martedì 26 dicembre 2006

feci

non capisco se sono felice. ho raggiunto i traguardi che a venticinqueanni mi ero posta. buon lavoro, indipendenza economica, marito e vita tranquilla. un paio di viaggi all'estero ogni anno e qualche week end al mare ed in montagna. ho amiche che mi invidiano, i nostri toni sono spesso passati dall'amichevole complicità alla gretta competizione fatta di critiche sputate sottili tra un sorso di prosecco ed un oliva. non ho più amiche, c'è solo carla che prima di essere amica è una collega. è l'unica con cui mi apro un po'. poi sì, marco. oggi non devo pensarci. oggi è per la famiglia: alberto e rufus. quel cane mi sta facendo impazzire. ha portato stupide abitudini a riempire l'imbarazzante silenzio tra me e alberto. lui ne sembra contento, un nuovo oggetto di attenzioni giacché io non lo sono più. probabilmente ha un'amante. io ho marco e lui ha una moglie. la vita era più semplice quando avevo dei sogni e non delle necessità. camminiamo di ritorno dall'abituale mattinata in centro con colazione da gigi, un paio di negozi in via indipendenza e passeggiata in piazza. "sara, l'inverno sta arrivando" dicono i miei vestiti troppo leggeri ed il cappuccio alzato del solito mendicante all'angolo. passeggio più spedita, alberto mi segue poi si ferma nel piccolo giardino di piazza s. francesco. rufus caca e alberto, ovviamente, guardando altrove non raccoglie.

mercoledì 20 dicembre 2006

via riva reno

la sveglia mi allerta inattesa. ieri sera ho bevuto forte, ho dimenticato di disattivarla. nei cinque minuti di limbo mi agito in apocalittiche immagini. la mia magra figura storpiata dall'apprensione. piccoli particolari sintomi di catastrofe: un ritardo al lavoro, un piede sbagliato, un semaforo giallo, un caffè troppo caldo. la fine, sintomo di inevitabile insuccesso, mi trova solerte come il concierge del diana. il suono noioso continua forte, si associa un rumore lontano in avvicinamento. ambulanza o polizia. o entrambi. memorie lontane richiamano nozioni male assimilate, come per la mia intolleranza al glutine, sull'effetto doppler. il ritmo si tronca poco lontano, resta solo la nenia a forzare i miei occhi pesanti in un giorno di festa. ai piedi del letto finisco la mia agonia auricolare ed appoggio una fronte sudata ai palmi. presagio di una agonia cerebrale di flash al vino rosso e frasi sconvenienti, ingigantite dal mal di testa. ho imparato a conviverci: non saranno che un lontano rumore di fondo per la mia giornata iniziata troppo presto. muovo i primi passi verso il bagno, compio azioni routinarie che mi vedono apparire meglio al pubblico noto della mia immagine riflessa. esco per un po' di aria viziata dai fumosi autobus ecologici. una veloce occhiata la negozio di musica sotto casa e poi fluido nella arteria che porta al centro. vedo un groviglio di auto per una deviazione forzata. polizia a controllare i disagi. il mio disagio mi porta ad una via secondaria. via riva reno.

martedì 19 dicembre 2006

una tazza, ...

Una tazza vuota con tracce secche di un capuccino, un dizionario italiano-inglese ed inglese-italiano con lessico economico/commerciale, un libro sul pensiero sistemico, uno sui sistemi operativi, un fermacarte, carte sparse, una lampada alogena cromata, alcuni manuali, una bottiglietta di acqua naturale, un telefono, un portapenne, un posacenere con alcuni elastici ed il mio portafoglio riempiono la mia scrivania color castagno chiaro.
Dalla finestra si intravede un cielo opaco e freddo; filtrano rumori di automobili, motorini, bus, tram.
Mancano 36 minuti al pranzo.
Tra 6 giorni è Natale.

