martedì 28 giugno 2011

Caldo

È caldo. Quando c’è caldo ho poco altro da dire, sento la sedia appiccicarmisi alla schiena e conto i minuti cercando di prendere sonno. E cerco di ricordare quei momenti in cui il caldo coincideva con imprevedibili eventi che sapevano tanto di maturità. Era un sapore che so di conoscere, che probabilmente riconoscerei ma proprio non riesco a definire. Come l’odore della pipa che è ovvio quando lo senti ma sennò proprio non ci pensi. O forse il paragone non regge. O forse quello regge ed è il resto ad essere precario. Che è la parola del millennio, il leitmotiv dell’involuzione industriale. Ma non perdiamoci in baggianate. Pensiamo a quello che volevamo pensare. Raccontiamo una storia che ci sentivamo di dover condividere. Per trasmettere qualcosa, fosse anche solo questo dannato caldo che non mi fa prendere sonno. E questo conto alla rovescia con cifre rosse digitali verso la sveglia di domani mattina. E la camicia da stirare ed un sorriso da stendere. Buonumore ricercato anche nelle frequentazioni radiofoniche, barzellette e caffè corretto. Tutto questo mi fa sentire vecchio. Ma non ancora pronto alla pensione, purtroppo. Ancora troppo legato a qualche ricordo che pur mi spinge a buttare giù due righe, sottolineare. Parlare di una lui o di una lei solo per mettere dei paletti al passaggio qui ed ora. Quasi pisciassi contro i muri e le gomme delle macchine parcheggiate. Fischiettando la marsigliese. Con quell’aria rivoluzionaria che c’è bisogno ogni tanto. Ce n’è bisogno come dell’aria. Condizionata.

