domenica 23 dicembre 2007

Tragica morte in un appartamento non troppo lontano dalla stazione

Era palesemente morto davanti al computer. Come un brufolo giallo schiacciato sullo specchio del bagno di un treno. Una mano ancora sulla tastiera, l’altra buttata giù. Pendente come il batacchio della campana. Il braccio si muoveva ogni volta che passava un treno dalla ferrovia. Che non era poi così lontana come aveva raccontato il ragazzo in giacca United Colors of Benetton della agenzia immobiliare. Ammiccando sicuramente e con una intonazione non troppo bassa e non troppo veloce. Ripeteva spesso i loro nomi mentre passeggiava disinvolto per quello che per qualche mese sarebbe stato il loro appartamento. Diceva “qui Dante potrai trovare tutta l’intimità di cui hai bisogno” e “la scrivania la volevano portare via oggi ma dopo la nostra telefonata non mi sono sentito di privartene”. Dietro a quella scrivania era morto Dante. Francesca reagì bene. Rientrò e quando lo vide fece un respiro fondo. E gli occhi sprofondarono in un istante lasciando una scia nera di occhiaie. Non pianse però, aveva solo le pupille lucide come asfalto appena lavato. Si avvicinò lenta e cercando di non fare rumore. Chissàperchè. Poi gli fu accanto vide che il petto non si sollevava. Niente su e niente giù. Non riusciva a toccarlo. Prese il telefono poco lontano e chiamò il numero delle emergenze.
“Il mio ragazzo è morto, venite” si limitò a dire. Arrivò la polizia in 5 minuti. Lei aspettava una ambulanza.
“Che volete?” urlò dietro la porta.
Loro la chiamavano signorina. Erano accomodanti. Dicevano che tutto si sarebbe messo a posto.
Aprì.
Entrarono veloci ed a scatti come i militari nei film. La porta sbattè e lei quasi cadde. Avevano le pistole in tinta con i guanti neri. Una la indicò. Lei guardò dentro la canna senza capire. Pianse la prima lacrima. Uno sputo dal 5 piano.
Poi venne fatto quello che c’era da fare. Arrivò anche l’ambulanza. E impacchettarono Dante. Lei salutò i medici dicendo: “Vi prego non dite che è morto con il cazzo in mano”. Loro la guardarono. Quella sera avrebbero avuto qualcosa di interessante da raccontare.

venerdì 16 novembre 2007

Il viaggio

È strano, ma la maggior parte delle volte che parto ho in tasca già un biglietto per il ritorno.
Anche la volta che siamo arrivati, noi, tre ed altri compagni di viaggio, tutti scalcinati e spettinati ragazzi al termine dell’adolescienza, che solo per uno di noi fu minata dall’acne, alla stazione ferroviaria di Copenaghen in quel freddo mattino di agosto, senza problemi reali ma mille esistenziali, con quel fagotto come bagaglio, pochi marchi ed ancor meno corone in tasca, tanti desideri ed illusioni, la carne portata addosso alle ossa come un cappotto ed un biglietto con validità un mese entro il quale fare ritorno.
Siamo partiti da Berlino dopo esservi arrivati da Amsterdam, dove un banale smarrimento di documentazione personale durante una scorribanda notturna sulle ali dell’ebbrezza ci ha costretto a trattenerci quattro giorni di più in quella caleidoscopica e cara città umida, che nemmeno le folate del vento riescono ad asciugare, in attesa che da casa mi giungesse il passaporto od almeno una documentazione che comprovasse la mia identità. Copenaghen è grigia ma di una tonalità diversa da quella marmorea di Berlino e meno acquosa di quella olandese. Un color nuvola pretemporalesca primaverile avvolge la città a trecentosessantagradi inghiottendo tutto quanto si trova in cielo ed in terra a meno di un chilometro di distanza. I colori filtrati da questo grigio perdono vivacità e lucentezza e calore e dietro alla Sirenetta evasa dal sogno di quel diverso e strano danese d’un Hans Christian Andersen, le gru e le ciminiere delle industrie e dei cantieri navali segnano l’orizzonte separando l’impercettibile differenza del mare dal cielo. Anche il bronzo di quella povera mezzadonna, finchè non arrivi ad averla sotto il naso sembra grigio. Un color grigio acqua di stagno in autunno, quando una volta in campagna cominciava a ghiacciare. Un grigio antico e freddo. Non riusciamo a capire se Copenaghen sia grande o immensa o se esista realmente oppure se tra qualche minuto ci risveglieremo e ricorderemo semplicemente di aver fatto tutti il medesimo sogno.
Diciott’anni sono pochi se li guardi dai venti, sono niente se li guardi dai trenta in poi ma sono la sintesi del significato della vita quando li hai.
Uno sleepin che sembra una palestra, camerate da sei, dieci o dodici con le pareti di compensato alte due metri e mezzo ed aperte senza soffitto è quello che riusciamo a trovare dopo qualche birra bevuta alla stazione ed un giro a Christiania per scrollarci di dosso il torpore delle ore di mancato sonno del viaggio in treno, seduti per terra lungo il corridoio a ritirare le gambe ogni qualvolta qualcuno deve passare per raggiungere il bagno o anche solo per sgranchirsi le articolazioni. La fermata dopo Berlino ma prima di Amburgo, una stazione buia e fredda con luci bianche da frigorifero, salgono solo due ragazzi ed una ragazza e nessuno scende su quei metri di cemento scassati dal gelo invernale e dalle radici delle piante e non ancora accomodati. L’unica cosa che si capisce scorgendo qualche immagine dal riflesso luminoso del finestrino è una spallina di uno zaino che recita un familiare Invicta argenteo, ed appena mettono piede nel corridoio del nostro scomparto li chiamiamo.
Sono Marco, Dino e Sandra dal salento.
Ci raccontano che sono arrivati sin lì in autobus partendo da Berlino con l’intenzione di giungere sino a Copenaghen in bus per spendere meno ma una sorte poco clemente ha fatto sì che il mezzo si rompesse proprio nel cuore della notte ed in quella sperduta cittadina buia e dimenticata da dio e dal governo della quale nemmeno loro sono a conoscenza del nome, costringendoli dunque ad abdicare in favore del nostro treno. Abbiamo suppergiù la stessa età e quello ancora più importante, la medesima destinazione quindi ricaviamo qualche centimetro quadrato accanto a noi per far sì che anche i loro sederi possano trovare posto in quel corridoio che rispecchia molto la mia idea di affollamento che immagino essere tipica della Transiberiana, nei pressi dei confini dell’immenso Impero Sovietico con qulli della vasta Pianura Mongola. Dopo pochi minuti dividiamo le provviste alimentari che avevamo praparato per sopportare le lunghe ore in treno: in tutto quattro panini farciti con un salame a buon mercato trovato in un supermarket vicino alla stazione e due passate di burro. Sono praticamente due morsi a testa niente di più e niente di meno di quanto basta per farsi venire appetito. I tre nuovi amici per ricambiare la cortesia estraggono dallo zaino Invicta una stagnola con dentro qualche pezzetto marroncino di ottimo hascish acquistato due giorni fa in un caseggiato occupato di Kreuzberg, dove, in seguito, scopriamo avere trascorso due delle nostre notti berlinesi e dicendo che magari ci si era anche visti ma con tutta quella gente sarebbe stato impossibile ricordarci le facce. Scopriamo, ricordando il nostro soggiorno ad Amsterdam, che anche loro ci hanno fatto tappa e che hanno trovato una bellissima camera in affitto vicino alla stazione, a due passi dalla zona libera dove ogni sera si va a far baldoria nei coffe shop e poi intontiti a girovagare per il red district abbagliati dalle luci intense e colorate delle vetrine solo a fantasticare su quello che si potrebbe fare, ed il giorno successivo ancora rincoglioniti fino al Van Gogh Museum per rimanere estasiati dinnanzi alla maestosità della pazzia di un uomo morto suicida a poco più di tent’anni, di un genio, poi a bivaccare e riposarsi insieme a mille altri giovani da tutto il mondo sotto le frasche di qualche centenario albero in Vondelpark. Sì, a Vondelpark, diciamo noi, abbiamo dormito in tenda con dei ragazzi spagnoli poichè appena giunti, girando per ore non siamo riusciti a trovare null’altro che un buco merdoso e puzzolente molto costoso in camerate con tossici e puttanieri dove trascorrere la notte, mentre il giorno dopo ci siamo imbucati in un ostello un pò fuori mano, uno sleepin di quart’ordine ma sicuro ed economico. Che giornate! Nessuna coppia tra loro, sono amici di lungo corso, ci dicono e noi per riscaldare l’ambiente facciamo gli stupidi dicendo che siamo una delegazione dell’arci gay e tutti ridiamo. Sandra è carina e simpatica, sorride spesso e sa ascoltare e canta bene, vuole fare la scrittrice e si è iscritta a Bologna e diventerà una fuori sede, piena di entusiasmo.
Ormai, dopo quella condivisione esperienziale siamo come vecchi compagni di elementari riscoperti ed a pieno titolo coprotagonisti del viaggio da qui in avanti.
Passiamo alcune ore a conversare, intontiti dal fumo balsamico delle canne che, una dietro l’altra abbiamo prima rollato e poi fumato, incuranti degli altri passeggeri infastiditi, proprio là nel corridoio di quel vagone di seconda classe dei convogli spartani delle ferrovie tedesche. La gente si lamenta per l’odore, una signora sulla sessantina in una lingua troppo lontana dalla nostra, minaccia di chiamare il controllore o perchè no addirittura la polizia perchè, dice, quella è droga e lei non vuole sentirne nemmeno l’odore e e e ... Poi finalmente si addormenta, il convoglio intero si azzittisce e le mille teste cominciano a percorrere le proprie personali strade dei sogni ed allo sferragliare dei ruotoni metallici sulle giunture delle rotaie, cullati dall’ondeggiare seguendo le svolte, alla luce soffusa notturna del corridoio e la testa leggera, piena di fumo e desideri e sogni, ci addormentiamo anche noi. Ci svegliamo che è già mattina, ma il sole non è altro che una palla pallida a mezz’aria tiepida e velata da una cataratta bianca lattiginosa.
Non sappiamo dove siamo, quanto manca a quando arriveremo ma abbiamo la schiena rotta, le gambe anchilosate ed informicolate per la posizione tenuta per quelle lunghe ore di distratto sonno adagiati sul linoleum lercio del corridoio. Marco, Sandra e Sesto il mio amico, insistono nel loro scomodo dormire, tutti piegati uno sull’altro come pastori di cartapesta da presepio, con la bava della notte che pende dagli angoli della bocca e cola sulla spalla del vicino. Nel convoglio si respira la notte trascorsa e la gente comincia a passare per andare al bagno ed anche gli ultimi si svegliano stirandosi la pelle e sbadigliano aria pesante di sonno e si avverte ancora l’odore del fumo della sera precedente mentre fuori dai finestrini la campagna danese verde e marrone e grigia si stende ai lati dei binari come se proprio da questi fosse originata. Anche se nessuno lo sa, tutti abbiamo come l’impressione che Copenaghen sia ormai prossima, tutto ce lo dice, alcuni passeggeri che disfano il giciglio improvvisato negli scompartimenti e tirano giù le valigie dal portabagaglio oppure guardano fuori dal finestrino per carpire qualche riferimento per provare l’avvicinamento alla capitale danese.
Ci diamo il buongiorno ed arriviamo finalmente in stazione dopo aver sostato qualche decina di minuti all’ingresso in attesa probabilmente di lasciar strada a qualche convoglio in uscita magari in ritardo oppure perchè essendo noi in ritardo, per non far ritardare anche gli altri gli abbiamo concesso la precedenza. Scendiamo, con le ossa a pezzi e gli occhi appesantiti dal sonno, nel grigio della stazione e da lì ci affacciamo come il mattino alla nuova città tanto sospirata ed attesa da tutti e sei, in questo tour della ricerca della libertà, che segna l’uscita da una fase della vita di cui non ne possiamo proprio più e l’ingresso tanto atteso e sospirato ad una nuova fase. Copenaghen oggi è come la nuova vita, alla quale si approda in una mattina fresca d’estate con pochi bagagli e sparpagliati ricordi con le tasche vuote la testa ripiena come un tortello di ideali, utopie e speranze. L’aspettativa è altissima, la tensione pure e la voglia di andare, scoprire, provare è incontenibile e tutte le volte che si scende dal treno in una nuova città, le narici si inebriano di odori sconosciuti, i piedi calpestano asfalti e cementi differenti, gli occhi vedono colori, tonalità sempre diverse e nuove ed invitanti ed i ruomori sono musiche, colonne sonore di clacson, tram, voci straniere, treni, aerei, martelli pneumatici, biciclette, tacchi, cani e e e...
Siamo a Copenaghen, siamo lontani da casa da un mese tra quattro giorni ed ho compiuto diciott’anni due settimane fa in cui abbiamo bevuto sino ad avere la nausea e ballato per le piazze e le strade ed urlato alla notte ai passanti e canzonato i poliziotti vestiti di verde rischiando di prendere un sacco di botte perchè da queste parti non ci vanno tanto per la leggera e fatto gli scemi con le ragazze riuscendo persino a rubarle una toccata, un bacio. Tutte le notti sono la stessa notte, ubriachi di vita nuova, di vino, di birra e di fumo e amore, a girovagare come zingari profani ed a voler fare i bohemienne, parlando con tutti e di tutto in qualunque lingua anche inventata. Siamo partiti in tre, siamo diventati anche dieci, ad Amsterdam, per poi dividerci chi per andare a Capo Nord, chi per tornare a casa e chi per restare là e fare una telefonata a casa ogni settimana per rasssicurare i genitori dicendogli che si stà bene, si è trovato un lavoretto e la gente è troppo simpatica e friendly e la vita è bellissima... Oppure, come noi per proseguire e rimanere ancora in tre a Copenaghen per poi raddoppiarci e vivere il presente.
Mi frugo con una mano la tasca superiore dello zaino e trovo il biglietto di ritorno con impressa la data del e non oltre, il che significa dover tornare tra quattro giorni, novantasei ore. Novantasei ore per poi fare ritorno al come prima, al mio mondo in cui sono nato e cresciuto, in cui mi sono innamorato ed ho perso ma anche vinto, imparato ed ho peli sul viso che coltivo da settimane e vesciche nelle scarpe bucate ed un anno in più rispetto a quando sono partito per comprovare a tutti, al mondo che sono cambiato, dentro ed intorno. Ci mancano ancora un sacco di cose, lo sappiamo ma non ci vogliamo pensare adesso, ad Aalborg ed alla sua via dei locali, la “Gaden” che tutti ci dicono essere il paese dei balocchi, la più caratteristica ed economica via del divertimento in tutta la Danimarca, a Skagen con un piede nel Baltico e l'altro nel Mare del Nord che, con le loro correnti opposte, formano piccole onde dalle spire terribilmente pericolose oppure attraversare le acque per approdare in terra scandinava, anche solo per provare d’averlo fatto o ancora... E invece niente, solo quattro giorni per rituffarmi nel mio nome e cognome, nei panni del figlio di Tal dei Tali, nella mia casa amata dove riincontrerò i resti ancora caldi della mia adolescenza intatta ed il mio letto rifatto e guarderò il tutto dall’alto, come si guarda Berlino dalla torre della Tv in Alexander Platz...