lunedì 18 dicembre 2006

domenica

angolo tra via del pratello e via ugo bassi. attraversamento pedonale. ascolto auto misto musica bassa da morenti cuffie. le marmitte truccate dei motorini ingombrano pesantemente il mio padiglione auricolare. premo la gomma più dentro me ne ricavo un orribile "crrr". presagio di una vanagloriosa fine monca del brano. mi si affiancano persone a gruppi di due o tre ed il loro vociare si aggiunge al rumore complessivo. ripasso i graffiti sui muri e alzo lo sguardo. il cielo cemento mi rassicura. il soffitto grigio aiuta l'introspezione. l'individualismo fa da padrone e passi sicuri superano la mia attesa senza curarsi troppo. a volte è bello venire ignorati, sentire che poi in fondo è possibile scomparire dal mondo. dovrei chiarire le mie questioni lasciando questo procrastinare trascinato da anni che mi ha poi portato qui. mi soffermo a pensare a lucia, alla nostra pseudo-relazione-simil-seria di 3 anni fa. i gloriosi anni sui libri che mi hanno lasciato qualche gloriosa parola altisonante ad utilizzare per stupire l'audience. un effetto anche piacevole ma ormai logoro come il fondo dei miei jeans. cerco il perché della mia giornata in qualche pensiero lasciato nel cappuccio alzato contro il sottile vento freddo del tardo mattino. trovo poco. leggere un libro, dormire e mangiare. l'icona verde si illumina, la mia rumorosa compagnia mi lascia e il suono dei motori si riduce. riscopro la colonna sonora. passa una coppia accompagnata da un boxer. facce note, il cane detto rufus e il destino in piazza s. francesco. altri seguono nella stessa direzione incrementando lo scalpiccio. un pretenzioso fiume di persone per l'argine stretto dei portici bolognesi. dalle pieghe marziali dei vestiti mi accorgo essere domenica. nel mio cappello ancora pochi centesimi. il rumore del traffico ha ripreso, la mia musica si è spenta definitivamente.

venerdì 15 dicembre 2006

la pagina bianca

La pagina bianca incute sempre un certo timore.
Una volta credevo fosse il colore a renderla tale; oggi so che non è così.

Fino a pochi giorni fa ero un venditore porta a porta di prodotti per la pulizia e l’igiene della casa. Un imbonitore di casalinghe e pensionati. Presentavo col sorriso sulle labbra detergenti per ogni tipo di pavimento (dalla ceramica al legno), vetrate e superfici plastiche da cucina. Avevo un catalogo a colori, un listino prezzi pieni a cui applicare un vertiginoso sconto ed una sacca contenente alcuni campioncini gratuiti.
La società per la quale lavoravo mi forniva settimanalmente un elenco telefonico da cui, con immensa pazienza spuntavo gli innumerevoli rifiuti. Contattavo telefonicamente i clienti la mattina e fissavo un appuntamento per il pomeriggio o per i giorni a seguire con frasi del tipo “signora, quando le fa più comodo!”. Se al fatto che, certamente, quello non era un lavoro facile, aggiungiamo anche che io sono una clamorosa frana nelle relazioni interpersonali, il risultato è facile da immaginare: in tre mesi di quotidiano lavoro, sono riuscito a piazzare si e no una decina di ordini, chiaramente a parenti ed affini, finiti i quali, la situazione da tragica divenne insostenibile. Il mio stipendio era correlato alle vendite; dal prezzo di queste veniva calcolata la percentuale che mi spettava.


Da pochi giorni a questa parte non sono più venditore.