martedì 21 giugno 2011

Una finestra aperta a tarda notte

Cosa farei adesso?
Al caldo umido di questa notte, o mattina dato che non si capisce più bene se stia iniziando qualcosa o terminando qualcos'altro, solo, ascolto la circolare ritmare questa mia inutile attesa. Questo maledetto Godot che è arrivato in anticipo e non m'ha trovato ma m'ha lasciato scritto "stronzo" con due dita di grasso sulle piastrelle della cucina: lo strozzerei. O quel dannato d'un Drogo che ero convintissimo impiegato a strafarsi d'oppio presidiando il nostro avamposto quando invece l'ho trovato in macchina con un transessuale volgare, vecchio e malato sui viali a pomiciare come un sedicenne: l'avrei arso vivo. Nel frattempo io mi consumo. Come la sigaretta che ormai mi scotta le dita ma non voglio mollare perchè è l'unica cosa che mi fa sentire vivo adesso. O almeno mi da la sensazione dell'esistenza, mi fa provare l'emozione di esistere per mezzo del dolore. Adesso come adesso mi accenderei una bella canna. Anzi, come dice mio babbo: un cannone. "Cannone" è un termine talmente comico e antico, come "rèclame" certo, ma che rende meglio l'idea della mia voglia che ho adesso. Voglia che aumenta e, come poliuretano s'espandende nella mia testa, nelle mie vene, nella mia pelle, nei miei occhi da gatto abituati all'oscurità e mi fa sentire gonfio come l'omino Michelin. Ma senza felicità e candore. Solo gonfiore interiore. Mi rollerei un super cannone con una bracia da un milione di kilojoule, cristo santo. Sì, voglio rollarmi una canna talmente bestia da riuscire a farci bollire una pentola d'acqua con la sola brace. Sono in vena di Guinness ma per una volta non quella scura. La digestione lenta mi mette sonnolenza dopo i pasti fin da quando avevo 5 anni o forse 3, non ricordo. Da quando imploravo la maestra dell'asilo di farmi dormire un pò dopo la pappa e quella stronza invece, e dire che si chiamava Grazia, sì, grazia un cazzo, niente, niet. Sempre a giocare, sempre costretto al divertimento coatto. E' tutta colpa sua se adesso non mi piace giocare. Se nella mia adolescenza ho sempre odiato giocare a qualsiasi cosa e con chiunque. Adesso non gioco a tennis nè a dungeons and dragon. Odio la Guinness dopo i pasti perchè mi ammazza la giornata. Odio il gioco del calcio e del Superenalotto. Tanto vincono sempre gli altri. Come a scuola, quella ragazza che filava tutti meno che me e Venditti. E allora fanculo a tutti, ragazzi, io me ne vado. Ma dove? Dove posso andare? E' una vita che fuggo da qualcosa che non so cosa sia. Sono anni che fuggo da quello che ho dentro, che fuggo da me, dalla mia condizione e dalla mia esistenza. Prima città, poi lavoro, poi amici, poi colore, poi significato ed eccomi sempre uguale a me stesso. Sempre condannato ad essere me stesso sia dentro che fuori, ovunque.
Intanto i freni esausti della circolare cigolano, le sospensioni si schiacciano implorando pietà e le porte pneumatiche troppo anziane per lavorare a quest'ora sbuffano un "pff" talmente forte che mi rompe i coglioni e i timpani. Vorrei un pò di tranquillità, cazzo. Chiedo troppo? Pace.
Invece niente canne, cannette o cannoni per strodirmi quel tanto che basta. Sono solo reminescenze adolescenziali ormai. Rituali del tempo che fu, relegati al compito ingrato della Polaroid. Quindi ingollerò compulsivamente in piena liceità la mia confezione di birre in saldo e fresche perchè miracolosamente il frigo ha ripreso a ronzare e far il suo dovere ieri mattina sul presto. Seguivo come sempre la mia linea d'ombra che, come le linee luminose nei codrridoi degli aerei, a un metro dal pavimento, mi guida fedelmente nel tragitto che va dal mio lato del letto fino al cesso quando l'inconfutabile e inconfondibile ronzio è iniziato. Come San Tommaso ho dovuto sincerarmi che quello che le mie orecchie sentivano fosse realmente la resurrezione del mio Indesit. E così era. Ho aperto l'anta e come per magia, luce fu. Dalla gioia mi sono scolato le solite birrette una dopo l'altra con la dovizia di sempre attento a non lasciarne un solo goccio a seccare. Poi con grande naturalezza mi devo essere addormentato sulla sedia intrecciata della cucina coccolando il frigo come fosse un cucciolo di leone che fa le fusa. Poi mi sono svegliato con le luci del mattino presto e mi sono rilanciato nella quotidianità fatta di petrolio raffinato e combusto, patatine fritte in olio esausto, fondotinta da viso, cipria da naso e lampadine a incandescenza. Macchine rombanti sui viali e pedoni in ritardo sui marciapiedi. Gente esce dalla chiesa, entra a scuola o si interra per prendere la metropolitana e sbucare dall'altra parte della città dove magari piove. Io no, semplicemente stordito vago come uno zombie attento a non farmi pestare i piedi, con un automatismo incredibile dritto al mio lavoro con la felicità irrazionale di un bambino alla scoperta di questo favoloso mondo sulle labbra.
Adesso il frigo continua a ronzare ma la felicità è scemata, si è annullata e ha lasciato spazio a questo senso di nausea da avvelenamento. La brace della sigaretta si è ormai spenta tra le mie dita lanciandomi un fremito lungo la schiena e imperlandomi la fronte di fresco sollievo. I rimpianti sono le cose peggiori che un uomo possa avere, forse sono persino peggiori delle malattie veneree e delle assicurazioni sulla vita perchè con i rimpianti ci si vive fino a morire.
Sapevo che Thomas sarebbe annegato a furia di bere ma non gli ho mai tolto il bicchiere dalle mani. Era troppo bello il suo nome per farlo e magnifiche le sue parole che alternava al whisky. E sapevo pure che quel maledetto irriverente d'un Francis Bacon si provava di nascosto la biancheria di sua madre ma non gli ho mai detto di smettere di farlo prima che lo beccassero e allora per lui sarebbero stati cazzi amari. Ma forse, ammonendolo, non sarebbe mai arrivato ad osare tanto nell'arte.
A certe persone non interessa niente dei nostri cari e benevoli consigli. Anzi, ad ogni consiglio, potessero, estremizzerebbero ancor più i loro vizi. Lo so, quando parlo a nome dell'umanità sbaglio prendendo a unico campione me stesso ma a sbagliare sono un campione.
Potrei parlarvi di fiori che appassiscono dopo dieci giorni di sciopero dell'innaffiamento, di storpi al semaforo che riescono quasi sempre a fregare cinquanta centesimi ai cardiopatici, di animali del circo maltrattati e malpagati, di contaminazioni radioattive dei pezzi di ricambio della Toyota, di paparazzi travestiti da finti preti che confessano i Vip per fare degli scoop o di veri preti in borghese che vanno a mignotte per farsi scopate perverse, ma ho detto che non lo faccio. Non è mia intenzione fare alcuna di queste meschinerie. Non parlo male degli altri in loro assenza; al massimo mi limito a riferire agli quello che altri ancora pensano di loro. Ma niente di più. E non ora. Poi tra non molto comincerà a piovere e non smetterà per giorni. Ne sono più che certo. E' sempre così. Se avessi cinquanta euro da buttar via scommetterei che piove fino a sabato. Ma cosa importa delle mie scommesse, tanto domani, ancora una volta, dovrò ricordarmi di non rispondere al citofono e al telefono di casa. So che se dovesse squillare qualcosa di diverso dalla sveglia sarebbe sicuramente una minaccia.
Sapevo anche che quel matto furibondo di Basquiat continuando a giocare con gli aghi prima o poi ci sarebbe rimasto secco come un topo stricninicizzato ma non per questo gli ho mai osato negare una sola volta la mia cintura per gonfiarsi la vena di vivida morte. Perchè quella era la sua vita e togliendogliela forse sarebbe solo finito prima, sgonfio come un Super Tele dimenticato al sole. Così come sapevo che la bella fresca Francesca era morbosamente attratta dalla sperimentazione e che prima o poi sarebbe finita giù da quella finestra newyorkese allo scoccare dei ventidue anni. Ma non mi sono mai permesso di consigliarle le inferiate. Mai l'avrei fatto sebbene riconosco che sia stato un vero peccato che il suo corpo frizzante e la sua mente vivace si siano spiaccicati come sterili uova su quel marciapiede. Sarebbe stato come chiuderla in galera e ucciderla di claustrofobica pazzia.
Intanto continuo ad annodare i miei pensieri alla maniera dei persiani aspettando che cominci a piovere per poi passare a sperare che smetta. Attendere che faccia giorno bevendo birra e poi pregare qualcuno che il cielo si tinga alla svelta di buio. Il tempo scorre monotono riproponendo sempre la solita alternativa e io mi adeguo a lui alternando sempre il fare al non fare. Il problema è che quando faccio vorrei non fare ma quando non faccio mi sento morire.

