mercoledì 31 gennaio 2007

Lui, L'altro e l'erba del vicino

Arturo era passato dalla valeriana alla cocaina con la stessa velocità con cui Guido era passato dalle prostitute ai travestiti, il 20 lungo via Irnerio ed alla stessa velocità con cui la cometa di Halley si rese visibile dalla terra nel 1986.

I cinesi fumano tanto, sputano catarro e siedono sui talloni. Io vesto in giacca e cravatta, lavoro in un grattacielo e bevo il caffè alle undici. Qualcosa in comune, però, l'abbiamo: entrambi facciamo qualcosa di schifoso!

Era freddo ma nessuno se ne curava.
Erano partiti in quattro per fare la serata, ma all’1,30, nel locale che da su Largo Respighi erano rimasti solo in due: Lui e L’altro.
Guido si era congedato millantando un fastidioso mal di testa mentre Arturo accennando ad un fantomatico incontro con una ex modella lituana, sua carissima amica, tornata in Italia per trascorrervi una breve vacanza.

Guido ed Arturo, oltre che per i loro vizietti, erano anche noti, all’interno della ristretta cricca di amici che frequentavano assiduamente durante il fine settimana, per l’enormità e l’incredibile frequenza con cui raccontavano fandonie, balle.
Guido sin da piccolo, aveva sempre avuto un debole per la bella vita, nutrendo ammirazione per tutta la gente che, in un modo o nell’altro, conduce una vita agiata ostentando a destra ed a manca il proprio “status privilegiato”. Provenendo da una famiglia normalissima, come può essere la mia o la tua, già in giovane età, a causa anche della sovrabbondanza del proprio Ego, in qualunque discorso emergesse un particolare in grado di catalizzare l’attenzione dei suoi amici, Guido ne usciva dicendo con voce impostata e tremendamente ferma “...si, ma che accelerazione vuoi che abbia un Porsche da 235 cavalli... io quest’estata ho fatto un giro con la macchina da formula 3 di mio zio,... guidava lui, eh... quella si che può essere chiamata accelerazione...!”. La sua faccia tosta gli permetteva, se subito dopo si passava ad un altro discorso, di affermare “credetemi, io di incidenti e di gambe rotte ne ho viste veramente tante... ma, Sergio, non venirmi a dire che per quel taglietto lì ti hanno dato tre punti!?... allora guarda quì...” ed alzandosi una gamba del pantalone sino al ginocchio, dove un leggerissimo segnetto bianco si distingueva appena sotto la rotula, “...questo sì che si chiama taglio. Pensa che quando sono entrato al pronto soccorso, le infermiere mi volevano fare un’anestesia totale per non farmi sentire il dolore,... ma io non ho voluto...” e così continuava passando di argomento in argomento con la facilità e l’agilità di un pilota di trial. Lo zio di Guido aveva avuto tutte le macchine sopra i 400 cavalli, tutte le razze di animali più o meno esistenti dai caraibi alla tundra (arrivò, da piccolo, persino ad affermare che suo zio rifornisse di renne Babbo Natale!!), era stato in tutti i posti più reconditi del mondo e, perchè no, si era fatto la maggior parte delle modelle che passavano in televisione “... perchè, non ve lo avevo mai detto che mio zio è uno stilista?!”. Sin dall’adolescenza, quello che usciva dalla bocca di Guido veniva prima diviso per due, poi messo sotto radice in modo tale da arrivare a coglierne quel poco di vero che nascondevano!

Arturo, diversamente, ha sempre manifestato una grande passione per tutto quello che concerne l’alterazione dello stato della psiche umana per assunzione di sostanze psicotrope. A quattordici anni, durante la sua prima esperienza estiva da solo con amici, in riviera era stato fermato dalla polizia in possesso di pochi grammi di hashish e la vacanza finì subito. A diciassette anni ci fu la scoperta del mondo sintetico degli acidi ed a diciannove della cocaina. Adesso aveva 28 anni e vantava uno dei curricula più “completi” dell’intera provincia.

Inutile approfondire i profili di questi due personaggi che, in quello che sto per raccontarvi, svolgono solo un ruolo marginale, fanno solo una comparsata, peraltro già finita!