Tutto è successo abbastanza improvvisamente, nell’arco di pochi e brevi minuti.
Avevo fissato un appuntamento per le tre del pomeriggio, in una via non molto lontano dal centro. In tenuta da lavoro, abito scuro, camicia tinta unita e cravatta, sono arrivato all’appuntamento con un imperdonabile quarto d’ora di anticipo sull’orario accordato; avevo valutato male la distanza da coprire, in realtà pochi minuti di strada. La villetta che mi trovai di fronte, diversamente da quanto mi ero immaginato, era una graziosa bifamiliare sistemata sul lato di un quadrato di prato tenuto all’inglese. Le pareti esterne della casa, palesemente tinteggiate di recente, erano di un giallo caldo, quasi fiabesco se tenuto conto del cielo terso azzurro pastello. La staccionata perimetrale del giardino, per restare in tema col prato, consisteva in due semplici file di assi di legno orizzontali, laccate di bianco e sorrette da paletti verticali; uno ogni tre quattro metri. Sul fianco della casa si scorgeva il vialetto ciottolato che conduceva al vicino garage. Sembrava di essere in una verdeggiante campagna anglosassone piuttosto che nella nostra grigia periferia cittadina. Invitato da un grazioso cancellino semiaperto, in stile con la staccionata, decisi di incamminarmi verso la villetta. La distanza da coprire per giungere alla soglia della porta d’ingresso bianca non superava i trenta metri (in realtà io sarei un geometra anche se non ho mai professato. Senza modestia, devo riconoscere che in quanto a stime sono abbastanza valido). Al centro della porte troneggiava la classica testa di leone in ottone che stringe tra le fameliche fauci un anello, e, appena al di sopra, una volta in vetro colorato. Giunto a metà stada, tra il cancellino e la porta, ho deciso, per scrupolo, di controllare l’ora: mancavano, infatti, ancora dieci minuti! Arrivato ormai in prossimità, memore degli insegnamenti ricevuti durante il corso di formazione per rappresentanti: “essere puntuali, assolutamente mai in anticipo!!!”, optai per temporeggiare facendo il giro intorno alla casa. Senza volerlo, con lo sguardo mi sono messo alla ricerca di qualche particolare della casa che potesse, in un certo modo, stonare, togliendo quella patina di perfezione che la rendeva quasi irreale. Per puro caso, voltato l’angolo della villetta, la mia vista venne catturata da un relativamente piccolo casotto in legno; uno di quelli solitamente adibiti a ricovero degli attrezzi per il giardinaggio. Quelle assi di legno scuro, nella parte verso il terreno anche un pò scrostate, con qualche traccia di muschio sul tetto spiovente, era proprio quello che stavo cercando! Era come la presenza di un neo che, nello splendore generale di un viso perfetto, lo rende reale. Ero ipnotizzato, come un diabetico di fronte alla vetrina di una pasticceria o come un bambino ad un passaggio a livello mentre passa il treno. Guidato dall’istinto, mi avvicinai alla casetta ancora rapito da uno strano automatismo. Se quello fosse stato il set di un film, mentre percorrevo sovrappensiero la stradina, sarei senz’altro incappato in un rastrello incautamente abbandonato sul prato, con il risultato di trovarmi il naso spappolato.
Purtroppo, alle volte, la realtà è molto differente e sicuramente più crudele della finzione cinematografica.
A pochi metri dalla casetta, ancora immerso in una sorta di autismo, venni prepotentemente richiamato alla realtà dal ringhiare di un cane. Con la stessa sensazione che si prova quando ci si sveglia di soprassalto da un sogno, impiegai qualche secondo per contestualizzare lo spazio/tempo in cui mi trovavo. Riacquistata piena coscienza e padronanza del mio corpo, mi voltai lentamente, sempre accompagnato in sottofondo dal poco rassicurante digrignare di denti del cane. Non potevo immaginare cosa si celava dietro di me. Quello che ricordo ancora nitidamente, sono due occhi color della bile persi in un muso massiccio ricoperto di pelo corto e nero con, appena al di sotto, due serie di denti bianchi come la carta ben visibili e serrati tra loro. L’istinto, senza bisogno di realizzare con precisione quello che stava accadendo, avendomi cacciato in quella situazione, cercò di sdebitarsi salvandomi la vita. In un lampo mi ritrovai di fronte alla porta in legno scuro della casetta degli attrezzi. Non ricordo bene se sia stata la fortuna a farmi trovare la porta aperta oppure la mia spallata ad aprirla, fatto sta che mi ci infilai. Appena messo piede dentro, con la velocità che solo la paura può dare, richiusi la porta alle mie spalle sentendomi finalmente salvo. Uno strillo acuto di bambina prima mi causò un serio collasso cardiaco ed in seguito una lesione al timpano sinistro. Girate le spalle alla porta vidi, seduta su una sedia in ferro brunito da giardino, una bambina sui tredici anni, vestita con una tuta rosa ed una bambola di pezza in mano. Con le spalle ben salde alla porta per evitare alla belva di entrare, mi trovai a gesticolare come un predicatore benedicente in direzione della bambina, nel vano tentativo di interrompere quell’insopportabile lamento. La luce, nella casetta, filtrava appena dalla finestrella al centro della porta. La scena vista dalla bambina, ammetto che possa essere stata ancora peggiore di quella vissuta da me: un uomo vestito di nero con un borsone sulle spalle che irrompe, sudato avvolto in un alone di luce fioca, nella casetta. La bambina terrorizzata non solo non smise di gridare ma, al contrario, aumentò ulteriormente i decibel emessi da quella, solo all’apparenza, innocua boccuccia. Trovatomi in una situazione inaspettata, con troppe variabili da gestire in un solo momento, finii con l’agitarmi ulteriormente innescando un circolo vizioso in cui: più mi agitavo più la bambina strillava e dunque il cane abbaiava. Non riuscivo più ad interrompere questa infernale catena. Il tempo, come è ben noto, è uno dei peggiori nemici dell’uomo ed anche in quella circostanza si divertì lasciarmi in uno spazio temporale pressochè immobile. Impossibile quantificare quanto effettivamente sia durata quella assurda situazione; quello che posso affermare con certezza è che in termini di vita mi è costata assai cara. Giusto il tempo di rendermi conto che il pericolo era ormai scampato quando, quel che restava dei miei timpani percepirono, tra uno strillo ed un latrato, lo sbattere del legno della porta sullo stipite della casa. Accolsi quel rumore come l’arrivo del redentore venuto a liberarmi dalla situazione in cui ero, involontariamente incappato. Quel “clack!” sordo, rappresentò il rumore della ganascia che spezza l’anello della catena. Attesi in grazia l’avvicnarsi di quei passi come si aspetta l’amaro dopo una luculliana cena tra amici. Tirando un sospiro di sollievo, distinsi, con estrema fatica tra tutto quel frastuono, la voce di un uomo imperiosa e sempre più vicina. Non ebbi nemmeno il tempo di avvertire l’uomo, ancora fuori dalla porta della casetta, che noi, grazie al cielo, là dentro stavamo bene, quando... “boom!”, avvertii un rumore intenso e simile alla legna secca spaccata, seguito da un più fisico colpo ricevuto alle spalle. Quella spinta, data con una forza ed una rabbia disumana, mi scaraventò a due metri almeno di distanza, giusto addosso alla bambina che mi stava di fronte. Una luce celestiale entrò dalla porta fasciando la figura di un uomo mastodontico che, a passi veloci si dirigeva verso di me, brandendo nella mano destra, come fosse una scimitarra, un manico di badile in legno.
Proprio quando si allevia la tensione dopo un pericolo scampato, diveniamo vulnerabili e fragili come un vaso di cristallo in un asilo.
Il frastuono, lo stordimento della botta ricevuta e la luce celestiale e mistica negli occhi, creò, tra i miei pensieri ovattati, un vuoto anestetizzante. Alcune parole che riuscii a distinguere, e delle quali conservo ancora il ricordo nitido, suonavano pressapoco così “.... brutto figlio di puttana di un pederasta che non sei altro...”, e non contento “... ti ammazzo bastardo...” e finalmente la giusta soddisfazione “... mia figlia ha solo tredici anni...” .Non un anno in più od in meno di quelli da me stimati! Subito, con enorme gioia, mi rimbombò per la testa “Allora la distanza tra il cancelletto e la villetta è senz’altro di trenta metri, dovevi fare il geometra, altro che rappresentante!”. Nuovamente l’irrazionalità dell’istinto si impossessò del mio corpo. In un baleno, dopo aver solo udito i colpi sferratimi dal padre della bambina con il manico senza avvertirne alcun dolore fisico, mi ritrovai nel classico, terribile cul de sac. Voltando le mie invulnerabili spalle all’uomo, quasi come in segno di sfida, mi trovai di fronte alla faccia la parete in legno scuro della casetta, senza trovare altra via d’uscita che non contemplasse la morte. Il marrone scuro delle assi di legno e l’odore di terra secca mista a muffa mi rimane ancora oggi impresso nella memoria.