mercoledì 7 novembre 2007

spiegazioni

Lei era bionda. Come la birra che mi aspettava davanti. Condensando. Non c’era più molto da dirsi. “Certo che è caldo” era tutto ciò che mi veniva in mente. A sproposito come i calzetti bianchi sotto le scarpe nere. Passavano auto in cerca di parcheggio. Ne seguivo qualcuna con gli occhi mentre speravo incominciasse. Tutto in lei ricordava la trasparenza. Il vestito leggero, il trucco semplice e lo sguardo piatto. Occhi quasi grigi. Era sempre lo stesso bar. Avevamo sempre frequentato quel posto, da quando ci eravamo conosciuti. Ci incontravamo lì anche se lei viveva ad un passo. La barista si chiamava Carla. Bella ed unica come la pasta fatta in casa. Ci accoglieva sempre con un sorriso. Ci chiamava per nome anche se non ricordavo di essermi mai presentato. Io stringevo il corpo fragile di Simona ed ordinavamo. Spesso provavamo vini nuovi, qualche volta una birra. Come quella volta. La birra è sempre stato il compagno ideale per accompagnare una discussione come quella. Taglia fuori un lato emotivo fatto di vino rosso e frasi lasciate sospese. “La birra lucida gli spigoli” diceva mia nonna. Ed era proprio per quella cristallina lucidità che sentivo solo l’affannarsi del mio respiro. E mi dispiaceva sentitamente. Avrei voluto una ambientazione diversa. Chessò: un aeroporto. Uno di quei posti dove ci si intristisce facile per un arrivederci o un addio. E dove tutto è pulito sebbene non ci siano bidoni dell’immondizia. A terra, nel dehor del bar, c’erano: stuzzicadenti, mozziconi, noccioline ed un paio di ossi di oliva nascosti ai piedi di un tavolo. Dovevo parlare. Lei continuava a guardarmi tranquilla. Era il momento delle spiegazioni e non aveva nessuna fretta. Fredda e calcolata. Teneva una mano bianca appoggiata al bordo del tavolo. Aperta. Non aveva niente da bere davanti a lei. C’era solo il mio bicchiere. Lo sollevai lasciando un cerchio bagnato sul tavolo. Presi un sorso poi deglutii con un sospiro lungo. Lei socchiuse le labbra sottili. Senza rossetto.
“Certo che è caldo” dissi piano.
E lei se ne andò.
Mi concessi tutto il tempo per finire la birra ed ordinare finalmente un bicchiere di rosso.

martedì 6 novembre 2007

Pop corn e maionese

Brulicare di elettricità statica.
Lampi blu nella notte.
Lacrime bianche sparse nel firmamento.
Silenzio innaturale nella testa.
Sbilanciamento condizionato dallo spostamento gravitazionale.
Niente rime.
Solo visioni spezzettate.
Ingorgo neuronale interno al cranio.

Luce di un falò proietta ombre sulla volta della grotta.
Un uomo è seduto quieto a contemplare gli anfratti nella roccia bruna ed umida al chiarore del fuoco.
Un uomo cammina per la selva buia in balìa di grida, colpi alle gambe e licenza di tremare di paura, anche per niente.

L’uomo in cammino scorge in lontananza un bagliore naturale incendiare la notte.
Un brivido di natura diversa lo scuote attraendolo magneticamente.
I nervi delle sue mani si tendono stringendo forte il sasso al punto da bloccargli la circolazione e gelargli le estremità delle dita.
Il viso si tira in preda a convulsioni mentre quel bagliore sempre più vicino gli accende gli occhi.
La grotta gli si apre ai piedi.
Luce intensa diffonde calore su tutto quanto incontra.
L’uomo si ferma all’ingresso. Accecato.
Si volta verso dove è venuto e vede il buio nella sua ombra contornato da una volta di chiarore, il tutto immerso nell’oscurità si confonde e svanisce.

L’uomo seduto accanto al falò viene distolto dal suo intento di capire la roccia.
Ruota il volto all’apertura della grotta e si accorge della presenza perfettamente illuminata dell’altro uomo con l’oblio che gli fa da sfondo.

L’altro uomo in piedi con le spalle alla notte osserva il contorno della figura scura che si ritrova di fronte e che copre il fuoco.
Gli si avvicina avvertendo il calore sempre più insistente sul suo corpo.
Si ferma un passo prima di pestare i piedi all’uomo buio che volta le spalle al fuoco.
Alza la mano con le dita gelide. E con una forza bruta cala il sasso sulla testa dell’altro uomo.

Nell’attimo esatto in cui il sasso colpisce il cranio dell’uomo buio, le teste di tutti e due gli uomini esplodono simultaneamente lanciando poltiglia grigia ovunque. Anche sul fuoco crepitante.

Dopo, silenzio.

domenica 4 novembre 2007

Colazione

Anche quella mattina andammo al bar.
“Due caffè”
“Uno macchiato”
Il barista non sorrise.
Tirò una leva e riempì il filtro e lo avvitò alla macchina del caffè. Aveva un gilet verde a completare una camicia bianca vecchia a quasi trasparente. Pantaloni neri. Le scarpe probabilmente le aveva ma non saprei dire. Non le vidi. Venni distratto dal crollo della borsa raccontato dalla pagina aperta a caso su un giornale lasciato al suo destino sopra un tavolo poco distante.
La scritta lucida vibrò assieme alle tazzine banche. Erano d’accordo? Seppi in seguito di no.
Noi non avevamo niente da dirci. Come sempre. Guardavamo probabilmente in due direzioni diverse. Lei sicuramente stava valutando le calorie di un croissant integrale alla marmellata. Si bilanciava prima su un piede poi sull’altro. Incerta.
Il caffè fu pronto.
Lei ruppe gli indugi e si spostò verso la teca dei dolci.
L’avevo previsto. Allungai la gamba e cadde.
Ebbe la prontezza di ammortizzare l’urto sulle mani.
Catalizzò l’attenzione.
Si rialzò da sola.
“Ma perché sei così?” domandò nervosa.
Aveva gli occhi stanchi di chi non ha dormito. La faccia usata di chi ha tentato di risolvere una equazione matematica, senza esito. Il vestito era leggero sebbene fosse inverno. Verde con dei puntini bianchi e viola che probabilmente volevano essere fiori. Ma il destino gli aveva beffati. Si sarebbe detto una bella donna ma gli avventori parlottavano di altro.
Io tenevo il caffè con due dita dalla piccola e spessa impugnatura. Avevo una mano appoggiata in cintura ed un gomito al bancone. Riuscivo vagamente ad annusare il mio profumo. E mi faceva stare bene come l’auto lanciata veloce di notte.
Lei continuava a guardarmi interrogativa assieme a parte dell’assonnato pubblico. Un ometto sulla sessantina, una signora sull’uscio, un uomo distinto per il papillon nero e la barba bianca.
Mi sentivo importante. Unico.
Non risposi tuttavia. Sarebbe stato come spiegare una barzelletta.
Feci un inchino ed uscii di scena.
Era una splendida giornata e il barista continuava a non sorridere.

martedì 4 settembre 2007

La vita è come un film porno

“La vita è come un film porno...” fece una pausa di silenzio per prendere fiato, poi proseguì, “...prima o poi c’è sempre qualcuno che lo prende il culo...”
La pausa che seguì sembrava voluta per enfatizzare il gran finale della frase
“...e mi sa proprio che la parte che mi è spettata sia proprio la meno fortunata” Tirò un’altra volta il fiato, sempre con rinnovata fatica, dunque provò a tossire senza intimorire per nulla lo strato di catrame e catarro che lastricava i suoi bronchi e polmoni. Rantolò un altro pò in preda a spasmi involontari tra le lenzuola sudate del letto, poi, contrariamente alla grazia cinematografica, con gli occhi spalancati, morì. Lo sguardo che morendo lasciò rivolto al mondo sembrava il frutto di una scoperta terrificante e sconvolgente.
Carlo constatò il decesso. Arturo aprì le porte della camera. I due infermieri entrarono nella stanza mentre Carlo ed Arturo uscivano. Quando si trovarono di fronte al parroco dell’ospedale, Carlo disse
“mi spiace padre, ma prima di morire ci ha detto di non farla entrare nemmeno adesso che se ne èa andato”
ci fu il silenzio necessario per prendere dalla tasca anteriore dei jeans il pacchetto delle sigarette e portarne una alla bocca, frugare nella sinistra, individuare l’accendino e con una maestria da veterano, darle fuoco. Dopo una profonda boccata si sentì pronto per continuare
“...sa, ha paura di finire in paradiso e riincontrare quel figlio di puttana del suo vecchio”
Il prete, col capo leggermente voltato sulla sinistra per scansare la nuvola di fumo, si segnò velocemente rimanendo in silenzio.
Carlo diresse lo sguardo ad Arturo e con uno scarto del capo in diagonale, da sinistra verso destra, si mise in cammino nel corridoio verde.
Il silenzio regnava in tutto il reparto facendo a botte, per avere il sopravvento, con l’odore insopportabile di disinfettante e malattia. La lotta fu dura e serrata ma, alla fine, ad Arturo parve avere il sopravvento l’odore.
In fila indiana, a due passi di distanza l’uno dall’altro, lasciandosi alle spalle una scia di fumo, percorsero tutta la lunghezza del corridoio. Scesero con l’ascensore i tre piani sino a terra e si diressero verso l’uscita. Dai vetri della portineria si scorgeva il cielo imbrunire. Giunti sulla soglia, davanti ad un cartello bianco rosso e nero, appeso al muro, Carlo lesse
“vietato fumare in tutti i locali interni, la direzione...”
Carlo si guardò attorno facendo roteare la testa prima a sinistra dunque a destra. Non vide nessun altro tranne Artuto. Abbassò lo sguardo e vide un grosso posacenere ripieno di sabbia da lettiera per gatti. Diede una lunga ultima aspirata e, con la mano, lentamente immerse la sigaretta tra i granelli di sabbia. Espirò. Spinse le maniglie antipanico rosse della grande porta a vetri d’ingresso, poi uscì. Arturo lo seguì.
Il cielo non era ancora così bruno. Dovevano solo disabituare gli occhi da quella luce asettica e fredda che inondava l’interno dell’ospedale. Dopo qualche minuto cominciò a calare veramente la sera.
I due stavano camminando per il viale che porta verso il centro mentre il traffico del rientro si intensificava in entrambe le direzioni. Arturo ruppe il silenzio
“cazzo Carlo, non abbiamo preso l’ora del decesso.”
Dal tono sembrava rammaricato quasi come si fosse dimenticato di mettere le 200 lire nella cassa dopo aver acceso la candela alla cappella di San Rocco.
“Che ore sono adesso?”
“Non lo so, non ho l’orologio”
Arturo scrutò il cielo ed il passaggio di un aereo gli catturò l’attenzione “Beh, facciamo finta che siano un quarto alle sette”
“Quindi, più o meno, se ora sono le sei e quarantacinque, lui sarà morto alle sei e mezza circa” calcolò Carlo.
“No, mi sa che non regge. Alle sei e mezza suonano le campane, non è vero?”
“Mi sa di si, ma io non ho sentito suonare nessuna campana”
“Appunto, quindi non può essere morto alle sei e mezza, dev'essere stato prima”
“Ochei, ma quando il Giec ci chiederà a che ora è morto, cosa gli diciamo?”
“Gli diciamo che è morto alle sei. È un’orario bello e facile da ricordare...”
“Va bene, allora facciamo che sia morto alle sei, all’ora dell’aperitivo” concluse Carlo.