Lui e L’altro, quasi stupiti, e forse infastiditi dalla inusuale resistenza dimostrata da Guido ed Arturo (solitamente non si spingevano oltre la mezzanotte), decisero che avrebbero finito in due la serata, festeggiando e brindando con rum chiaro alla notte scura e fredda. La macchina era rimasta a casa, le chiavi ben salde al portachiavi e gli ultimi soldi rimasti già nelle sicure mani del grande Giec: l'unico barista che non faceva pesare la barriera del bancone. Lui e L’altro si conoscono da anni e da anni parlano degli stessi argomenti con l’entusiasmo e l’interesse della novità.

Quella sera, l'alcol in corpo cominciava a farsi largo tra i pensieri come i fari di una macchina fendono la nebbia fitta della pianura. I discorsi si erano via via adeguati alla circostanza e la circostanza era stata man mano influenzata dal loro stato d'animo. Finalmente adesso erano dove volevano essere; tutto quello che li circondava ed in cui erano immersi aveva forme morbide come i rumori filtrati dai doppivetri e gli spigoli smussati come i monotoni colori grigi di una giornata d'inverno. Il domani era già cominciato da un pezzo ma ancora lo si vedeva lontano quanto lo è la mattina del 22 giugno o la prima stazione di servizio quando si rimane senza benzina in autostrada. Le parole cominciavano a gonfiarsi in bocca come mollica di pane e farle uscire senza averle prima masticate un pò di volte risultava difficile come un parto plurigemellare in taxi. Nelle loro teste, fra i loro mille pensieri aggrovigliati regnava una coerente logicità ed una chiarezza che in altre circostanze non ricodavano di possedere. Quello era uno di quei momenti in cui Lui e L'altro non appartengono più al mondo in quanto è il mondo che, prostrato ai loro piedi, gli appartiene. Loro si trovavano fermi al centro di un qualcosa attorno al quale tutto gravitava; la ragione.
"... tu sbagli, mio caro, tu confondi termini e confetti..." ne uscì Lui alL'altro.
Ormai, il tempo e lo spazio costituivano due condizioni insufficienti e non necessarie.
"Carlo mi ha detto che ci ha trovato un posto dove inscenare il nostro pezzo, gliene ho parlato e mi è sembrato ben impressionato..."
"Ochei, ma chi è Carlo?"
"Massì, Carlo..."
"Ah, Carlo, l'amico di Roberto?!"
"E chi è Roberto, oltre ad essere l'amico di Carlo?"
"..."
Ma, soprattutto il tempo, anche quella sera, si rivelò l'unica variabile difronte alla quale nulla poterono se non arrendersi senza condizioni, quando dalla bocca di Giec uscirono queste poche parole "ragazzi, adesso mi spiace ma sono le quattro e mezza e, se permettete, me ne vado a letto!".

Carlo, quella sera, stava già dormendo e Roberto aveva il cellulare spento.

martedì 30 gennaio 2007

prosciutto

mirko aveva sempre odiato il suo nome con la stessa intensità con la quale si odiano i pezzi di prosciutto rimasti incagliati tra i denti. succede sempre con i panini del buto. noto bar del quasi centro che, per la sua posizione incagliata tra una strada senza uscita ed un vialetto percorribile solo a piedi, è un lusso di pochi eletti. è uno di quei posti dove tutti si conoscono. dove girano sempre le solite facce e quelle nuove vengono inserite presto dietro un bicchiere di rosso od una gassosa. nell'aria c'è odore di salume, vino e consumate carte da briscola. qualche volta la musica di radio san luchino viene interrotta per il telegiornale "sul primo". si commentano poi tutti assieme le notizie con premesse tra il bolscevico e il campanilismo da ancient regime. è un di quei luoghi non toccati dall'inflazione degli anni novanta e dall'avvento dell'euro. nessuno capita per caso giacchè, proprio all'inizio della ricordata strada chiusa, abbagliano i neon del modernissimo cafè sol. questo offre cocktail selezionati, cameriere avvenenti e copioso buffet nelle ore dell'aperitivo. di converso franco non offre un cazzo, pero' segna. ha un libro con pagine e pagine di pagherò. gino è il primo della lista con i suoi 1003 euro tra prosecchi e brustulli. i suoi pagamenti hanno la puntualità degli orologi del dixan e c'è una scuola di pensiero, corroborata da abbondanti scommesse, che vede ormai prossima la data del fatidico "to' mo'" a chiudere la questione. il vecchio salda il debito almeno una volta all'anno e capitò nel duemilaquattro indovinassi esattamente il giovedì nel quale un pugno di euro stropicciati sul bancone coincisero con l'eliminazione, seppur temporanea, di gino dalla colonna dei morosi. con i duecento euro vinti pagai un paio di bottiglie di lambrusco poi, all'ora di chiusura, inciampai su mirko. prima che cambiasse nome.

giovedì 25 gennaio 2007

i miei denti

Mi sono visto nello specchio e, prodigandomi in un finto sorriso, sono giunto alla conclusione: ho i denti gialli.