Il bianco della pagina, ora, non mi suscita più nessun timore.

giovedì 14 dicembre 2006

pausa sigaretta

mi sentivo quasi seriamente coinvolto, come un terzino durante una partita importante. anche quel giorno, alle dieci meno cinque, ci incontrammo nella terrazza fumatori. le facce le avevamo tutte presenti: giorgio se ne sarebbe andato in due minuti ed in sette sarebbero arrivati alice, marco e francesca del reparto vendite. giorgio si limitò ad accennare un saluto col movimento del capo per poi reimmergersi nello squallido orizzonte appoggiato al balcone. noi ci si accese la solita sigaretta e lui spense la sua. ci facevamo compagnia, in quei minuti, con storie esagerate su amici e, ipotetici e raramente realizzati, viaggi. un giorno mi disse: "allora quando si parte?". ed io pensai seriamente si potesse partire assieme. si uscì anche qualche volta e poi si tornò ai nostri posti delle sicure quattro chiacchiere in dosi di cinque minuti al giorno. avevamo, in fondo, le nostre vite che in quel fumo si dimenticavano garantendoci momenti svincolati dal passato, da quello che eravamo in realtà e dalla nostra posizione nel mondo. e il suo profumo che si mescolava all'odore di pall mall light e quello sfondo impietosamente artificiale di palazzi e stracci di cielo. poi un giorno lei lasciò la got per un altro, meglio remunerato, posto da ricercatrice. io mi limitai a smettere di fumare. chiara ne fu felice.