Come al solito, dal Giec i tavoli erano tutti liberi. Carlo ed Arturo aprirono le porte e si andarono ad unire agli altri tre reduci alla barra del bancone. Si appollaiarono insieme agli altri sugli sgabelli, ruotandosi come avvoltoi le posizioni man mano che qualcuno si alzava per andare al bagno. Il bancone di legno era come al solito umido e l’odore che si respirava nel locale sapeva di muffa. Le uniche luci accese, pendavano grevi dal soffitto proprio ad illuminare il bancone zozzo. Da quando il Giec aveva venduto l’unico tavolo del locale, aveva spostato dal centro della sala a sopra il bancone i due lampadari da biliardo, dal cappello di vetro verde, che ora pendevano minacciosamente sulle teste dei sei. Sistematisi in silenzio, il Giec, da dietro il banco, spillò loro una media bionda doppio malto. Il vetro pesante dei due bicchieri riecheggiò sordo al contatto col legno e dal fondo si sollevarono delle bollicine che andarono ad alimentare lo strato di schiuma candida in superficie.
“Allora?” fece uno dei tre rompendo il silenzio.
“E’ morto” rispose Carlo.
Tutti abbassarono lo sguardo sul bicchiere ed all’unisono lo sollevarono creando un semicerchio al quale, da dietro il bancone, partecipò anche il Giec. I bicchieri si unirono tintinnando.
“A Guido!” avanzò Carlo. Poi ognuno diede un sorso al proprio bicchiere.
“Se ne è andato sereno?” chiese un altro dei tre rompendo il silenzio.
Arturo e Carlo, con i gomiti appoggiati al bancone e le spalle inarcate fecero ciondolare la testa.
“Ha detto qualcosa prima di lasciarci?” chiese il primo.
“Con la poca aria che gli era rimasta nei polmoni ha accennato solo a due cose” Carlo diede una sorsata generosa, schioccò la lingua sul palato e socchiudendo le labbra continuò “a quel bastardo di suo padre, che dalla paura di riincontrarlo da qualche parte ha persino rifiutato l’estrema unzione del prete ed i funerali in chiesa e poi al brutto scherzo che gli ha riservato la vita”
“Già” disse il Giec “è stato sfortunato due volte. Prima per essere stato il figlio di suo padre campato cent’anni, poi per essersi ammalato appena quel figlio di puttana è morto”
“Quel demonio d’un vecchio gli deve la vita che gli ha rovinato...” il secondo lasciò sfumare il discorso verso un silenzio pesante.
“Che ore erano quando è morto?” chiese il terzo.
“Più o meno le sei” fece Arturo.
“Non erano ancora suonate le campane” fece eco Carlo in rinforzo.
“Checcazzo!" raddrizzò la testa il Giec mentre con la mano sinistra toglieva lo strofinaccio dal bicchiere che aveva nella destra. "Non mi ricordo esattamente di che giorno ed anno si trattasse...” sul suo viso si delineò una smorfia di commosso sorriso “...ma ne sono certo, alle sei in pacca di quel giorno, quel povero cristo mise per la prima volta piede in questa bettola, e...” scuotendo la testa lentamente mentre riponeva il bicchiere tra quelli asciutti “...alle sei di oggi se ne è andato”
Di nuovo ci fu silenzio.
Giec spillò altre sei medie doppio malto. Una era per lui. Senza dire nulla fecero un altro brindisi lasciando toccare i bicchieri in onore di Guido.
Il secondo dei tre, quello seduto al centro, si alzò per andare al bagno. Diedero un sorso poi, Carlo conquistò il suo posto ed Arturo guadagnò una posizione verso destra.

sabato 1 settembre 2007

'fanculo Bologna

Aspetti ancora qualche minuto, un ultimo sospiro. Poi giri la chiave e le valige stanche vibrano col motore. Puzza di olio bruciato. Ti ripeti che niente è per sempre. come una verità scoperta nei Baci Perugina. In bocca il sapore più amaro di un caffè. Controlli nell’orologio che le telecamere della città siano spente. Le gambe della zona a traffico limitato ti si aprono come un ponte levatoio. Morbidamente sfili per quella via di alcuni locali che conosci. Ci venivi tempo fa. C’è sempre la stessa gente tra poche ore la strada sarà ingombra di auto lasciate in doppia fila per una bevuta veloce. Potresti rimanere ancora un po’ ma non è il caso di abbandonarsi a facili nostalgie. La musica per radio ti aiuta. Una canzone ricorda le vacanze. Le rocce mangiate dal sole, lucide di sale. I vestiti appiccicati al costume bagnato. Quel bar scavato in una posizione incredibile. E tutte le foto ancora da riordinare. In fondo è bello partire. Per un po’ qualcuno parlerà di te arrivando alcuni giorni anche ad immaginarti. Domandandosi: “che farà?”
Eccoti dietro una scrivania incassata in un mobile vecchio di quelli che arredano le case in affitto. Dondolando su una sedia pericolante con un piatto sulle ginocchia, la forchetta in mano ed un libro e computer ad occupare lo spazio occupabile del tavolo. Dalla cucina suona, distorta dal corridoio, la radio deliberatamente dimenticata accesa. Rumori familiari. Il pavimento è coperto di jeans che vai ammucchiando meravigliandoti di averne tanti. Alcuni sono sfilacciati sul fondo dove li avevi arrotolati. C’è anche qualche maglietta più o meno sporca. Dovresti riordinare e sai non lo farai perché ti piace avere qualcosa da dover fare. Nell’aria l’eco di un incenso spento da giorni. Raccogli un boccone di cena con la forchetta avendo ben cura di non sporcarti. Probabilmente uscirai anche quella sera.
Mi passi accanto ma non ci notiamo. Io distratto dalle mie scarpe e tu dalla freccia a sinistra. Entri nella strada grande che, come le arterie sembra fatta per velocizzare il passaggio. È proprio così: questa è la strada più veloce per andarsene. Anche nelle ore di punta quando si intasa. Quando suonare il clacson è il solo modo per rilassarsi.
Ora non c’è molto traffico e passi veloce e il paesaggio è luminoso come appena lavato. Sterile come un tunnel. Da lontano tutto sembra più bello. Anche le puttane buttate come la pastura dei pescatori vicino all’autostrada. Quelle storie solo immaginate. Autocontrollo, morale.
Pensi a te meravigliandoti. Non l’hai fatto spesso ultimamente. Hai parlato discorsi non tuoi. Ripetendo il sentito dire, quello che bisogna dire. Hai mentito. Espresso certezza, gioia e un calore non tuo. Anche quella scelta di pochi mesi prima non è tua ora. Il libero arbitrio è una illusione. Passiamo la vita ad adeguarci alle aspettative della gente.
Accendi una sigaretta. Butti fuori tutto con un lungo soffio. La mano destra batte sul volante i quattro quarti di una canzone veloce. Acceleri e te ne freghi.
“’fanculo Bologna”.
Mi devi ancora una birra.

venerdì 31 agosto 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 6)

Le ore, paradossalmente, più si avvicinava il momento dell’azione più sembravano dilungarsi e protrarsi all’infinito. L’attesa per Arturo stava diventando estenuante. Più ripensava alle varie mosse da tempo pianificate, più gli sorgevano dubbi e la testa si riempiva di "se" e di "ma". Doveva assolutamente sbarazzarsi al più presto di quell’ingombro. In quel momento per la prima volta nella sua vita, stava provando una sensazione strana, fino ad ora sconosciuta. I sintomi che avvertiva erano identificabili con quelli che alcune volte, suoi conoscenti gli avevano descritto ed avevano catalogato con il termine Paura. Miedo. Fear. Cтрах. Furcht. 공포. الخوف. 恐惧. 恐れ.
Molte volte, in troppe lingue aveva sentito pronunciare quella parola e tutte le volte era rimasto del tutto indifferente. Di fronte a Paura, Arturo reagiva come chiunque di noi reagirebbe sentendo pronunciare un termine sconosciuto, nuovo, mai sentito prima d’ora e del quale si ignora il reale e profondo significato.
Adesso, chiuso in quelle quattro mura, rapito da un inconsistente senso di claustrofobia, Arturo avvertiva tutti i sintomi della Paura, ed il semplice fatto di esserne consapevole lo disturbava intimamente. Non lo aiutò la musica psicadelica dei Pink Floyd che utilizzava solitamente come sedativo per l’ansia. Nemmeno ci riuscì la canna di olio d'hashish. Ne aveva rollata una abbastanza leggera per evitare che l’effetto si protraesse troppo avanti nel tempo lasciandolo rincoglionito al momento del colpo. La testa doveva essere leggera e libera da pensieri. Provò a pensare all'inquilina del piano di sopra, quella con due tettone da togliere il respiro. Provò ad immaginarla nuda, come spesso gli era capitato di fare. Niente. Quella sera tutti i suoi pensieri erano catalizzati dal Colpo. Dal Colpo che, comunque fosse andato, in un modo o nel suo opposto, gli avrebbe cambiato la vita.
Arturo non era mai stato dentro, in prigione. Aveva sempre vissuto ben oltre la legalità, sempre sul filo del rasoio. In tutti gli anni di onorata carriera criminale, Arturo era sempre riuscito a farla franca, spesso beffandosi degli stessi tutori dell'ordine. Arturo aveva un eloquio fuori dal comune ed una capacità di persuasione incredibile che, sommati alla sua elegante e distinta presenza, riusciva a tenere lontano da sè qualunque presunzione di colpevolezza.
Più il tempo rallentava, più le sue preoccupazioni si accentuavano. Per quanto riguardava la sua parte era tranquillo e fiducioso. Aveva meticolosamente ripassato tutti i minimi particolari compresa l’espressione e le parole che avrebbe dovuto vomitare alle tre guardie giurate come un sacerdote intento durante l'omelia. Sapeva quale tono avrebbe dovuto assumere e quali gesti accompagnare a quelle parole. La sua parte era perfetta. Ma per quel colpo erano in tre; lui al massimo avrebbe potuto far funzionare alla perfezione il suo terzo di competenza dell'intera macchina. Il resto spettava al Torre ed al Pizza. Al provocatore ed al rancoroso. Ed i dubbi che nutriva in quel momento Arturo riguardavano proprio la loro parte. Non lo impensieriva tanto la manovra di sorpasso che avrebbe dovuto fare il Pizza, elementare, ma il sangue freddo che avrebbe dovuto far seguire una volta bloccato il furgone. Il Pizza sarebbe stato armato e qualunque provocazione o fraintendimento avrebbe potuto far scoppiare un vero casino di sangue e soprattutto mandare a monte l’intero piano.
Il Pizza, anni indietro, nel periodo in cui era nel commercio della cocaina, per un nonnulla aveva fatto fuoco tre volte su due persone perchè convinto, a torto, che lo stessero beffando. Il più sfortunato di quei due si beccò due pallottole in corpo. La prima gli frantumò la clavicola, lacerandogli 5 centimetri di muscoli, tendini ed ossa tra il collo e la spalla lasciandogli uno squarcio rosso e bianco sotto al maglione. L’altra lo trapassò da parte a parte all’altezza dell’addome, trascinandosi dietro parte dell’intestino. Sembrava spacciato ma l’anima, probabilmente, in quel momento non si trovava nè vicino alla clavicola nè vicino all’intestino. Al secondo le cose andarono decisamente meglio anche se, probabilmente, il sibilo della pallottola che gli si fece strada tra le due guancie, portandosi al seguito qualche fila di denti, giunse sicuramente all’orecchio e, senza aspettare troppo, pure al cervello. Si era trattato veramente di una manciata di inutili millimetri e la pallottola anzichè tirarsi dietro denti, saliva e pelle avrebbe sparso tutt'attorno una grigia poltiglia puzzolente, condannando quasi certamente il Pizza alla cattura e dunque all'ergastolo. Se la cavarono alla meno peggio con un calvario di interventi e trapianti vari. Nessuno dei due si dice tornò ad essere quello che era prima. Ma il caos che seguì la sparatoria durò diversi mesi. Nelle centrali di polizia della zona si era già costituito un team per fronteggiare “un’escalation di violenza becera e cieca”, come riecheggiarono alcuni telegiornali nazionali. A quell’episodio non ne fecero seguito altri ed il tutto si risolse con un forzato ritiro del Pizza dal mondo del commercio della cocaina, lasciandolo tossicodipendente e senza un soldo. Questa era acqua passata da almeno cinque anni. Ora il Pizza aveva ridimensionato il suo rapporto con la cocaina ad una semplice relazione occasionale. Ma nella mente di Arturo il semplice sovrapporsi di quell’aneddoto al colpo di quella sera, gli faceva gelare il sangue nelle vene ed aumentare la sudorazione. Il Pizza seguiva l’istinto come un cane da caccia segue la traccia. Senza chiedersi mai un "perchè".
Una volta convintosi della maturità del Pizza, un tarlo nella testa di Arturo traghettava i pensieri al Torre. Il Torre non era certo pazzo come il Pizza ma non era nemmeno così razionale nel prendere decisioni quando, più che la testa, usava le mani. La vicenda che in quel momento turbava i pensieri di Arturo risaliva anch’essa alla gioventù del Torre. Si trattava di una semplice rapina in un Autogrill. Un colpo semplice e veloce. Il Torre, 10 chili più magro, non esitò a prendere a sberle un avventore per il semplice fatto di essersi intromesso tra lui e la cassiera. lo prese per il bavero della giacca e, con un fare holliwoodiano, lo scaraventò di peso contro il frigorifero delle bibite. All'impatto della schiena del tizio contro l'anta del mobile, il vetro andò in frantumi lasciandosi dietro una pioggia di finissimi cristalli ed un tintinnio tendente all'infinito. Tutto questo fece perdere tempo prezioso rischiando l'arrivo della polizia. Tutto finì liscio ma la fortuna non sempre sta dalla tua parte.
Quello che mancava ai quei due schizzati era quello che invece caratterizzava Arturo: autocontrollo e fredda lucidità.
Mancavano solo tre ore alle 03.00, ora in cui la macchina si sarebbe dovuta mettere in moto. Arturo aveva trovato sollievo immergendosi nella vasca da bagno giallognola ed arrugginita che, per tre lunghi anni si era sempre rifiutato anche solo di riempire.
Con l’acqua che gli lambiva la bocca, Arturo teneva le orecchie immerse e gli occhi chiusi. I rumori lenti, metallici, amplificati ed ovattati che percepiva riuscivano in qualche modo a farlo evadere dai cattivi pensieri che, come avvoltoi, stringevano cerchi concentrici intorno alla sua testa come fosse una carogna.
Nelle ore che pecedevano il colpo, Arturo aveva vietato a tutti di mettersi in contatto telefonicamente. Sarebbe stato troppo rischioso nonostante nessuno, oltre a loro tre, avrebbe dovuto sapere del colpo. Alle 03.15, cercando di non dare nell’occhio, si sarebbero dati appuntamento nel parcheggio del cinema Esmeraldo, sulla sinistra del cubo spigoloso di cemento, vicino ai bidoni per la raccolta differenziata. Per evitare problemi legati al trasporto delle armi, la sera prima, fingendo di buttare la spazzatura, il cui ritiro sarebbe stato alle 07.00 del mattino successivo, Arturo avrebbe posizionato, in uno zaino nascosto in un cespuglio, la sua Beretta Modello 92S, la Glock 37 calibro .45 Gap del Pizza, la Steyr M9A1 calibro 9x21 del Torre, la vecchia Skorpion comprata vicino alla stazione scambiandola con qualche dosa di eroina e cocaina, ed i tre passamontagna neri con i fori per gli occhi. Il Torre doveva preoccuparsi invece del reperimento e del trasporto della bombola e della fiamma ossidrica con cui aprire il portellone blindato del furgone portavalori. Quello era un posto di scambisti animato tutta notte ma tranquillo, di cui tutti erano a conoscenza e per questo motivo addirittura sicuro, in quanto tollerato dalla polizia. Solitamente una pattuglia faceva un timido giro nel parcheggio più per far presenza che per controllare e presidiareverso l'una del mattino, dopodichè non ci sarebbe stato più alcuna presenza di polizia. Lì, una volta arrivati tutti e tre, senza nemmeno bisogno di scambiarsi una parola, Arutro sarebbe salito in macchina con il Torre, mentre il Pizza, da solo sull’auto “ariete” si sarebbe messo in marcia verso la statale. Il Torre ed Arturo si sarebbero diretti verso la sede della compagnia di trasferimento di denaro. Quella sera, una soffiata di una vecchia conoscenza, costata 20.000 €, ovvero l’intero patrimonio che i tre erano riusciti a raccimolare in diverse rapine, gli aveva annunciato l’orario di uscita di un portavalori straordinario per le 03.45 ed il suo tragitto preciso sino alla destinazione. Questo “trasporto eccezionale”, gli avevano detto che avrebbe veicolato 750.000€ dal deposito centrale al mercato del pesce, ad una trentina di chilometri dalla città, dove pare fosse programmata un’asta record per aragoste, salmoni e tonni. Una volta visto uscire il portavalori, Arutro avrebbe semplicemente fatto uno squillo al cellulare del Pizza. Questo segnale avrebbe significato
“è partito. Tra 25 minuti sarà da te. Fatti trovare pronto”.
Nei giorni precedenti i sopralluoghi e le prove cronometrate lungo quel tragitto furono diverse e permisero di stimare il tempo necessario per percorrere la tratta dal deposito all’innesto con la statale in 25 minuti. In quel lasso di tempo, il Torre ed Arturo, tagliando per il centro della città, a quell’ora deserta, avrebbero guadagnato una manciata di minuti sul portavalori, anticipandolo di qualche chilometro. Approfittando di quel vantaggio, si sarebbero piazzati sulla strada secondaria, a poche centinaia di metri dall’incrocio, punto in cui il Pizza avrebbe bloccato il portavalori.
In una stradina appartata e sterrata che si immetteva sulla statale, il Pizza avrebbe atteso, prima il transito del Torre ed Arturo che raggiungevano la loro postazione, dopodichè, il passaggio del furgone portavalori. Una volta avvistato, gli avrebbe lasciato qualche centinaia di metri di vantaggio, dunque gli si sarebbe accodato per circa 4 chilometri, sino all’intersezione dell’altra strada secondaria, punto in cui sarebbe entrato in azione e dalla quale sarebbero sbucati con effetto sorpresa il Torre ed Arturo.