Non fumo, non bevo caffè, me li lavo tre volte al giorno. Non mi spiego come sia possibile.
Con l’unghia del mignolo, come Tommaso davanti a Gesù, ho voluto vedere se quello che lo specchio riflette corrisponde alla realtà. Ho provato a calcare un poco passando l’unghia sull’incisivo superiore destro e con grande stupore ho avuto la comferma: ho i denti gialli.

Probabilmente, come insegna Ivan Petrovič Pavlov, per un riflesso più o meno condizionato, ho cominciato a passare in rassegna tutte le mie azioni routinarie in cui, in qualche modo, sono coinvolti i miei denti.
Faccio colazione appena sveglio e subito dopo mi lavo i denti con il dentifricio dell’Antica Erboristeria sbiancante alla salvia e bicarbonato. Questo dovrebbe essere un punto a vantaggio dei denti!
In ufficio non bevo altro che acqua naturale.
Dopo pranzo, mi lavo subito i denti con il dentifricio che l’ufficio mette a disposizione. È Durban’s ultrasbiancante; sul tubetto viene consigliato ai fumatori incalliti e dunque ingialliti...! Due a zero per i miei denti!
Durante il pomeriggio, come nel mattino, vado ad acqua come una pianta.
La sera ceno e prima di andare a letto mi ripasso tutti i denti con estrema meticolsità (sino agli ultimi e più difficili da raggiungere) sempre con il dentifricio alla salvia e bicarbonato. Tre a zero per i miei denti.
Una vittoria meritata e tutto sommato conquistata con facilità.
Non avevo mai fatto caso all’attenzione che dedico quotidianamente alla mia igiene orale. Devo ammettere che ne vado fiero. Una sana abitudine inculcatami da piccolo, che non mi comporta grande impegno. Quasi quasi mi viene da pensare al lungo periodo (noncurante dell’affermazione di John Maynard Keynes: "In the long run we’re all dead”!); “chissà che con questa paziente attenzione e cura della salute dei miei denti, tra 20 o 30 anni non riesca ad avere ancora i miei denti in bocca e qualche migliaia di euro in più in tasca, anzichè una protesi dentaria omologata!”. In questo momento un’immagine bruttissima mi passa davanti agli occhi: un viso, che potrebbe essere il mio tra qualche anno, sfoggia un sorriso candido e smaliante, semplicemente artificialmente perfetto.
Con un brivido che mi percorre per il lungo l’intera schiena, mi distolgo da quella raccapricciante visione e mi precipito a controllare i miei incisivi superiori.
Tiro un respiro di sollievo quando noto con rassicurante piacere che, al centro tra i due denti, la sbeccatura è ancora presente ed il loro colore ancora giallo.

mercoledì 24 gennaio 2007

serie di persone che poi muoiono

marco è uno stronzo.

francesco scrive sui muri.

giovanna è una prostituta italiana, una delle poche rimaste. deve tutto a gino e ai suoi amici camionisti la sua competitività nel liberismo dell'illegalità. non sa se temere od auspicare l'apertura della comunità europea ad est. l'università non le chiarisce certo le idee. l'università fa cagare come il caffè, le prugne sunsweet della california ed, ovviamente, farmaci a tal fine preposti.

patrizia ha un cancro ai polmoni in matastasi, io un brutto raffreddore.

la vita è strana: più dei geyser e delle formazioni calcaree, più della disposizione delle piramidi egiziane, più delle domande nei quiz che precedono i telegiornali. il fato è imprevedibile come una palla matta. poi, a volte no.

marco è ricoverato all'ospedale maggiore dopo una lite con irascibili buttafuori davanti al soda pop. c'entra una bottiglia rotta.

francesco ha finito il liceo artistico e perde il suo tempo all'accademia delle belle arti. un giorno una dose tagliata male lo spegnerà.

giovanna è morta di aids senza mai laurearsi ne capire un cazzo di economia.