mercoledì 13 dicembre 2006

relativamente presto

un odore strano, fresco e addormentato accompagna passi incerti oltre la solida porta di legno che, cigolando, si richiude pesantemente come un eco di altri tempi. l'orizzonte si apre, il cielo mostra cinesi orizzonti rosso e viola. assurda premessa ad un cubico grigio. carla prepara il caffè con una abbondante felpa verde. aspetta appoggiata al tavolo. qualche luce si accende alle finestre, qualche impietoso televisore ripete instancabile notizie ed oroscopi. quattro ragazzi si avvicinano a scuola. in questi momenti le strade sono abitate da piccole utilitarie e fumosi furgoni portano calcarei carpentieri ad invernali cantieri. qualche autobus passa carico di occhi velati da un sonno non ancora dimenticato e un vociare diffuso. alcuni siedono con una canzone già sentita nelle orecchie e pensano a luoghi lontani abitati quasi in altre vite. universitari ed immigrati in variopinte casacche elargiscono quotidiani in prossimità di qualche attraversamento pedonale. rumori del traffico. ci si ferma per la colazione. marco si nasconde dietro la gazzetta dello sport, sollevato dalla responsabilità dell'interrogazione in chimica con una firma falsificata nello zaino. qualche attacchino appende ai muri una nuova necessità. una sveglia ripete un nota melodia. la sensazione di solitudine da un cuscino freddo. qualcuno sbadiglia. qualcuno continua a dormire.

martedì 12 dicembre 2006

vacanza

oggi sono in vacanza. ho deciso di utilizzare l'ultimo giorno di ferie prima dell'endemico annullamento di qualsivoglia beneficio maturato durante l'anno lavorativo. non mi ha perciò svegliato lo strozzato suono di una, anacronisticamente monofonica, sveglia incorporata nel cellulare, ma l'abitudine. 2 minuti prima delle sette. mi sono rigirato nel letto come sempre, però più a lungo. ho ritrovato il sonno una ventina di minuti dopo. ma, disinteressato, alle otto ero forzatamente sveglio come uno squalo. seduto sul letto mi frego la faccia cercando di imprimermi il buon umore dovuto ai giorni di vacanza. poco convinto mi dirigo, non troppo dopo, verso la doccia.
cammino sugli stessi passi di ogni giorno, se avessi il pavimento di moquette presenterebbe strati più sottili con la forma delle piante dei miei piedi, qualche macchia di vino rosso e qualche suola di eventuali amici passati per passate cene.
senza pensare mi trovo sull'uscio diretto all'edicola per il quotidiano. scambio qualche battuta con orlando come ogni mattina col rosso al bar, lascio i miei dieci centesimi di mancia per il caffè e torno a casa pensoso per il palesarsi della mia incapacità all'ottimizzazione del tempo libero.
mi siedo alla scrivania analizzando notizie che variano per nomi e località. leggo fingendomi interessato agli occhi di un eventuale osservatore. notizie che dovrebbero essere tragiche mi passano semplicemente come le nozioni mai assimilate di algebra, le pubblicità suscitano in me qualche interesse. una sorta di necessità. sfoglio tutte le pagine e ripiego poi i fogli alla perfezione. seguendo i tratti originali. undici e cinquanta.
passo il resto della giornata a letto davanti alla televisione. domani lavoro.

venerdì 8 dicembre 2006

un senso di vuoto nella tasca destra

il primo allarme venne a pochi passi dall'autobus quando, nei pochi secondi di silenzio che separavano una canzone dall'altra, non udì il solito tintinnare di chiavi. ripassando assopite lezioni di fisica individuò due possibili cause dell'improvviso e sconvolgente silenzio: l'assenza di monete a fare da battente o l'assenza delle chiavi. non si scompose, continuò sui suoi passi rallentando poi all'avvicinarsi di una vetrina. non voleva dare nell'occhio. dissimulò profonda attenzione in un particolare ed insignificante oggetto di cancelleria. un semplice porta penne. il corrispettivo, sulla sua scrivania, era un vasetto vuoto di marmellata con infilate bic e matite mangiate sul finale. quell'inusuale contenitore aveva una storia tutta sua. non questa. marco con lo sguardo fisso tornava al giorno precedente. l'ultima birra a 4 euro e 30 gli aveva lasciato una buona quantità di centesimi che dovevano certamente albergare la sua tasca destra. ripercorse quindi al contrario l'ancor breve mattino. le chiavi erano al solito posto. ora avrebbero dovuto essere con lui. decise di appurare col tatto ciò che l'udito aveva anticipato. abbassò la mano. le chiavi non c'erano.
"merda", si scompose facendosi capro espiatorio delle insofferenze mattutine dei lavoratori che ora si affrettavano con passo incollerito scuotendo la testa. spense la musica e tolse gli auricolari cosicché il vento freddo gli rinfrescasse le idee strodite ancora da un malinconico indie rock. in casa c'era ancora giorgio, affrettandosi sarebbe riuscito a recuperare le chiavi. dopo però era certo di non uscire fino al tardo pomeriggio.
"e addio ai miei buoni propositi" aggiunse un labile coscienza. ne prese atto e inviò al coinquilino un messaggio dicendogli di lasciare nascoste fuori di casa le chiavi. la risposta arrivò a breve assieme al caffè in un piccolo bar. le chiavi erano sotto lo zerbino. era scontato, chiunque le avrebbe trovate. sarebbe stato meglio rincasare. aggettivandosi di stupidità si affidò alla benevoleza del destino.
una brutto presagio tuttavia lo accompagnò per tutta la giornata nella infruttuosa ricerca di un lavoro. alle 15 e trentasei la situazione si era fatta insopportabile. prese il 27 diretto fuori porta. scese affrettando ogni passo ed arrivando col fiatone ad affrontare le cinque rampe di scale. le affrontò impavido di gran lena. passato l'ultimo ostacolo si fiondò sul zerbino come un giocatore di baseball sul diamante. fece scivolare una mano incerta sotto il fondo di gomma impermeabile e raccolse le sue chiavi.