mercoledì 29 agosto 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 5)

Arturo, seduto sulla sua poltrona davanti alla porta finestra che da sul viale, faceva seguire allo sguardo i pensieri.
La gioielleria davanti a casa, dove innumerevoli volte si era soffermato ad osservare quell’amato IWC Portoghese cronografo in acciaio, fu la prima cosa su cui appoggiò gli occhi. Non era appassionato di orologi e non ne capiva nemmeno nulla in fatto di meccanismi automatici e cariche manuali, ma il fascino dell’eleganza di quella linea lo rapiva e, come una rapsodia, gli faceva danzare i pensieri al ritmo dei secondi. L’indomani sarebbe entrato e, senza nemmeno volerlo provare, lo avrebbe acquistato. Al polso avvertiva già la pesantezza dell’acciaio del vetro dell’orgoglio e nell'orgoglio provava già la soddisfazione di indossarlo.
Il bar dove lavorava Marina, quella gran passerona che rimbalzava di fiore in fiore, premurandosi di sceglierne uno con sempre più grana. Ma se lo meritava. Aveva quel culetto, non rinsecchito come l’hanno le modelle, ma morbido e sporgente come quello delle brasiliane. Le sue gambe facevano fantasticare anche i vecchietti che le chiedevano un bianco alle 10 di mattina. Il suo viso dolce, gioviale e perennemente sorridente, con quei due occhi verde smeraldo che riuscivano a diffondere buon umore anche nelle giornate uggiose di autunno. Nel giro di una settimana al massimo, Arturo ne era certo, sarebbe riuscito a farla sua, viziandola e riverendola come si deve alle principesse.
Il rivendiotore autorizzato Harley Davidson e Buell, davanti alle cui vetrine troppe volte, come un bambino, Arturo si era perso a fantasticare su quell’incantevole modello di Buell Firebolt XB12R nera e gialla da più di 12.000€. Era un vero piacere per i suoi occhi. Portare al lago Marina con quel mezzo, evitando le code che tormentano e rubano fascino a quei fantastici posti. Anche quella l’indomani non sarebbe più stato un desiderio per lui.
L’agenzia viaggi, dove massimo era andato ad acquistare un biglietto del treno per evitare la canicola estiva in coda alla stazione, pure quella da domani sarebbe diventata il suo punto di fiducia per prenotare i viaggi caraibici che avrebbe finalmente cominciato a fare con cadenza semestrale oppure per prenotare la settimana bianca a cavallo di Natale e San Silvestro.
Arturo, dalla poltrona, aveva un occhio puntato sul futuro. Domani sarebbe stato il futuro. Da domani Arturo avrebbe finalmente garantito il rispetto, che sino a quel giorno aveva sempre negato, a quel suo nome mal sopportato.
Domani sarebbe stato tutto ma prima doveva assicurarsi che tutto, quella sera, filasse liscio come l’olio. L’ingranaggio doveva funzionare alla perfezione ed a quel punto tutto sarebbe andato bene. In palio c’erano un sacco di soldi e la possibilità che diventassero ancora di più. Almeno il triplo.

Solitamente, nelle ore che precedevano un colpo, Arturo si sentiva sempre estremamente tranquillo e confidente nella buona riuscita. Ma fino ad ora, si era sempre trattato di piccole cose, una cassa continua da forzare, un bancomat da far saltare, un distributore self service da convincere a sganciare la grana, niente di più. Il rischio che partisse un colpo da un’arma poteva essere causato solo dalla distrazione o dalla leggerezza con cui la si maneggiava ed al massimo avrebbe determinato una fuga più veloce. Stavolta la possibilità che le armi diventassero necessarie era data quasi per certa. Per la prima volta si trovava ad agire avendo di fronte non macchine sputasoldi bensì persone, guardie. Lui, il topo, si trovava ad avere a che fare direttamente con il gatto. In quella circostanza si sarebbe trovato davanti due occhi, scuri o forse chiari non avrebbe avuto differenza, sarebbero comunque stati pieni di vita ed ofuscati da un misto di desiderio di sopravivenza e terrore. Si sarebbero rivelati esattamente uguali a quelli del Pizza o del Torre, probabilmente addirittura identici ai suoi. Non c’era nessuna combinazione da comporre o bancomat da strappare dal muro, doveva affrontare almeno tre uomini armati e corazzati il cui lavoro consisteva nel prioteggere il trasporto dei valori. I dubbi non mancavano, il rischio era obiettivamente molto alto ma mai, nemmeno per un secondo, la sua testa contemplò un ripensamento. Quella sera, non sarebbe più stato un colpo, ma il Colpo. Se tutto finiva liscio, da quel momento, Arturo si sarebbe trasferito in un’altra città, si sarebbe affacciato ad una nuova vita lontano dalla precarietà generata dai piccoli crimini.
Arturo avrebbe cominciato la sua nuova vera vita. Arturo sapeva nel profondo della sua mente che per un criminale, riuscire a cambiare vita è estremamente difficile, quasi impossibile. Questo lo sapeva bene, ricordando uno dopo l'altro tutti i nomi di suoi conoscenti che comunque ed inesorabilmente erano finiti dentro ed una volta riconquistata la libertà, quasi inconsapevolmente si ritrovavano immersi e trascinati nuovamente nel vortice della delinquenza e della criminalità; l'unico stile di vita che conoscevano e che li avrebbe sempre riaccolti a braccia aperte una volta diventati reietti avanzi di galera.

In quel momento Arturo non era tranquillo come al solito. Il pensiero che gli altri suoi complici potessero commettere qualche cazzata, lo rendeva pensieroso e cupo.
Per la prima volta nella sua vita, avrebbe volentieri chiacchierato con qualcuno, cercando di scaricare parte della tensione accumulata e che adesso cominciava a fargli dolere la testa. Una presenza umana, non necessariamente amica, al suo fianco gli sarebbe sicuramente stata di grande aiuto. Ma Arturo non aveva mai avuto nessuno con cui scambiare 4 chiacchiere od affrontare un tema abbastanza personale da esulare dal tempo o dal carovita, dalla politica o dallo sport. In quarant’anni aveva accumulato emozioni, sensazioni, preoccupazioni e quant’altro sotto uno strato di grigia indifferenza. I suoi stati d’animo, come la polvere, erano sempre stati spazzati sotto il tappeto, nascosti solo alla vista ma mai eliminati definitivamente. Intorno a se, come un artropode, un esoscheletro lo schermava, separando quello che provava dentro di se da tutto quello che invece lo circondava. Niente che lo riguardasse personalmente al punto da toccarlo in prima persona lo preoccupava. Non un terremoto, non la morte di un bambino, non un colpo di Stato od una guerra, riuscivano a rubargli un’emozione. Come la pelle di un pescatore dopo decenni di sole, acqua, sale, vento e solitudine non avverte più la differenza tra una carezza ed uno schiaffo, anche il cuore calloso di Arturo era ormai incapace di reagire a qualsiasi stimolo. Ed anche quando qualcosa lo colpiva in quanto Arturo piuttosto che comune essere umano, in ogni caso la reazione rimaneva celata e nascosta dagli occhi, comunque indifferenti, della gente.

Il colpo, da mesi progettato, era all’apparenza abbastanza semplice da realizzare.
Il Pizza, al volante di un’auto resistente, all’altezza di una strada secondaria, avrebbe dovuto superare un furgone portavalori e, rientrando in carreggiata, tagliargli la strada piazzandoglisi di traverso a pochi metri. In senso contrario sarebbero arrivati il Torre ed Arturo con una anonima ma veloce auto utilizzata come ponte, munita di una bombola d’ossigeno ed una fiamma ossidrica. In pochi minuti avrebbero forzato il portellone tenendo sotto tiro le guardie le quali, assicurate sui furti e rassicurate dalle parole che avrebbe pronunciato Arturo, non avrebbero rischiato la pelle consegnando loro il malloppo. Il Pizza avrebbe messo fuori gioco il furgone e, una volta pronti, tutti e tre, con la macchina procurata dal Torre, avrebbero percorso quei pochi chilometri che li separavano dalla Polo arrugginita di Arutro, precedentemente posizionata in uno slargo vivino ad un campo incolto. Una volta incendiata l’auto rubata utilizzata per la fuga, i tre si sarebbero rifugiati in un casolare abbandonato in aperta campagna, ad una ventina di chilometri, dove avrebbero trascorso qualche giorno in attesa che le acque si fossero calmate.

