domenica 31 agosto 2008

Microonde

In famiglia nessuno ha mai saputo cucinare. Il microonde ed alcuni cibi precotti sono state le migliori innovazioni nella nostra cucina minimalista. Anche nell’arredamento. Niente era mai fuori posto. O forse mancava. Non ho idea di come si pulisca un branzino al sale. Non ho nessuna posata particolare, strana. Il ristorante mi affascina. Misterioso come le notti senza luna. Spesso faccio delle pessime figure. Le ragazze mi trovano tenero. Per questo le porto fuori a cena. E pago sempre io. Prendo piatti sempre più difficili. Non disdegno crostacei e cacciagione. Sporco sempre sia la tovaglia che il tovagliolo steso con troppo contegno sulle mie gambe. Spesso considero più conveniente pulirsi la bocca nella tovaglia. So che non lo devo fare e quindi non lo faccio.
Deglutisco.
Ungo sempre il bicchiere. Ed in quei momenti sorrido. E scopro il mio fato per la serata. La mia palla di cristallo è un bicchiere di vino rosso che male accompagna un secondo di pesce.
Anche Cristina sorride. Ed è proprio come quei giorni prima delle vacanze in cui si legge promosso accanto al proprio nome. Quando poi si parte per un lungo giro trionfale e ci si sente più grandi. Improvvisamente.
Cristina l’ho conosciuta da poco. Amica di amici che non conosco. Dante e Beatrice. Dante dev’essere quello che è stato alle superiori con lei Beatrice la fotoreporter. O forse mi confondo.

Facciamo un salto indietro. A quand’ero grasso. Quando non facevo niente se non girare la manopola dei secondi del mio forno nero Wirlpool con funzione crisp. Avevo 13 anni ed uscivo poco. Passavo i pomeriggi ad inventare personaggi che non conoscevo e che mi avrebbe aiutato conoscere. Gino il camionista. Danny la ragazza delle superiori. Mike il duro. Don Perignon il mio amico nobile.
Facevo la terza media ed ero l’unico ad ignorare il sapore del tabacco, a non essersi mai battuto e a non avere avuto mai una insufficienza in matematica. Era come non esistere.
Niente.
Nessuno.
Francesco era il campione del basket e lo conoscevano tutte le ragazze delle altre sezioni, Gennaro, detto il terrone, era il suo grosso braccio destro. Lo seguiva ovunque. Abitavano nello stesso palazzo. Poi c’era Luca che aveva un fratello grande all’estero, Giulia la bionda, Marco lo sfigato, Mimmo il butterato.
Mi sarei cambiato anche con lui. Lo prendevano tutti in giro. Ma almeno sapevano il suo nome. Anche se spesso lo chiamavano brufolo. O pus.
Invece niente.
Scrivevo sul banco e nessuno se ne accorgeva. Rubavo i gessi prima di uscire all’intervallo e li gettavo nel cesso. Le mie mani sporche di bianco passavano inosservate e qualcuno veniva mandato a recuperare dalla bidella dei gessi nuovi.
Rigai anche la macchina del preside Laurenti (uomo affabile, alto, dorico e calvo). Ma la colpa se la prese Gennaro. Che l’aveva fatto 5 minuti dopo di me.
Rivedo la scena.
Dopo l’intervallo del mattino. Eravamo in aula e c’era lezione di tecnica. Quella col professore che sputava con le parole dai baffi spessi e sporchi di sigaro. Io non ascoltavo. Cercavo solo di essere sulla pagina giusta. Non ero il solo a sudare: era maggio avanzato. C’era l’odore delle frutta troppo matura, marcia. Quella che mi spiegheranno poi essere la pubertà.
Entrò Stefania. La coordiatrice di cui segretamente ero innamorato. Con cui segretamente ho avuto una storia inventata. E probabilmente anche qualche figlio. Certamente biondo come me. Si diceva tenesse un vibratore nella borsetta. Qualcuno aveva spiegato cosa fosse tenendo una lezione nell’intervallo. Usando il viale ghiaioso come lavagna. Disegnando un cazzo stilizzato. Come quelli che c’erano sulle piastrelle del bagno.
Comunque.
Comunque entrò Stefania con la sua scia di capelli neri-quasi-blu. Non bussò. La faccia tesa. Severa.
Disse che era successo un fatto increscioso.
Capii subito a che si riferiva.
Disse che qualcuno era stato veramente oltraggioso e non l’avrebbe certo passata liscia.
Mi sentii orgoglioso.
Disse che il preside doveva fare due chiacchiere con Gennaro. E lo guardò torvo.
Mi avevano derubato.
Niente fama e popolarità.
Niente.
Passai il pomeriggio con i miei amici immaginari a pianificare la conquista del mondo. Avremmo utilizzato il camion di Gino. Su quello non c’era dubbio. Gennaro sarebbe stato preso prigioniero. E gli avremmo messo una maschera che nessuno lo avrebbe più riconosciuto.
Quel ciccione.
Il giorno dopo c’era ancora il sole. E il caldo. E Gennaro era più famoso di prima. Forse tanto quanto Francesco.