patrizia ha perso tutti i capelli per la chemioterapia e presto tratterrà il sottile respiro.

io mi sono soffiato il naso.

mercoledì 17 gennaio 2007

una formica

sollevare il mignolo assaporando un caffè solubile dal suo bicchiere in plastica marrone.

luna park

franco e' stato il mio ultimo pesce rosso. prima di lui ci sono stati: fernando, ernesto, felice (ribattezzato vetusto), osvaldo, gippo, kripton, evelina, nostradamus, marcovaldo, luna, gesu', pamela, antonia (nota ai più come flash), moana, sutto, bettola, matteo, sonno, jasmin, pippo (il cui vero nome era filippo II), filippo, geraldo, peter parker, nintendo, caccolo, catullo, sara, giovanni, squalo II, furbo, scaltro, squalo, pasqua, ermanno, campari, tre pinne (detto storpio), red, figo, sabrina, dio, pesce rosso, pesce, fluffy, dribbling, flipper, nettuno, diana (come mia nonna), goku, johnny, david.
nonostante tutto non ho mai avuto alcun tipo di passione per l'ittica ma una insana attrazione per il luna park.

lunedì 15 gennaio 2007

riciclare!

era senz'altro uno scatch divertente. difatti mi si stagliò un sorriso diagonale per qualche secondo. poi recuperai qualche altro salatino. e la smorfia si aprì, prima in un pertugio, poi in una voragine dove precipitavano i croccanti snack. qualcuno implorava clemenza appigliandosi a molari e premolari ed io, insensibile, li annegavo con una sorsata rinfrescante. perché ne avevo proprio bisogno con la sete estiva causata dall'inarrestabile riscaldamento condominiale. fiorini, il settantaquattrenne del primo piano, l'aveva fatto accendere all'inizio di novembre nonostante il permanere di un caldo eccezionale. da allora giravo in casa con pantaloncini e maglietta. per uscire ripescavo capi invernali solo quando ripescavo la ferrosa dalla cantina per mimetizzarmi tra gli universitari biciclettati che sferragliavano in multicolori bici. qualche volta in quel periodo mi ero anche spinto sui primi colli ritrovando una vegetazione certamente primaverile o al massimo settembrina. avevo vent'anni e mi sentivo testimone di un cambio epocale.
"è il surriscaldamento globale"
sì, quella la causa. gli esperti poi additavano colpevoli noi, le nostre auto, le fabbriche, i deodoranti e via dicendo.
"riciclare!, questo dev'essere l'imperativo", ripetevano.
ma era infinito e quello un trend passato con la fine degli anni novanta. io certo poi continuavo provarmici anche in quel periodo: avevo un sacchetto grande per le lattine e uno piccolo per i resti di cibarie. le bottiglie semplicemente le affiancavo sui mobili e in alcune avevo infilato qualche candela. creavano una bella ed accogliente atmosfera. anche i miei coinquilini conservavano le bottiglie. ma probabilmente il nostro era un tentativo di procrastinare la discesa per le ripide scale con una quantità sovraumana di tintinnante vetro. mi immaginai schiacciato da un sacco nero pieno delle bottiglie di vino comprate a pochi passi da casa. il calore aumentò solo all'idea dell'impresa erculea. ingollai l'ultimo sorso di birra. poi mi alzai affaticato e lanciai la lattina nel sacchetto ad essa preposto.

venerdì 12 gennaio 2007

global warming

bevevo una birra, guardavo la televisione e mi infilavo in bocca un mini pretzel dietro l'altro. riflettevo come uno specchio al buio sulle gravi questioni sollevate dai servizi alla televisione. provavo simpatia con la giornalista per la famiglia massacrata, apparentamene senza ragione alcuna, da un ragazzetto diciassettenne, mi sentivo sinceramente costernato per lo stupido comportamento di britney spears e trovavo allucinante il persistere di un clima, tutto sommato, autunnale. l'inverno non era arrivato. la neve era distribuita artificiosamente per lo scarso diletto degli sciatori, i capi invernali venivano scontati già prima del natale e rimanere in casa a bere birra sul divano non procurava lo stesso piacere dell'anno prima. "ma che cazzo succede?" interpretai la faccia sconcertata dell'anziano montanaro che cercava di spiegare, in un italiano zoppicante, il suo sconforto vedendo uno stagno coperto solo di una sottile coltre di ghiaccio. "qui ci facevo delle scivolate..." disse fantasticando, mentre una nostalgica colonna sonora sfumava il servizio. l'esperto disse in chiusura che la colpa era da attribuire del surriscaldamento globale. poi incominciarono i cartoni animati.