mercoledì 6 dicembre 2006

la chiamata

quelle pagine stampate ormai da un mese ricordavano l'urgenza dell'aereo. non avrebbe aspettato. erano chiaramente impressi dall'imprecisa stampante i tempi e le procedure necessarie all'imbarco. entro 40 minuti dalla partenza il check-in allo sportello, il passaporto valido, la mezz'ora stimata per passare i controlli di routine e i cinque minuti per raggiungere il terminal. volare lo innervosiva come le pause pubblicitarie prima del finale scontato di die hard. si domandava spesso se ne valesse la pena. tutti quei chilometri in così poco tempo, privato del piacere di paesaggi e di vite incrociate in un viaggio su rotaie. è vero poi che, spesso e volentieri, gli spostamenti in treno lo trovavano rumorosamente assopito in un sedile d'angolo con la musica nelle orecchie ed il portafogli nella tasca davanti dei pantaloni. dormiva, però nei suoi sogni c'erano mulini olandesi e piccoli villaggi montani tra italia e francia sicuramente più poetici del languido squallore intravisto dall'eurostar bologna - milano. controllò l'orologio nel telefono, era ancora in tempo. se lo rigirò tra i palmi domandandosi se fare o meno quella chiamata. una telefonata qualsiasi solo per il gusto di immaginarsi importante agli occhi di qualcuno che rimaneva. compose il numero di lorena. nessuno rispose.

martedì 5 dicembre 2006

durbans

non aveva una di quelle facce particolari che, per bellezza o per bruttezza, rimangono vive nella memoria. era la classica comparsa nello spettacolo della vita. e diciamo che quella vita era la mia nella quale, dopo qualche insignificante comparsata, si ritrovò nel pretenzioso ruolo di antagonista.

la nostra casa non era grande ma il verticale sviluppo permetteva una certa dose di privacy che mi era parsa congeniale. l'appartamento si sviluppava lungo un angusto corridoio sul quale si affacciavano le marroni porte delle nostre stanze e del bagno. la cucina/salotto era il capo del lungo verme e l'uscio il culo. sempre che i vermi ne posseggano uno. essendo la mia stanza a pochi metri dall'ingresso potevo entrare ed uscire passando inosservato nonostante il mio pesante passo ubriaco. all'inizio fu proprio così. era come vivere da solo, durbans lo incontravo di rado e ogni volta si limitava ad accennare un sorriso sguercio con la sua dentatura spostata dieci gradi a sinistra. parlavamo poco e le sue battute creavano un vuoto imbarazzante. al che io tornavo in camera e lui ai fornelli. lo passava cucinando, difatti, il tempo libero rassegnato ad un infimo destino. io me ne dispiacevo ma il più delle volte avevo altro a cui pensare. poi anche il mio futuro non mi precludeva grossi successi. fu per ovviare a questa situazione che mi trovai un lavoro "sicuro" e fu questo a far precipitare le cose.
l'omologazione degli esseri umani al tempo li porta ad una scarsa varietà nelle amicizie. i panettieri si conoscono tra loro, gli impiegati hanno i loro giri, gli studenti altri e così via. durbans era un impiegato ed ora anche io vestivo tali camicie di seconda scelta. i nostri orari avevano una discrepanza di 30 minuti ma, sfortunatamente, un ritardo congenito portava il mio coinquilino ad uscire e a rincasare ai miei stessi tempi. iniziò poi, dopo qualche giorno, anche a prendere l'autobus con me. io non ho mai trovato piacevole tenere conversazioni solo per evitare un silenzio tra conoscenti e di converso ho sempre amato eccessivamente l'ascolto della musica in ogni mio spostamento. provai a farglielo capire ma pareva permeabile come il granito ai miei timidi tentativi. iniziai dunque a sedermi solo o vicino ad altre persone. lui regolarmente si posizionava nelle vicinanze. percepivo il suo odore che ora mi nauseava. col tempo non sopportai più nemmeno la sua faccia, il suo sorriso e il suo ridere forzato alle proprie battute. "sempre diffidare da chi se le fa e se le ride" diceva mio zio. sviluppai una fobia che era più una mania di persecuzione. in 3 settimane decisi che era il caso di cambiare appartamento di nuovo. ritornai a vivere con mia madre. almeno lei aveva i denti dritti e non trovava divertente chiedere ridendo "ed oggi come esci?" in giornate piovose. perchè sì. lui amava la pioggia.