Poi sono cresciuto.
Sono dimagrito.
Di quel periodo mi rimane una buona scorta di fantasia. Ed una grande varietà di nomi. Il più strano è Arsace. Che è un nome da uomo.

Il cameriere mi chiede se desidero un dolce.
“Il signore desidera un dolce?”
C’è odore di aria finta da condizionatore. Con retrogusto di plastica. Sterile.
Prendo il solito sorbetto al limone con ciliegia in immersione.
Cristina prende una crema alla mela verde e cannella.
La stoffa della sua camicia sembra liscia. Probabilmente è seta.
Mi chiede di Dante. Forse mi ha già incontrato con lui.
Forse.
Non ho per caso un Burberry Blu?
No.
“Certo” le dico.
“Allora eri tu!”
“Allora ero io!” sentenzio lanciando il tovagliolo macchiato a coprire altre macchie sul mio lato di tovaglia.
Il tavolo è tagliato in due dalla mia goffaggine.
La lascio parlare.
“Mi sembravi più basso”
Lo prendo come un complimento.
“E non parlavi molto”
Cerco di fare uscire la ciliegia dal flute senza far strabordare il sorbetto. Non riesco.
Lei sorride. Paziente.
Ora il problema è sputare il nocciolo senza dare nell’occhio.
Ci penso. Questa situazione devo averla vissuta. C’è sicuramente una risposta giusta. Come ai quiz in televisione.
Lei è composta. Il suo lato del tavolo immacolato. Quasi riutilizzabile. Il tovagliolo ha ancora i segni composti delle pieghe. Capace che odora ancora di lavanderia. O ammorbidente casalingo. Tipo Bolt.
Decido di ingoiare il nocciolo. Lo accompagno con un sorso d’acqua versata nel bicchiere sbagliato.
Cristina sembra non accorgersene. Continua a parlare.
Il suo sorriso è senz’altro la cosa che mi ha colpito per prima. Riesce a frapporlo tra una frase e l’altra. Mi fa sentire interessante. Con qualcosa da dirle. Concretizzare un pensiero in questi momenti è catastrofico. Penso: qualcosa di bello, Maicol dille qualcosa di bello.
Mi viene in mente una bomba che esplode.
Teste mozzate.
Sangue.
Morte.
Niente.
Lei ha smesso di parlare dopo che io ho smesso di ascoltare. Forse aspetta una risposta.
Temporeggio giocando col tovagliolo.
Le macchie sembrano muoversi. Disporsi secondo un disegno.
Lei continua a fissarmi.
Dille qualcosa di bello.
Gonorrea.
Inizio incerto. Vorrei raccontarle di quanto è stupenda. Che il solo saperla lì con me, ad elemosinarmi un po’ del suo tempo, mi basta. Che non voglio altro. Nemmeno il caffè.
Ci provo, e suona anche molto naturale.
Non accenno al processo di rimozione della pelliccia dai procioni.
Sorrido.
Si avvicina il cameriere.
Mi domanda se desidero altro.
“Il conto” dico con sufficienza. Imitando qualche film che non ricordo. Probabilmente con Tom Cruise.
Scompare.
Rimaniamo io e lei.
Nient’altro.
Nessuno.
Poi mi trovo a pagare il conto al solito più basso di quel che mi aspettavo.
Ed esco.

domenica 24 agosto 2008

Mattina molto presto (prima che suoni la sveglia)

Piacevolmente considerai che mi rimaneva ancora più di un’ora di tempo da dormire prima della sveglia. La clemenza dell’estate pareva più una avvisaglia d’autunno. Il vento soffiava sempre da sud. Dritto sulla finestra del bagno che si muoveva sui cardini incerti, ballando come su un vinile rovinato. Sopra di me c’era ancora il rassicurante soffitto appena imbiancato da Rocco. Le pale del lampadario ferme, le coperte disordinate come i petali di una rosa blu sfiorita. L’aria aveva lo stesso odore inconsistente e finto.
Passò un minuto. Si spense una luce rossa nella sveglia e se ne accesero altre. Come nel conto alla rovescia a capodanno. Solo senza vischio e spumante.
Mi rigirai sul materasso troppo economico per essere comodo.
Fuori scorreva qualche auto. Tesi l’orecchio. Capace che passava anche la raccolta dei rifiuti col suo gracchiare robotico.
“Mica male” mi dissi.
Stefania si mosse.
Trattenni il respiro.
Lei mi guardò attraverso per un secondo. Poi distese la fronte.
Il petto le si muoveva in alto ed in basso come se qualcuno le avesse infilato una pompa in culo e soffiasse ed aspirasse.
Controllai.
“Piantala!” disse girandosi di spalle.
Ascoltai un po’ il mio respirare sghembo poi riaddormentai.
Sognai di essere rapito dagli alieni.
Poi suonò la sveglia.