giovedì 2 giugno 2011

Ansia da prestazioni

È inevitabile, quando mi sforzo di scrivere di qualcosa non ci riesco. Non so mi dico oggi racconto di una giornata al mare dove c’è quella sensazione di inadeguatezza data da un persistente odore di candeggina che mi ripropone il telo su cui mi sciolgo al sole e tutto quello che mi viene è una persona una persona incastrata in auto a cercare di infilarsi il costume. Una scena che mi fa necessariamente pensare alle cabine del telefono per Superman, e divago. E vado sempre a finire dove non mi immagino e dove non serve. Un po’ come quando mi costringo a risultare interessante ed intavolo un discorso. Di quelli fiume i cui affluenti sono vino rosso e birra chiara. Di quelli che nelle intenzioni dovrebbero essere definitivi, imprescindibili. E solo che mi perdo e Stefania interviene. Obietta. Ed io che speravo non ascoltasse.
“ok, starò pure generalizzando” ammetto.
E recupero da bere.
E penso a come stupirla.
E intanto lei aspetta che io prosegua. Proseguire cosa? Che tutto quello che mi viene in mente è il suo top. Ed un video di Madonna. Roba anni ‘80. Figuriamoci se adesso riesco a riprendere il filo del discorso. Certo però non posso darle ragione, anche se l’avesse. È una questione di uomo-cacciatore-raccoglitore. Roba che ho nel DNA. Insomma non posso averci torto, anche se avessi torto marcio.
Quindi sorrido e le dico che secondo me non ha capito niente. E brindo alla mia vittoria concettuale.
Lei non si scompone, nemmeno per mandarmi a spendere. Appoggia le mani sul tavolo, quelle unghie laccate che riflettono la poca luce del locale fatiscente per coerenza politica. Gli altri con noi intanto sembrano già essersi disinteressati alla discussione. Guardano qualcosa su un cellulare che si collega ad internet. E ridono tutti che vorrei riderci anche io.
Stefania invece ha ripreso a parlare.
So che dovrei raccontare quello che ci siamo detti ma sono più interessato ad inventarmi quello che succede al tavolo accanto dove uno che c’avrà la mia età si è addormentato e gli amici lo stanno truccando da donna.
Ah, poi c’è quella storia del cavallo che entra in un bar. Ma non è questo il momento di raccontarla anche se certamente il posto è quello giusto: un bar appunto.