminazioni pressate in uno strato generico di colpa. Sorrisi, sorrisi, sorrisi. E sicuramente qualche birra per suggellare il momento. Veloce però che quella sera alla televisione davano un bel film. Che poi ora non mi ricordo. Ma allora doveva essere molto importante.
Peccato per il black out.