lunedì 4 dicembre 2006

fermacravatta

mio padre ha sempre sostenuto che un uomo si valuta in base al proprio fermacravatta. mio nonno gli aveva insegnato che una persona importante è introdotta dai particolari che porta con nonchalance in giro. primo su tutti l'orologio.

il dopoguerra era finito e il boom economico iniziava a lasciare le ustioni su qualche subordinato e mio nonno tranquillo passeggiava diretto al cinema con la, ancora fascinevole, mia nonna. era una routine: il venerdì al cinema. mio padre lasciato alla zia che viveva vedova nell'appartamento accanto al loro. aveva avuto il tempo di un aborto e di un lutto indotto da semplici pezzi di ferro lanciati impietosi a portare via una vita. scagliati da mano nemica. la consolazione di una foto in piazza maggiore ed un nipote che il venerdì sera poteva chiamare "al mi fangen".
il cinema era affollato come previsto ma la previdenza del nonno volle che l'anticipo calcolato gli permettesse una perfetta angolazione dalla quale osservare il polso del famigerato bond impersonato da sean connery. passarono i minuti, i "brustulli", i dialoghi, i baci e i titoli di coda ed alzandosi gino decise che l'indomani anche lui avrebbe camminato due spanne sopra tutti con quel sorprendente orologio al polso. altro che quel "zavaglio" da taschino. il vecchio si faceva il rolex. e così fu. non il giorno ma l'anno successivo. i tempi a seguire portarono bene alla sua piccola attività che passò a media e poi a grande. al suo polso sempre lo stesso orologio invecchiava assieme alla, non più fascinosa, moglie. ma lui era fedele, ad entrambi. lo avevano seguito fin lì e non li avrebbe abbandonati, mai. fu infatti così che loro lo abbandonarono una bella mattina di settembre in cui non si svegliò. il rolex passò a mio padre e mia nonna al vestito nero. la vita di famiglia non cambiò molto: mio padre già gestiva l'azienda da qualche anno con profitto e mia nonna continuava a perdere tempo tra vino e amiche delle partite a "bistia". il sole splendeva e il mio vecchio faceva la vita del borghesuccio che prova a essere nobile. auto, donne e champagne. e fu questa ricetta, ma con dosi sbagliate, a portarlo in un fosso ad ozzano dell'emilia dove lasciò mano ed alfa duetto. con la mano se ne andò anche l'allegato rolex portafortuna.

da quel giorno mio padre non porta l'orologio, ha tuttavia un costoso fermacravatta.