lunedì 20 agosto 2007

il cane del buon vecchio Colmackie

Avevo innegabilmente assassinato il cane del mio capo. Con sadismo qualcuno potrebbe aggiungere. Ragionevolmente. Non mi ero accontentato di quel piatto arricchito dal cianuro. Gli avevo pure conficcato un paio di dardi sulla schiena in puro stile corrida. E dovevo aver beccato una arteria. Il sangue dipingeva il legno per terra, il bianco alle pareti e le mie scarpe lucide da bowling. Piccole gocce si allargavano sfumate filtrando nell’intonaco. Come una goccia di pittura si sdraia su di una tela tesa.
Il cane ringhiava bava bianca. C’era puzza di vomito e bile. Lo stesso odore di una confezione aperta di fegato di maiale.
Il colpo di grazia glielo diedi con un calcio ben assestato in faccia.
“Stack” La testa gli si girò.
E cadde a terra pesante. Gli occhi aperti guardavano su. La bava andava riassorbendosi nei peli del muso con grumi gialli congiuntivite.
Ci fu un attimo di silenzio. Respirai. I dardi penzolavano senza vita. Stanchi comignoli di stufe inutili. Il sangue non zampillava più forte sui muri. Non era stato un lavoro chirurgico come previsto. Mi ero fatto, per così dire, prendere dal pathos del momento. Calcare la mano. Il cane poi non c’entrava niente. A me Marianna piaceva pure.
“Che macello!” dissi troppo forte per sembrare del tutto naturale. Nei film in questi istanti l’attore guarda la telecamera regalando qualche momento di filosofia spicciola. Tipo frasi da Baciperugina.
Le mie scarpe erano da buttare. E pure i pantaloni.
Respirai a fondo osservando quel casino di peli e sangue che non sarei certo riuscito a pulire. E tanto meno a spiegare.
Mi accesi una sigaretta muovendomi lungo il corridoio. Reinfilai in tasca l’accendino d’oro.
Sul bancone della cucina a pochi passi riluceva una anfora nera. Si specchiava sul marmo scuro del piano. Aveva tutta l’aria di essere un oggetto costoso. I miei passi suonavano sudati sul pavimento in ciliegio. Passai a fianco del vaso ad una distanza reverenziale di svariati centimetri. Lo sollevai tra le mani, specchiai il mio volto nel suo collo allungato. Soffiai fuori il fumo e lo riposi.
“Bell’oggetto” pensai. Come quelle macchine vecchie tirate a lucido che corrono la Millemiglia. Se c’era una cosa che al mio capo non mancava era il buon gusto. Si contornava solo di oggetti belli e spesso unici. Come era stato il suo cane. Come era ancora quell’anfora. Anche le persone che lo circondavano, dalla segretaria ai collaboratori più o meno stretti avevano un bell’aspetto. E questo mi lusingava.
Quando entrai nella Colmackie avevo poco più di ventun’anni, una laurea fresca ed una sfacciata ambizione.
“Rampante, molto anni ‘90” lessi in una missiva privata pervenuta nel 1999 a Colmackie in persona da Stumbeck. Quasi commovente.
Ero nello studio ora. Sfogliavo gli archivi.
Odore di quella polvere sottile che sfugge anche alla più abile donna delle pulizie. Dal colore marrone, magari sfumata in grigio. Quella incastrata nelle piegature delle cartelle di cartone giallo.
Pensare a Stumbeck mi fece sorridere come quando si ricorda una foto scolorita che ci ritrae giovani ed in compagnia di un improbabile amico. Stumbeck era stato il mio capo. Stumbeck aveva posseduto una fortuna di automobili di marca, cristalli, ville in Sardegna e donne bellissime. Stumbeck era tutto quello che volevo essere a ventitrè anni. Cambiai idea l’anno seguente: il 2002.
Il 2002 fu l’anno del mio interessato divorzio da Costanza, la donna della mia vita.
Il 2002 fu l’anno delle mie interessate nozze con Carla, la figlia di Colmackie.
Stumbeck divenne insignificante seduto ad un tavolo, lontano dai festeggiamenti. Si faceva sempre più satellite lasco del sistema solare Colmackie. Distratto dal buco nero della sorte. Ero soddisfatto come il pedone degli scacchi che coglie la regina di sorpresa.
Brindai e lo champagne mi bagnò il polsino bianco inamidato. Altri tempi.
Il sangue che mi imbrattava le scarpe in quel momento anni dopo sembrò per un momento irreale. Le punte su cui cercavo di equilibrarmi disegnavano sbavati sorrisi rossi sul parquet. Sarei potuto scivolare facile.
Prestai nervosa attenzione.
“Quel cazzo di cane! A Colmackie glielo avevo detto: “se vuoi qualcuno che ti sia fedele 10 anni compra un frigorifero”. E lui aveva chiesto a Banny, la sua segretaria cerebrolesa, di invitare Petr dalla Russia”.
Petr possedeva un allevamento in Toscana che frequentava come si fa con parenti: a Natale, a Pasqua e quando muoiono.
Petr arrivò in aereo da Mosca. Si sistemò nella sua stanza poi cenammo assieme. Questi dimostrò particolare abilità nella scelta dei vini provandosi in accostamenti improponibili. Molti prevedevano un qualche tipo di confettura. Rincasammo allegri. Ciascuno con la sua signora sottobraccio. Ero probabilmente persuaso di amare più Carla di Costanza. Sbagliavo.
Il giorno seguente Petr si presentò con un panama e calzoncini corti alla colazione nel parco. Mangiò poco e parlò ancor meno. Ricordava solo vagamente la affabile persona con cui avevamo trascorso la serata. Il naso tagliente ed il mento austero. Passò il pomeriggio in quel risibile abbigliamento misurando la casa e il giardino con un metro. Poi ripartì per Mosca e non ci rivedemmo più. Non mi dispiacque molto.
Il sangue intanto andava marcendo nell’ingresso.
Un mese dopo conobbi Marianna, il cane. Me la presentarono che avevo un completo marrone. Poi mi avvicinai al tavolo bianco disegnato in ferro e colorato da qualche bicchiere che avevo abbandonato poco prima. Gli occhi verdi del pastore tedesco sull’attenti a poca distanza. Recuperai il mio karkadè. Meno rosso del sangue di quella bestia spalmato sulle pareti che in quel momento ripercorrevo con l’apprensione di chi sa di essere spacciato. Lo scalpiccio si faceva più bagnato e confuso. Probabilmente sudavo. Non avevo trovato il mio taccuino nello studio assieme a tutte quelle inutili scartoffie.
Rassegnato quindi mi feci raccomandare da un amico un cinese per rassettare tutto quel casino.
Devo ammettere che fece un ottimo lavoro.
Il vecchio Colmackie, il suo cane ed il mio taccuino non saltarono mai più fuori.

lunedì 13 agosto 2007

accadimenti veramente tragici

Accadde che Lucio morì a ventidue anni. Inaspettatamente.
"Troppo giovane" disse il vecchio Gino. Altri gli fecero il coro. In paese sembravano tutti d'accordo, per la prima volta.
Il Bonzi e la Giuseppina, il vecchio Gino e l'infingardo Stefano, il ribelle Tony e la gang dei metallari. Sembrava un piatto agrodolce. Impossibile. Di quelli dagli accoppiamenti sofisticati. Tutte le facce tese, piatte e vagamente tristi dietro la telecamera mormoravano. Luisella piangeva. Gli occhi arrossati come nelle giornate di vento affrontate in bicicletta, la schiena sudata e la maglietta appiccicata. Era stata la fidanzata del suddetto (e peraltro defunto) Lucio ed ora era improvvisamente al centro dell'attenzione. Tutti volevano dirle una parola di conforto, darle un abbraccio. Pensò per un istante alla sensazione della vincitrice di miss Italia. Poi si scosse. Come fanno i cani per asciugarsi. La sua coda bionda dipinse un morbido semicerchio nell'aria. Era indiscutibilmente bella. Qualcuno si allontanò, altri arrivarono.
"Via, via, lasciatela respirare" disse il fratello prendendola sotto braccio spingendola verso casa.
Si muovevano diagonalmente. Franco la trascinava letteralmente. I muscoli del collo tesi. Sudore.
Lei non ricordava più bene perché fosse uscita. Sembrava tutto lontano come fosse sempre stato così. Immobile.
"Ho sentito le sirene" ricordò.
Il fratello non rispose. Avrebbe voluto portarla via. Nel tempo e nello spazio. Come in ritorno al futuro. Calciò la porta di casa ed entrarono.
La madre portava un infuso fumante. Fuori c'erano 35 gradi ed in casa non si stava molto più freschi. Era tuttavia l'unica cosa che le era venuto in mente di fare mentre il fratello correva a recuperare Luisella. Carla con suoi 53 anni non si era mai sentita tanto inadeguata. Guardava la tazza nelle sue mani. Ceramica sottile e bianca ornata da ripetitivi disegni di un ragazzo con un cappello di paglia ed una anatra in mano. Odore di infuso ai frutti di bosco. Colore rosso non troppo rassicurante. Lo appoggiò sul tavolino basso davanti al divano ed alla figlia. Si raffreddò nei singhiozzi di Luisella. La televisione era accesa ma senza volume.
"Voglio morire" le uscì dalle labbra salate dalle lacrime.
E Dio misericordioso la accontentò.

mercoledì 25 luglio 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 4)

Arturo, trovatosi di fronte a quel duello troppo latente per permettersi di pensare ad altre soluzioni, intervenne.
“Ragazzi, cosa sta succedendo qua?” fece con tono paterno e rassicurante da animatore dell’oratorio, con l'intento di non creare allarmismi che avrebbero potuto far degenerare la situazione.
Nessuno dei due duellanti si era accorto dell’intrusione in campo di quello spettatore prima di quelle parole. Con grande stupore per il Pizza e grande rammarico per il Torre, entrambe si voltarono ripettivamente alla propria destra e sinistra in direzione della voce.
Il Pizza, immediatamente, per la seconda volta in dieci minuti, si trovò ad immaginare che quello appena arrivato fosse il vero proprietario della macchina. Dopo qualche secondo di fredda lucidità osservò “no, non può essere il proprietario. Adesso nessuno sta toccando questa cazzo di auto... Ommadonna, vuoi vedere che è uno sbirro in borghese?!”, scongiurò.
Arturo, avvicinandosi lentamente con le mani a mezz'altezza, volutamente ben visibili dal Pizza, si posizionò in un punto formando il terzo vertice di un triangolo isoscele visibile dall'alto. Le loro ombre si allungavano alla sinistra di Arturo per un paio di metri.
“Che cazzo state combinando?” disse poi con tono da maestrino che rimprovera gli alunni.
Il Pizza, frastornato, rimase in silenzio. Non sapeva più a cosa pensare.
”Se questo non è il proprietario e nemmeno un poliziotto... allora chi è sto qua?” continuava a ripensare tra se senza trovare il bandolo della matassa.
“Questo voleva rubare la Delta!”, spiegò con tono colpevole il Torre. “Gli ho detto che è nostra! Ma la vuole lui”.
Seguirono alcuni istanti di silenzio in cui gli occhi di tutti e tre si incrociarono e si lanciarono occhiate incriminatorie.
Finalmente nella mente del Pizza la situazione cominciò a prendere logicità “se non è il proprietario e nemmeno un piedipiatti od un missionario, sta a vedere che questo faceva il palo allo stupido!”.
Il Pizza capì.
Arturo, con fare ora forense, passeggiando in asse, due passi a destra e due a sinistra, esordì arringando “ascolta, mi sembra di avere capito che a tutti noi interessi questo bolide...”.
I due annuirono silenziosamente seguendo i segmenti tracciati da Arturo.
“... Ora ti faccio una proposta! Noi volevamo la Delta solo fare una sgroppata col culo schiacciato su questa mandria imbizzarita e basta. Non ce ne facciamo un cazzo di una macchina che tra meno di 4 ore diventa incandescente come il sole...”.

Arturo ha sempre avuto la capacità di pararsi il culo in qualunque situazione. Questo dono gli ha permesso di arrivare a quarant’anni con poche denunce non penali alle spalle. Quando Arturo spiegava qualcosa nel 99% dei casi riusciva strappare consensi e conversioni. Avrebbe sicuramente avuto successo come commerciale se solo avesse intrapreso quella strada anzichè perdersi nel dedalo del crimine.

“... Se tu vuoi questa macchina, non c’è problema. Non abbiamo niente in contrario, anzi. Ce la lasci qualche ora, il tempo necessario per provare un pò di brividi, poi te la prendi, la porti dove ti pare e non ti fai più vedere!”, Arturo concluse mimando con le mani la fine.
Il Torre, con il suo faccione illuminato dalla luna e striato ad intervalli irregolari dal lampione moribondo, lasciava trasparire soddisfazione ed ammirazione nei confronti di Arturo. Il Torre era la corazza ed Arturo la ragione. Insieme erano una macchina da guerra oliata pronta a qualunque evenienza. Erano un carroarmato ben pilotato.
Il Pizza, esterefatto dal tipo di proposta, finse di pensarci qualche istante non lasciando trapelare alcuna emozione. In cuor suo, si sentiva soddisfatto ma non voleva dare subito la soddisfazione a quel tizio di accettare la proposta. “Nemmeno il rischio di perdere un dente od un occhio”.
Passarono alcuni secondi, poi, con un cenno verticale del viso accettò "ochei, ci sto!".

In pochi minuti, i tre avevano già aperto la macchina e, col motore acceso si erano presentati ed accordati sul da fare in seguito. Con qualche risata e pacca sulle spalle uscirono dal parcheggio a bordo della Delta HF Integrale Evoluzione pronti per correre un rally notturno. Poi, avrebbero consegnato l’auto nelle mani del Pizza.
Arturo al volante, il Torre al suo fianco lato passeggero ed il Pizza dietro si avviarono senza fretta verso la vicina campagna.
Imboccarono la prima strada bassa poco fuori città, quella che costeggiava il fiume.
Arturo fermò la macchina all'imbocco, dove finiva l'asfalto e cominciava lo sterrato. “Allora siamo d’accordo! Io faccio la prima mezz’ora, poi tocca a te” disse indicando il Torre, “e poi, se vuoi provi tu; altrimenti ci riporti in città e vai dove vuoi con la Delta!”. Erano tutti d’accordo e si strinsero le mani come impegno solenne.
Si allacciarono le cinture di sicurezza, Arturo regolò meglio il sedile alla sua stazza, accese tutti fari in dotazione al bolide e, in folle, cominciò a far salire di giri il motore.
WROOM. WWRROOOMM. WWWRRROOOOOOMMM.
Facendo tre volte pressione, sempre un pò più forte, sull’acceleratore si sentì il motore rispondere scuotendo nervosamente l’abitacolo come la centrifuga di una lavatrice. La terza volta che premette l’acceleratore, la lancetta del contagiri sfiorò i 5000 giri al minuti.
Pieno di adrenalina, Arturo era pronto a lasciare la frizione per dare inizio al rally. Ingranò la prima marcia. Lanciò un'occhiata d'intesa ai due e mollò la frizione di colpo. Si sentirono le quattro ruote motrici slittare all’unisono sulla ghiaietta fina della strada. Il motore salì velocemente di giri mentre l’auto si trovava ancora pressochè ferma nello stesso punto. Proprio come in un cortone animato, prima di muoversi passò qualche frazione di secondo interminabile in cui gli pneumatici cercavano disperatamente di fare presa su qualcosa. Quando tutti i più di 200 cavalli si sprigionarono scaricando tutta la loro forza sulla terra, l’impressione che provarono i tre a borbo fu simile a quella del decollo di un aereo. I corpi dei tre ragazzi furono schiacciati a forza contro gli schienali profondi ed ergonomici della Delta HF Integrale Evoluzione. I sassi impazziti, sparati a velocità incredibile dagli pneumatici, rimbalzavano sulla carrozzeria provocando rumori metallici fitti e secchi simili ai chicchi di grandine. Nell'abitacolo il rombo del motore montava sempre più dando l'impressione di averlo sotto il sedile. Arturo inserì rapidamente la seconda mentre il bolide inghiottiva già decine di metri alla volta e, solo per pura ingordigia, provò anche la terza. Il volante sotto la presa serrata di Arturo cercava di divincolarsi e disarcionargli le mani. Il grip che ricopriva il volante asciugava il sudore che l’agitazione di Arturo faceva sgorgare dai suoi palmi. Le vibrazioni aumentavano proporzionatamente alla velocità. Il rettilineo davanti a loro sembrava accorciarsi alla velocità della luce. Il manto sconnesso della stradina sommato alla reazione delle pronte sospensioni Mc Pherson, faceva sussultare l’abitacolo, mettendo qualche centimetro di vuoto tra il sedile ed il culo dei tre ragazzi, ogni qualvolta prendevano una buca. Quando le ruote si trovavano a girare a vuoto, il motore suggiva salendo di giri ed una volta riatterrati imprimeva una nuova accelerazione all'auto.

“Garda quanto facciamo, veloce, guarda a quanto siamo che devo mollare!” ordinò Arturo al Torre.
“Centoventi, centoventicinque, centotrenta, cazzo ma questa vola!” disse il Torre con una soddisfazione ingenuamente infantile.
Artuto non conosceva quella strada. Non la aveva mai percorsa. Sapeva però che il fiume in quella zona disegnava una abbondante S. Sapeva anche che quella su cui stavano correndo il loro rally era la strada dell’argine del fiume. Prima o poi si sarebbe aspettato la curva.
Al limitare della zona illuminata dalle due file sovrapposte di fari scorse, finalmente, l'attesa curva sulla destra. L’entità della curva gli era sconosciuta quanto la presa delle gomme in frenata sulla superficie scivolosa della ghiaia. Avrebbe potuto trattarsi di una curva di 100 gradi come di una di soli 40. Lo avrebbero scoperto nell'arco di pochi secondi.
Arturo impugnò la leva del cambio lasciando sul volante l’impronta di sudore della sua mano sinistra. Nessuno la notò. Mollò il pedale dell’acceleratore e con un rapido spostamento dei piedi, scalò in seconda imballando un pò il motore.
Con in corpo la sicurezza e l’esperienza di Miki Biasion fece una leggera pressione sul pedale centrale del freno cercando di non bloccare completamente le ruote. Il motore, appena Arturo rilasciò la frizione, ruggì come un leone facendo godere delle sue vibrazioni i tre ragazzi a bordo. Stavano provando un’esperienza che pochi ragazzi all’epoca avevano il privilegio di sperimentare.
Al giorno d’oggi basterebbe andare in un qualunque parco di divertimenti per provare sensazioni molto più estreme, paragonabili al decollo di uno Shuttle od alla decelerazione di una Formula Uno. Loro non lo avrebbero mai potuto immaginare e continuarono a godersi quel momento.
Man mano che i fari inghiottivano la strada, Arturo sentì montargli dentro un senso di impotenza che, più il bolide bruciava metri, più aumentava in lui. Quando la strada fu tutta illuminata, la gioia che fino a quel momento aveva pervaso gli animi di quei tre giovani e si poteva respirare dispersa nell’abitacolo, in un baleno scomparve lasciando spazio alla preoccupazione. La curva che dovevano affrontare era in realtà un gomito a meno di 90 gradi. Arturo dalla delicatezza con cui fino ad allora aveva accarezzato il pedale del freno, sgranando gli occhi, passò ad esercitare tutta la forza che aveva in corpo per cercare di fermare la corsa di quel cazzo di razzo a quattro ruote. Il Torre ed il Pizza, con la bocca spalancata non riuscirono ad emettere alcun grido, bloccati, non tanto dal senso del pudore quanto piuttosto dalla repentinità della situazione. Il terrore si era impossessato delle loro facce e, dentro di ognuno di loro, c’era spazio solo per la speranza.
La Delta HF Integrale, ad una velocità almeno tripla a quella massima consentita per affrontare una tale curva, slittò sulla ghiaietta scartando lateralmente come fosse un copertone di camion sul giaccio. Tutti e tre si appiattirono istintivamente al sedile cercando con le mani appigli che non trovavano. Lo stesso Arturo aveva mollato l’inutile volante puntellandosi con entrambe le mani al tetto dell’abitacolo.
La Lancia Delta HF Integrale impazzita e fuori da ogni controllo umano, carambolò prima in un campo e, senza ribaltarsi, urtò di striscio un pioppo centenario con la fiancata destra e finì la pazza corsa con un salto nel vuoto di almeno due o tre metri. La Delta HF Integrale Evoluzione atterrò, sulle ruote, in uno stagno quasi aciutto utilizzato per l’rrigazione.
Il colpo al momento dell’atterraggio fu secco e laterale seguito da un boato sordo. I fari, ancora accesi, illuminavano qualcosa di marrone indefinibile davanti a loro. Il vetro anteriore, crepato in diversi punti, era rigato da spruzzi di acqua melmosa verdognola. Nell’abitacolo cominciò ad entrare del fumo bianco e denso dai bocchettoni dell’aria. Avvolti da un’odore di zolfo misto plastica bruciata, i tre si ricomposero sui sedili. Si squadrarono senza dirsi nulla e in un baleno, slacciate le cinture di sicurezza, cercarono di aprire le portiere. Quelle di destra, ovvero la fiancata che aveva impattato il pioppo, erano bloccate. Appena Arturo aprì a fatica la sua, nell’abitacolo entrarono trenta centimetri di acqua putrida e puzzolente da far venire il volta stomaco. Non avevano tempo per schifarsi dell'acqua. Uscirono dall’abitacolo e, in un metro di fango e melma, si trascinarono sul bordo dello stagno mentre dall’abitacolo continuava a fuoriuscire del fumo denso e bianco che contrastava con il buio scuro della notte. Tutti e tre in fila, seduti con le gambe a penzoloni sul bordo dello stagno. Restarono in religioso silenzio una decina di minuti ad osservare la Lancia Delta HF Integrale fumare con i fanali ancora accesi, mezza sprofondata nella fanghiglia dello stagno.
Poi Arturo ruppe il silenzio “ma quanto cazzo corre quella macchina... dovrebbero vietarla!”.
Una risata collettiva e catartica segnò la fine della tragedia scrollando di dosso la paura dai giovani e consacrando quella cazzata ad essere raccontata come aneddoto divertente agli amici ed alle ragazze.

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 3)

Il primo incontro tra il Pizza, Arturo ed il Torre ebbe a dir poco dell’epico.
Il Torre ed Arturo conobbero il Pizza per la prima volta nel parcheggio di una discoteca della zona, dove, ignorando ciascuno l'identità dell'altro, si trovarono a contendersi una macchina da rubare. Tutti più o meno coetanei, con un pregresso più o meno simile, alle tre di quella stessa notte, vennero a conoscenza gli uni degli altri. L’auto contesa era un bellissimo modello di Lancia Delta HF 16 valvole Evoluzione a trazione Integrale da più di 200 cavalli. Era un gioiellino che riassumeva potenza e bellezza. Una bomba. La sola vista ne usciva appagata ancor prima di aver provato la bruciante accelerazione sciogliendo le briglia della mandria di cavalli che nitrivano sotto il cofano. Un insieme di linee secche e spigolose condite da bombature laterali che davano l’idea di contenere a fatica l’esuberanza della potenza del motore. Faceva gola a tutti quella super car italiana.
Al Pizza interessava per un motivo meramente economico; aveva una commissione. La consegna dell’auto al ricettatore gli sarebbe fruttata la bellezza di 2 milioni di lire. Una cifra stratosferica per mezz’ora di lavoro in tutta sicurezza. Gli era capitata una vera occasione. Con quella cifra un ventenne come il Pizza aveva le idee ben chiare sul da farsi: qualche mese da nababbo tra lussi e donne.
Il Torre ed Arturo invece, volevano semplicemente togliersi lo sfizio di provare il brivido di pilotare il miglior stallone a quattro ruote sul mercato, in un improvvisato rally notturno nella campagna della bassa. Solo il brivido di sfrecciare a più di 100 chilometri all’ora per le stradine sterrate vicine all’argine del fiume, li scuoteva e li eccitava come bambini davanti ad un flipper. In tutto un’oretta di vero svago adrenalinico, niente di più.

“Ehi tu! Che cazzo stai facendo?” disse il Torre indicando il Pizza che, accovacciato accanto alla macchina, con un cacciavite in mano stava cercando di forzare la serratura del lato passeggero.
Il Pizza, temendo di essere stato beccato in flagrante dal proprietario, irrigidì i muscoli del corpo e con uno scatto violento si sollevò.
“Ehi capo, dov’è il problema? Non sto facendo nulla di male. È che nel pisciare ho perso le chiavi della mia macchina e le sto cercando!”, fu quanto in quattro e quattr’otto riuscì ad arrabattare il Pizza con una prontezza di parola tale da dissimulare il suo reale stato d’agitazione. Dentro di se il cuore pulsava talmente forte che lo sentiva spingergli il sangue sino in bocca. Improvvisamente sentì il bisogno di respirare più ossigeno e la respirazione si fece più profonda ed affannata. Il petto si gonfiava sotto la maglia e subito dopo si svuotava facendo vibrare le narici come fossero le froge di un cavallo affannato. Cercò di placare il tremore che nel frattempo aveva cominciato a manifestarsi impadronendosi dei suoi arti superiori. Una leggera forma temporanea di Parkinson che avrebbe potuto compromettere la sua fermezza.
“Sarà meglio per te!” continuò il Torre minaccioso distogliendo l'attenzione del Pizza dal tremore.
“Perchè questa macchina l’ho vista prima io e se non vuoi finire nel tuo pisco a cercare oltre alle chiavi anche i tuoi denti, farai meglio ad andare a scegliertene un’altra. Capito?”. Il Torre era in gamba sotto tutti gli aspetti, peccava solo in quanto a sufficienza e modestia. Questo non gli facilitò di certo in nessun caso la vita, soprattutto quando si trovò di fronte un suo clone.
Una volta capito che quell’essere enorme che il Pizza si trovava davanti altro non era che un suo concorrente, un ladro d’auto proprio come lui, il sangue cominciò a rallentare ed il tremore si placò lasciando un velo di gelido sudore sulla fronte e nell'incavo della spina dorsale. Riacquistò velocemente sicurezza e fermezza. Un senso di rilassamento lo pervase da capo a piedi e, con sangue freddo, serrando bene la mano attorno al manico del cacciavite appiattito lungo la coscia destra, gli annunciò “mi spiace per te amico! Ma questa l’ho vista prima io! Quindi chi deve levare i tacchi sei proprio tu! Guarda” aggiunse indicando con la mano sinistra, in un movimento a ventaglio da destra a sinistra, l’intera ampiezza del parcheggio “ne hai quante ne vuoi, qui, di macchine”.
L’affronto non fu gradito dal Torre. Nessuno poteva rivolgersi al Torre in quel modo. Il Torre possedeva uno dei ganci più potenti della provincia e forse dell’intera regione. Dopo anni ed anni di scazzottate, ormai non gli serviva nemmeno più dimostrare la sua superiorità fisica sugli altri. Si era già conquistato il rispetto ed ora tutti lo conoscevano evitando accuratamente di provare la forza del suo destro. Le dita del Torre automaticamente, senza alcuna volontà, presero ad accartocciarsi come canne mosse dal vento. Chiunque lo conoscesse un minimo sapeva leggere in quella mossa un preludio di polvere, sangue e denti rotti. “E questo coglione chiccazzo è per rivolgersi a me in questo modo?”, chiese al suo cervello. Ricordandosi del supporto che la chiave inglese infilata nella cintola dei pantaloni poteva offrirgli in caso di pericolo, il Torre, convinto comunque che non ne avrebbe avuto bisogno, si diresse lentamente, mettendo un oasso davanti all'altro, verso quel ladruncolo irriverente del cazzo. Fisicamente il Torre non si lasciò intimorire dalla stazza di quel cazzone, peraltro inferiore alla sua. Nonostante il chiarore della luna facesse luccicare qualcosa che avrebbe potuto essere un coltello od un cacciavite, nella mano destra di quel tizio, il Torre continuò ad avanzare fissandolo dritto negli occhi cercando di leggere le sue intenzioni. Come due predatori, si studiavano a vicenda riproponendo le stesse mosse e le stesse espressioni. Sembrava quasi che dei due solo uno fosse quello vero e l'altro niente più di una semplice immagine riflessa da uno specchio.
Arturo, che nel frattempo stava di gardia sul viale che porta alla discoteca attento che non sopraggiungesse nessuno, sentendo quell’attaccabrighe del Torre parlare ad alta voce e con tono abbastanza minaccioso, conoscendo bene il suo carattere, si insospettì.
“E adesso cosa gli è saltato in mente a quel decerebrato?” pensò mentre si incamminava con un buon passo nella direzione dalla quale provenivano le voci.
Quando Arturo arrivò in corrispondenza della Delta HF Integrale Evoluzione, si trovò davanti una scena degna di essere diretta da Sergio Leone in persona.
Un refolo di vento alzava una nuvoletta di polvere dal suolo sterrato del parcheggio, dissolvendola a mezz’altezza nell'aria. La luna, quella notte luminosa, dall’alto, inondava con i suoi raggi decisi e caldi tutto quello le stava sotto, compresi quei due pazzi mitomani e la Delta HF Integrale Evoluzione. In lontananza, i decibel delle casse dalla discoteca, creavano un sottofondo di dance music un pò fuori tema. Qualche uccello notturno, probabilmente un pipistrello o forse una civetta, lanciava fischi minacciosi e funerei che rompevano la monotonia delle note dance diffuse dalla discoteca. Un faro che, lampeggiando minacciava di fulminarsi a breve, lanciava psichedeliche vampate di luce sui due individui. Il Torre aveva a pochi passi, tre o quattro al massimo, dal suo destro il naso di un altro ragazzo che in pugno, di tutta risposta, lambiva minaccioso un cacciavite di almeno 25 centimetri. Se quel cacciavite avesse penetrato la pelle del Torre, molti meno centimetri sarebbero bastati per spedirlo all'altro mondo. L'adrenalina, in quei due corpi stava diminuendo vertiginosamente la loro capacità di valutare i rischi. Arturo, nella sua lungimiranza, capì che, se avesse tardato di qualche secondo il suo intervento, probabilmente qualcuno si sarebbe fatto male ma, certamente, qualcun’altro sarebbe morto. Il suo intervento sembrava richiesto dall’alto, dalla regia o da una voce fuori campo. “Arturo, fai qualcosa al più presto! Prima che quel pazzoide del Torre ceda alla ghiotta tentazione di spappolare il naso e la mascella di quell’incoscente che gli sta davanti”, si impose. Dallo sguardo che Arturo lesse sulla faccia livida del Torre capì che ormai era questione di secondi. Sarebbe bastata una mosca per far scatenare un putiferio e sporcare di rosso la terra del parcheggio impregnandola di sangue.