domenica 3 dicembre 2006

dicembre

Era dicembre e la neve tardava a venire. Il fumo dai comignoli saliva dritto verso il cielo: alta pressione e niente vento. La neve avrebbe aspettato ancora. Le giornate trascorrevano uguali e monotone. Non c'era niente da fare, niente da sperare e niente da vedere. La vita appariva come un puzzle steso su un tavolo, lasciato a metà. La cornice era completa. Tutti e quattro lati uniti creavano una vaga idea del contesto ma niente di più. In alto l'azzurro del cielo, in basso colori scuri non meglio definiti ed ai lati una gradazione di tonalità che spaziavano da un estremo all'altro della tavola cromatica. Il centro era vuoto. Sul tavolo nessun tassello da inserire. Il puzzle era finito ed incompleto. La vita, in quel periodo, appariva proprio come il puzzle.
I vecchi amici erano ormai lontani come i ricordi, i luoghi cambiati ed i sogni infranti. Il tedio era l'unico ingrediente che riempiva quei giorni; nel ricordo di quelli passati e probabilmente nella prospettiva di quelli a venire. Tutto appariva pesante e faticoso, non tanto per la sua fisicità quanto per l'estrema inutilità che quel tutto lasciava trasparire. Le campane della vicina chiesa scuotevano l'animo e scandivano l'ordinato trascorrere del tempo. La cosa più terribile che possa accadere non è il peggiorare di una situazione quanto l'immobilità della stessa. In quei momenti di stallo, in cui non esiste e non si prospetta nessuna evoluzione sul piano spazio/temporale, non si riesce nemmeno a pensare a quando, in un futuro più o meno prossimo, si alzeranno gli occhi dal tavolo e si getterà uno sguardo malinconico fuori dalla finestra. Quando quel momento arriverà, nel cuore una sensazione di vuoto e di fame si spingerà sino a raggiungere la mente dove, un primo pensiero sotto forma di domanda appesantirà gli occhi: "a cosa è servito?"! Il rammarico che ne seguirà generato da un secondo pensiero sarà "perchè non ci ho mai pensato prima?"; la pesantezza agli occhi si sfogherà con lo sgorgare di una lacrima.

Mi infilo gli occhiali, mi alzo scostando la sedia e mi avvicino alla finestra.
Non nevica ancora.

venerdì 1 dicembre 2006

scatola di cartone

e dalla scrivania lo guardava. lui, dentro una camicia rosa ralph lauren. "custom fit" gli aveva comunicato, quasi orgoglioso, il commesso al momento dell'acquisto. non gli aveva prestato grande attenzione rispondendo "va bene, la prendo" ed allungandogli, con gesto comune, la carta di credito. quella camicia lo aveva da subito fatto sentire a proprio agio. era stata in svariate occasioni il suo portafortuna ed ora lo lasciava nudo davanti alla inquisitoria scatola marrone. una scena vista mille volte nei film americani ma mai vissuta in prima persona. erano i poliziotti che riempivano le scatole con le loro scartoffie, era maverick che porgeva alla vedova la scatola di effetti personali di goose. aprì un cassetto trovandolo pieno di scartoffie inutili alla sua futura vita fuori da quelle mura: le sue penne erano sicure nella valigetta in pelle nera, il computer con loro. non aveva veramente molto da fare, la sua ultima giornata era più un commiato che un giorno lavorativo. aveva già provveduto a passare i suoi clienti a michele introducendolo negli ultimi mesi e passandogli tutti i suoi contatti. a lui da ora inutili. aveva chiuso con quella vita e doveva solo riuscire a riempire il vuoto della scatola. priscilla lo aveva messo in difficoltà. prese l'ingombrante oggetto e lo poggiò in attesa in angolo. chiamò giovanna e le domandò di disporre dolci e patatine sul suo tavolo. sarebbe tornato in un'ora, il tempo di un ultimo giro per l'azienda e quattro chiacchiere coi colleghi più stetti. passò una buona mezzora ed un altro cappuccino con michele. poi tornò preparandosi ad accogliere tutti per il suo addio. alla domanda "che farai?" avrebbe risposto vagamente. non lo sapeva con certezza, pensava ad una vacanza in qualche località conosciuta. ormai avrebbe potuto vivere di rendita, il suo piano era riuscito. i 13 anni di impegno costante lo avevano premiato ed ora poteva raccoglierne i frutti. soddisfatto se non felice. rimaneva quella maledetta scatola in angolo. risultò forse evidente il suo imbarazzo a tutti quelli che nelle ore successive passarono per il suo ufficio. la vuotezza di quegli anni rappresentata da un contenitore pieno di niente. la colpa della stronza iniziativa di priscilla. passò anche lui, con sguardo triste lo salutò un'ulteriore inutile volta.
dopo un paio di ore decise la fine delle visite. Era pronto ad andarsene. avvicinò la porta e si diresse alla scatola che lo fissava ancora dalla sua stupida bocca aperta ed affamata. la affrontò: la mise sul tavolo, aprì il cassetto della cancelleria, prese un pugno di bic, una gomma e li poggiò nello spazioso fondo. chiuse la cassettiera a chiave. ci giocherellò fino alla porta poi la porse a giovanna con una busta di ringraziamenti ed un cospicuo assegno. vide la tristezza nei suoi occhi assieme a quei fugaci rapporti avuti negli anni passati. camminò oltre. incrociò priscilla , gli fece cenno e lo vide abbassare occhi che, accidentalmente, incrociarono il triste contenitore. decise qui di salpare alla volta di qualche remota regione della francia meridionale.