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 2)

Il Pizza avrebbe dovuto procurare la macchina ariete, “solida e robusta”. Avevano deciso che sarebbe dovuta essere “una di quelle con la carrozzeria tosta ed il motre di un trattore, tipo una Mercedes 200 degli anni ’90, una di quelle che anche se te la rubano non ti cambia la vita”, aveva detto il Torre. Con quelle parole il Torre non cercava un'attenuante al furto cui addurre una volta giunto al cospetto del Signore quanto piuttosto un vantaggio in termini di tempo. La denuncia avrebbe, probabilmente, tardato ad arrivare alla polizia giusto quella manciata di minuti che si sarebbero rivelati preziosissimi nell'economia del colpo.

Arturo aveva conosciuto il Torre ai tempi del primo riformatorio. Il loro primo incontro rimase scolpito nella memoria di Arturo come la data del suo compleanno. Il Torre finì dentro per aver taccheggiato, per diverse settimane consecutive, lo stesso minimarket del suo quartiere. Aveva cominciato rubando poca roba, due o tre confezioni di caramelle. Poi man mano che il gioco si faceva troppo semplice, alla necessità delle caramelle si sostituì quella di sfidare la sorte. Il primo motivo che lo mosse ai successivi furti fu il bisogno di appagamento che solo una scarica intensa di adrenalina sapeva regalare. L'azzardo del mettersi in competizione con la sorte. La sfida lanciata al destino lo faceva sentire grande, potente donandogli l'inpagabile sensazione di superiorità rispetto agli altri esseri umani. Dunque cominciò a sgraffignare anche oggetti dei quali, una volta fuori dal market, smaltita l'eccitazione e placato il brivido per aver violato un comandamento con la sua sola abilità, se ne sbarazzava gettandola nella spazzatura o regalandola ai suoi amici. Penne, quaderni, confezioni di caffè in chicchi, fazzoletti di carta ed altre futilità erano le preferite dal Torre. In preda al bisogno di osare sempre un pò più della volta precedente, un giorno, mentre il commesso era distratto ad asciugare l’olio di una bottiglia rotta, il Torre si avvicinò al registratore di cassa lasciato incostudito. Come prima cosa cercò invano di aprire il cassetto schiacciando a caso alcuni pulsanti della tastiera. Il cassetto non si aprì ma in compenso il registratore si mise a fischiare fastidiosamente. Allora il commesso, richiamato dal sibilo proveniente dalla sua postazione di cassa, voltò lo sguardo e vide il Torre che armeggiava attorno alla macchina. I loro sguardi si incrociarono. Il Torre vide lo stupore e la preoccupazione per quanto stava accadendo riflessa negli occhi del commesso. Il commesso invece si scontrò con uno sguardo felino che diffondeva un senso di sfida e consapevolezza della propria superiorità. Il Torre in un attimo, inpotente di fronte alla combinazione per aprire il cassetto delle banconote, prese l’intero registratore sotto braccio e si lanciò in uno scatto verso l’uscita. La fuga fu breve. Il filo di alimentazione del registratore non era più lungo di un metro e mezzo, ovvero, quei 2 o 3 secondi in cui il Torre credette di farcela. Quando il filo si tese al massimo della sua estenzione, il Torre, lanciato in corsa, d’un tratto avvertì uno strappo in tutto il suo fianco sinistro del corpo seguito da un immediato dolore lancinante. Il registratore ed il Torre si ritrovarono entrambe stesi sul pavimento in linoleum uno di fianco all'altro.

Il Torre era orfano di padre e, quella che avrebbe dovuto avere come madre, era in realtà solo 12 anni più vecchia di lui. Appena nato, sua madre decise di affidarlo alle cure dell’Istituto Antoniano Rogazionisti, dove crebbe rigoglioso ed ebbe modo di prepararsi al riformatorio. Il Torre, al secolo Anselmo, era il classico esempio di ragazzo “difficile”. Alla ragione ed alle discussioni, supportato da una natura clemente che a 13 anni lo dotò di 1 metro e 80 di statura, preferiva la violenza e spesso la prepotenza. Gli piaceva essere rispettato ed onorato da tutti i suoi compagni di sventura e ci riusciva a suon di scazzottate.

Il Torre, era incaricato di trovare il mezzo adatto alla fuga. Una macchina veloce, resistente e che non desse troppo nell’occhio. “Ci serve una BMW X5, una di quelle che nemmeno dio in mezzo alla strada riuscirebbe a fermare”, sentenziò il Pizza, “oppure una piccola scheggia del tipo Golf GT”, concluse.
“Senti, ma se tu sei così bravo ed hai le idee così chiare perchè non ci vai tu a rubarne una”, disse il Torre indicando con un indice inquisitoriamente teso il Pizza.
“Perchè? cosa credi? che rubare un carrettone di vent’anni sia più semplice? Torre, beato tu che non capisci proprio un cazzo...” ruggì con fare denigratorio.
Il Torre non lo lasciò nemmeno finire la frase che, con un tono della voce minaccioso come il cielo di autunno, coprì la voce del Pizza con “sai cosa ti dico! Che mi hai rotto le palle! e che se sei tanto bravo, fallo da solo il colpo e vaffanculo!”. L’ultima parte il Torre la ringhiò nervosamente in faccia al Pizza condendola con piccole goccie di saliva che nella foga andarono ad imperlare il tavolo della cucina di Arturo.
Il clima si stava scaldando troppo e, se è vero che due stupidi non ne fanno uno intelligente, Arturo si premurò di mettere fine alla diatriba con il suo potere carismatico. “Ehi ehi, ragazzi. Che cazzo vi succede. Tutti siamo nervosi, ochei, ma litigare per delle stronzate come queste è l’ultima cosa che ci serve. Ora mettiamoci tranquilli ed ognuno di noi faccia quello che sa di dover fare senza interferire con gli affari degli altri. Sono stato abbastanza chiaro?” domando retoricamente.

Mancavano due giorni al colpo e da quel momento Arturo aveva deciso “da ora al momento del colpo, nessuno di noi e per nessun motivo al mondo deve comunicare con gli altri. Intesi? Da adesso si comincia a giocare... quindi basta cazzate!"

Il Pizza non era cresciuto in orfanotrofio e non era mai entrato in riformatorio pur essendo orfano dei genitori e delinquente fin dalla nascita. La condizionale l’aveva sprecata di recente a causa di troppo leggerezze in piccole cose, ed ora, con gli altri, era alla ricerca del posto che gli spettava in società ma che, fino a quel momento, gli era sempre stato negato. Il Pizza, sino ai 16 anni di età, era cresciuto con la “sorella della madre” fervente cattolica, che però non ha mai chiamato zia, dopodichè, una mattina prese armi e bagagli e senza salutare o dir nulla a nessuno, cercò la sua strada. Se l’era sempre cavata in qualche modo. Spesso la fortuna lo aveva tenuto stretto accanto a se. Di espedienti ne conosceva in abbondanza. Sosteneva di essere un “self made man” nel senso che Si era fatto uomo da solo, senza aiuto e senza aver mai avuto qualcuno che gli tendesse una mano. Era molto orgoglioso della sua vita trascorsa e non accettava osservazioni o consigli da nessuno. Anzi, lo facevano prorio incazzare, “non ho mai avuto una madre che mi dicesse quello che dovevo fare e questo stronzo cosa fa? Vuol cominciare adesso senza essere nemmeno lontanamente simile a mia madre...”, era quello che vomitava addosso, rabbioso come un cane randagio, a chiunque ci provasse.

martedì 24 luglio 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 1)

La prospettiva per quella mattina non era delle più felici.
Un cielo color d’ottobre andino in una giornata di maggio padano era, a dir poco, fuori luogo come una confezione di panettone a Ferragosto in riva ad un affollato mare melmosamente torbido.
Dieci ore di ovattato sonno erano proprio quello che gli sarebbe servito, così come una donna, una macchina nuova ed un cane anche in ordine diverso. La sera precedente era uscito di casa con il proposito di bere un goccetto prima di abbandonarsi alle lenzuola ruvide di un letto sempre troppo spazioso.

Erano troppi anni ormai che conduceva una vita zoppicante, incerta, da poco, in saldo; proprio una di quelle vite che nessuno vorrebbe nemmeno regalata. La sua carrozzeria, all’alba dei quarant’anni, cominciava a mostrare segni di ruggine su ogni superficie ed il suo viso in particolare era sempre più segnato da lunghi solchi che lo tagliavano in lungo e in largo come graffi traccitai da un teppistello quattordicenne con la chiave del motorino. Le sue rughe erano ormai come certe grondaie ossidate e scure che si sporgono dalle facciate di qualche palazzo che visse tempi sicuramente migliori. Troppe erano state le notti trascorse parcheggiato sul trespolo ammuffito di un bar umido o quelle dimenticato lungo strade fredde e sporche.

Tutto era pronto. Tutto era stato minuziosamente programmato. Ogni eventualità vagliata. Si sarebbe trattato di provare, per l’ultima volta prima di un meritato ritiro dal crimine, quell’adrenalina e quello stato di agitazione che provò per la prima volta ventisei anni prima.

In quella circostanza, era entrato in un'edicola del centro per comprare, con i pochi spiccioli raccimolati nelle tasche della borsa di sua madre, un fumetto. Arturo era un fan sfegatato dei supereroi ed in prima fila, tra i suoi preferiti, alloggiava il grande Spiderman. Quel pomeriggio, una volta arrivato dinnanzi alla cassa dell’edicola, Arturo aveva, davanti a se, due persone in coda per pagare. In quell’attesa un qualcosa che solo successivamente descrisse improvviso come "il cane che picchia sul tamburo", scattò in lui. Un senso di frizzante benessere gli pervase d’un tratto il corpo. La mente prese a correre all’impazzata fantasticando su cosa sarebbe riuscito a comprare con quelle poche Lire risparmiate non pagando l’albo di Spiderman. Probabilmente sarebbe riuscito a prendere un gelato oppure un bel sacchetto di caramelle oppure un altro albo, magari quello di Hulk. Nei suoi occhi sgranati si rifletteva la luce asettica del neon sopra la cassa e nelle sue orecchie il brusio della città rimbombava prepotentemente. Tra le mani teneva un fumetto che aveva come protagonista un ragazzo all’apparenza del tutto normale, per non dire addirittura un pò sfigato, che nascondeva però dei superpoteri. Solo lui ed i suoi nemici lo sapevano. Quel ragazzo, un pò, lo disturbava e gli creava un senso di incomprensione. Lui, giovane, che con i suoi poteri avrebbe potuto fare tutto quello che avesse desiderato, nella vita comune, invece, passava sempre come quello più imbranato. Questo Arturo non lo condivideva. Da tempo pensava alla possibilità di incontrare per strada qualcuno che, insospettabilmente, sotto gli abiti civili, normali, celasse in realtà un'agilità da insetto, un'abilità da ninjia ed una forza mostruosa. “Magari anch’io possiedo dei superpoteri e non lo so, ma se trovassi il modo per utilizzarli farei…” e spesso si perdeva per ore a fantasticare su cosa avrebbe fatto, chi sarebbe diventato e via discorrendo.
Il sudore, in rivoli, cominciò a solleticargli la schiena ed il costato. I palmi delle mani erano scivolosi e freddi. Tutto d’un tratto, non rispondendo più agli impulsi volontariamente impartiti dal cervello al corpo, con una mossa tanto veloce quanto sospetta, con la mano sollevò la parte bassa della maglietta bianca dei mondiali ed adagiò, aderente all’addome umido, la copertina del fumetto. Nessuno pareva averlo notato. Ora aveva davanti a se solo una signora intenta a cercare le monetine per pagare la copia di Famiglia Cristiana e dell’Avvenire. Sempre guidato da una forza a lui estranea, Arturo con una camminata innaturale e con i lineamenti del volto tesi, si diresse verso l’uscita scansando la signora e, senza pagare, si buttò nel Corso. Man mano che si allontanava dall’edicola, dentro di lui, quel senso di appagamento e di benessere che solo negli anni successivi imparò a procurarsi, montò sino a raggiungere livelli mai provati prima. Non si voltò mai a guardare dietro di se ma il suo orecchio, per qualche decina di metri ancora, restò teso nel tentativo di percepire il benchè minimo segnale di allarme. Le gambe erano dure e cariche di dinamite. A qualunque avvisaglia di pericolo, Arturo avrebbe acceso la miccia e si sarebbe lanciato in una corsa supopersonica lasciando la gente esterefatta e gli inseguitori con un pugno di polvere.
Ormai era lontano dall’edicola, abbandonò il Corso per imboccare un viottolo più isolato e meno affollato sulla sinistra. Sul suo viso si delineò un sorriso compiaciuto e complice di se setesso. L’adrenalina, ormai raggiunto il livello massimo, lo fece sentire invincibile, unico, mitico, eroico. Quando la sua esaltazione accennò a diminuire, avvertì il bisogno di gustarsi tutto il piacere della refurtiva. Camminando verso i girdinetti, dentro di se si ripeteva “sono un ladro, ho rubato e non se ne è accorto nessuno. Sono il migliore...” ed in un crescendo di autocelebrazione, inconsapevolmente fece ingresso nel variopinto mondo dell’azzardo votandosi al crimine.

Il tutto si sarebbe svolto in tutta tranquillità in una manciata di ore.
Adesso si trattava solo di attendere che il tempo facesse il suo corso con la stessa continuità e costanza tenuta sino a quel momento. Doveva rilassarsi e liberare la propria mente. Sulla testa avvertiva tutto il peso dell'importanza di quanto stava per accadere.
"Faber est suae quisque fortunae" si ripeteva meccanicamente ignorandone il concetto più profondo.

mercoledì 18 luglio 2007

Jim Morrison, Dean Moriarty e Arturo

Jim Morrison, tutti sanno chi è.
Neal Cassady, un pò meno (paradossalmente i più lo conoscono come il grande Dean Moriarty).
Arturo, quasi nessuno lo conosce.

Arturo, tra i tre, è l’unico che potete, ancora oggi, incontrare per strada od al pub. Quindi affrettatevi.

Ho sempre vissuto all’ultimo piano delle case o dei palazzi in cui ho abitato. Ho sempre sofferto un caldo boia d’estate. Mi sono sempre lamentato delle almeno 14 rampe di scale quando non c’era l’ascensore.
Oggi sono nella mia nuova casa (la 4° in due anni). Abito al sesto piano di un palazzo di sei piani senza ascensore. Anche stavolta è l’ultimo. La domanda mi sorge spontanea nonostante faccia di tutto per soffocarla col proprio cordone ombelicale e farla passare per una semplice e tragica “morte bianca”. Ha la meglio lei, come sempre.
“Ma sono masochista/coglione o non mi fido del mio istinto?”.
L’unica cosa che so è che una volta, quando mi si proponeva una scelta tra A e B, la decisione che travagliatamente prendevo, alla fine, si rivelava essere sempre o la più difficile da percorrere o la più sbagliata. Col tempo ho imparato a pensare ed a scegliere. Come uno che ha l’orologio avanti di 7 minuti e lo sa. Arriverà sempre e comunque in orario, ammesso che lo voglia. Quindi tirando le somma, se il mio istinto sembra spingermi verso l’appartamento del 2° piano piuttosto che quello del 6°, senza pensarci una volta di troppo, nuoto salmonescamente controcorrente e propendo per la scelta che meno mi ispira confidando di aver preso la decisione migliore. Ancora non mi sono pienamente convinto ma nel dubbio, persevero.

Leggere mi fa venire sonno ma mi piace. Per fortuna anche dormire mi piace. Ovunque, proprio come leggere.

Ieri mi sono svegliato in una sindone di sudore ed in preda ad un miraggio. Per il caldo che arroventava la mia camera in particolare, sono certo che non si trattasse di un sogno bensì di un vero e proprio miraggio. Il caldo di questi giorni si è fatto largo a gomitate nella mia vita e saltando la lunga coda di impegni che avevo, mi si è piazzato davanti insistentemente in prima fila come un abbonato Rai. Nell’arco della giornata non riesco più a pensare ad altro che esuli dal “come sconfiggere o almeno sopportare il caldo”. Niente più sogni erotici la notte, meno birra durante la giornata, spossatezza e secchezza delle fauci. Se stessi assumendo farmaci potrebbe non essere altro che un semplice effetto collaterale od una mia intolleranza alla sostanza. Basterebbe smettere di prenderlo e tutto svanirebbe in pochissimo tempo, come la nebbia in luglio alle 5 di mattina.
Il senso di impotenza che il caldo mi infonde genera automaticamente insicurezza in qualunque cosa faccia, e se non l’ho ancora fatta, mi toglie addirittura la voglia di cominciare. Cercando il lato positivo di questa tragicomica situazione, potrei almeno dire che, da quando si muore di caldo, non lascio più nulla di incompiuto.
Ieri mattina, fradicio come un presentatore in frac sotto i riflettori in uno studio televisivo, avevo un solo unico desiderio talmente bramato da assurgere al ruolo di vera e propria necessità.
Dovevo assolutamente bere.
Lucido come mai mi capita di esserlo appena sveglio, con una razionalità che sfiorava l’assoluto, mi sono precipitato, evitando gli occhiali accanto al letto che in altre circostanze avrei sicuramente schiaccito –ed a piedi nudi, spiace, certo per gli occhiali, ma anche per la propria incolumità-, in direzione della cucina. Ho percorso a velocità sostenuta il corridoio in penombra, saltato l’infingardo scalino che per la monocromia del klinker si rende impercettibile ed in derapata a sinistra mi sono immesso in cucina. Quando sono talmente vicino al raggiungimento di un obiettivo, spesso mi capita di assaporare già il piacere della soddisfazione ancor prima di averlo fatto, abbandonando la dedizione. Ieri mattina tenevo la leva del frigorifero stretta nel palmo della mia mano destra viscida e, pavlovianamente, l’arsura alla gola, il caldo insopportabile ed il sudore bollente che mi ricopriva il corpo, altro non erano che un lontano ricordo, solo una sensazione da tempo lasciata alle spalle. Un brutto ricordo che, con la stessa velocità con cui lo avevo lasciato, nel medesimo istante mi si è fiondato addosso con una intensità almeno quadruplicata quando, aperta la porta del frigo, l’unica cosa liquida che riuscivo a vedere era la salsa scura ed oleosa di soia. Non nascondo che, lì per lì, in un nanosecondo, mi è balucinata l’idea –che si sarebbe sicuramente rivelata mortale- di dargli un sorso. Con la stessa ascetica difficoltà con cui un uomo vivo ed eterosessuale riesce a trattenersi dall’espletare un bisogno tanto primario quanto per l’appunto bere, ho cacciato dalla mia mente con una tale fermezza che mai avrei creduto di possedere, l’idea di dissetarmi con salsa di soia. In quella situazione tragicissima che non auguro a nessuno se non per scopi scientifici, ho cominciato a perdere sicurezza in me stesso. La mia prima reazione alla visione del frigorifero vuoto non è stata accettare l’oggettività della situazione bensì mettere automaticamente in dubbio la capacità del senso che mi impedeva di vedere la bottiglia dell’acqua: per l’appunto la vista. Era talmente tragico e sconcertante quello che stavo vedendo che inconsapevolmente lo spirito di sopravvivenza mi ha spinto a soccorrere la vista deficitaria con la concreta obiettività del tatto. Con le mani che si muovevano fuori dal mio controllo, in spasmodiche roteazioni ed affondi, stavo man mano perdendo fiducia anche in quest’ultimo senso. Me ne restavano solo altri tre. L’olfatto, il gusto e l’udito, purtroppo, non mi sarebbero potuti essere d’aiuto in alcun modo. Senza vagliare altre possibili soluzioni, ho cacciato spontaneamente un urlo animalesco che, con la bocca impastata reduce dal sonno, aggiungeva ancor più inutilità alla tragedia. “Cazzo, l’acquaaaaaaaa!”. In una serie talmente ravvicinata da poter sembrare sincronizzata, frutto di mesi e mesi di allenamento e rinunce, ho avvertito il classico ed inconfondibile rumore delle doghe in legno su struttura in ferro dei letti IKEA dei miei coinquilini, scricchiolare. Poi, quasi all’unisono, hanno risposto alla mia non domanda
“è finita”.
Subito mi è venuto spontaneo pensare “e se invece di esserci io, qui a morire di sete, ci fosse uno di quegli stronzi, mi sarei alzato per supportarli nella condivisione del dolore o magari, addirittura, mi sarei offerto di andare a prenderla?”. La risposta che automaticamente e quasi marzullianamente mi ha fatto eco nalla testa è stato un triste e secco
“NO!”
Nonostante questo ho pensato ugualmente
“che coinquilini stronzi che mi ritrovo”.

Questo è quanto avrei potuto risparmiarvi in quanto pertiene marginalmente alla riuscita della storia. Ma, essendo ancora incazzato con i miei coinquilini, mi sfogo con voi proseguendo.

Ieri mattina, appena recuperate le forze necessarie per mettere in moto un’azione fisica del tipo andare-alla-PAM-a-prendere-una-cassa-d’acqua, e tutto quanto si cela dietro –vestirsi e prendere i soldi-, mi sono fiondato a rotta di collo giù per le scale arroventate del palazzo in preda ad una vera e propria crisi di astinenza dal vita.
Fortunatamente la PAM si erge, nel suo inconfondibile stabile verde, l’isolato dietro il mio. Le strade sporche e deserte con il cielo azzurro e silenzioso creavano uno stato di irrealtà tale da spingermi a guardare l’orologio in cerca di qualche certezza o conferma.
8.35.
"Già, è agosto" ho pensato "ed alle 8.35 sono pochi gli sfortunati in giro per una città arroventata. È normale".
Con questo pensiero, per una seconda volta in pochi minuti, quando ormai davanti ai miei occhi vedevo la sagoma con il rassicurante verde della PAM –"solo ora capisco perchè il verde sia un colore che abbonda negli ospedali: infonde speranza"- cominciavo già a provare la sensazione di benessere autoindotto che, memore della precedente esperienza, in tutti i modi, cercavo di combattere. Ormai pochi passi mi separavano dalla porta d’ingresso a vetri scorrevoli ed in quel momento ho ceduto alla tentazione troppo forte di sentirmi appagato e paradossalmente rilassato. Quasi provavo la stessa sensazione che, solo un’altra volta nelle mia vita, mi era capitato di sperimentare. La prima volta che, dopo essermi iscritto all’AVIS, ho donato sangue, dopo che l’infermiera mi ha infilato l’ago nella vena, probabilmente per la mia suggestione nei confronti degli aghi, una dolce leggerezza ristoratrice mi ha pervaso il corpo qualche attimo prima che mi abbandonassi ad una estatica perdita dei sensi.
Giunto davanti alla porta, come Alì Babà se, davanti alla roccia, avesse sbagliato la frase magica, nulla succedeva. La porta davanti a me opponeva una inspiegabile resistenza. Non voleva aprirsi. Mentre dentro mi stava montando un senso di malessere otto volte più acuto del precedente, come un circense bulgaro od un mimo da strada, facevo mille mosse davanti alla fotocellula cercando forse di commuoverla ma inspiegabilmente non voleva cedermi il passo. Il mio malessere montava come la maionese impazzita e si diffondeva in ogni meandro del mio corpo. Il pizzichìo alle punte delle dita, indistintamente di piedi e mani, saliva man mano, rispettivamente per gambe e braccia. Il sudore improvvisamente si arrestava per lasciare spazio ad una sensazione mortale di aridità alla pelle. Il tutto era condito da un senso di leggerezza che mi pervadeva pian piano che il formichìo passava...

Mi sono svegliato pochi minuti dopo, seduto su uno sgabello al bancone di un bar con in bocca un sapore amaro e familiare. Il buio la faceva da padrone sulle poche luci accese e soffuse dietro al bancone.
“Merda, stavolta l’abbiamo presa pesante!” mi dice una voce familiare quanto l’amaro che avevo in bocca.
Con la testa appoggiata, i miei occhi, in verticale sul mondo, vedevano un bicchiere quasi vuoto messo in orizzontale con uno sfondo sfuocato in cui si riconosceva solo la faccia di Arturo.
“hai dormito quasi due ore che credevo fossi morto” si trascinava dietro le parole come un bue stanco un aratro.
“spero non ti sia offeso se ti ho finito la birra, sai, si sarebbe scaldata e sgassata”. In effetti sarebbe stato uno spreco.
Di sottofondo frusciava una versione mal registrata, sicuramente su cassetta, di Shaman's Blues dei Doors
"Will you give another chance?
Will you try a little try?
Please stop and you'll remember
We were together
Aanyway..."

Con grandi difficoltà di equilibrio e dei nervi del collo ho raddrizzato il capo e dietro il muso del Giec, il barista, campeggiava, in un bella grafia palesemente femminile, la trascrizione del pezzo migliore di On the Road
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”
”Dove andiamo?”
”Non lo so, ma dobbiamo andare”.


Ho capito dove ero e mi sono trascinato a casa.