stazione centrale

Ho obliterato il biglietto e mi sono riservato tutto il tempo necessario per cercare di capire le persone.
Una nanetta che sembra scappata da un circo felliniano, s’aggira con la mascella prognata con un bicchiere di carta in mano a questuare. I tempi sono passati; i clown non fanno più ridere ed i nanetti non sono più di moda perchè le stranezze ora sono ben diverse.
Poliziotti con i guanti in pelle, non per proteggersi dal freddo invernale (oggi è mite per essere gennaio), percorrono a passi ampi e lenti l’intera ampiezza dell’atrio centrale della stazione. Arrivano a due metri dal muro, alzano, quasi sincronizzati, i tacchi e, ruotando sulle suole di cuoio delle punte, compiono un’inversione di 180 gradi. Sono sereni e hanno più l’aria dei carcerieri che dei “controllori”. Ridacchiano, si fermano e ripartono.
Facce losche, che quando losco aveva un significato più puro, sarebbero sembrati onesti cittadini, si aggirano con lo sgardo basso, la schiena curva ed il passo sicuro di chi ha ben chiaro dove andare.
Piccioni quasi domestici passeggiano tranquillamente tra la gente in cerca di qualcosa che possa tornargli utile. Alcuni meno “civili” compiono veri e propri voli pindarici ed evoluzioni da acrobata tra le teste delle persone che visibilmente dissentono quasi spazientite.
L’enorme quantità di marmo bianco che, blocco su blocco, ha permesso la costruzione di questa imponente ed affascinante stazione, contribuiscono a conferire una certa fredda luminosità all’ambiente. Valigie spinte, valigie trainate, valigie trascinate e portate a spalle, disegnano traiettorie confuse e colorate in questo ammasso di grigio candore.
Persone in piedi ferme, persone che cammminano e che corrono, persone sedute sulle panche e sedute per terra, persone che salgono e persone che vengono vomitate da treni sazi e congestionati. Lunghi biscioni metallici sono ordinatamente parcheggiati paralleli lungo i binari. Placidi, senza fretta se ne stanno immobili in attesa di qualcosa che sembra non turbarli. Carretti trainati da personale in divisa verde, carichi di immondizia creano un traffico miniaturizzato invertendo i ruoli di dominazione tra pedoni e mezzi rispetto alla vita stradale.
Bambini, in realtà pochi bambini, stanno tranquilli, probabilmente un pò scioccati dal contesto diverso dalla loro normalità, vicino alle rispettive fonti di certezza e sicurezza.
Voci metalliche dagli altoparlanti annunciano partenze ed arrivi oppure correggono precedenti annunci, quando va bene, di partenze ed arrivi, altrimenti di ritardi e cancellazioni. Maxischermi appesi alle parerti lanciano pubblicità, mix di colori violenti, suoni assordanti e messaggi incomprensibilmente convincenti.
Potrebbe essere qualunque ora qui dentro. A qualunque ora qui dentro tutto rimane uguale. Forse è per questo che da ogni spazio libero delle pareti e dei pali dell’illuminazione si sporgono enormi orologi, digitali ed analitici, che, come una presenza inquietante, riportano tutti alla realtà.

giovedì 11 gennaio 2007

nel segno del leone

“... ‘Vabbè, io mi vado a riempire il bicchiere’, le ho detto”.
“E lei?”, mi chiese lui. “Niente, mi ha solo sussurrato mentre le voltavo le spalle che secondo lei sono un alcolizzato...” conclusi io.
“Nooooo, ti ha dato dell’alcolizzato?!”, ribattè con stampata sulla faccia una smorfia che sembrava un misto tra disapprovazione e disgusto. Gli occhi un pò socchiusi e la voce impastata, i capelli spettinati ed unti mischiati all’odore di vestiti sudati che lo circondava mi fecero capire il motivo della sua reazione.
“Però, quando si è accorta che con la coda dell’orecchio potevo aver sentito, alzando la voce ha continuato con ‘in senso buono si intenda! Per me è solo un complimento!’”, aggiunsi io quasi spontaneamente dopo aver assistito alla sua partecipazione ed immedesimazione nei miei fatti.
“Le donne sono tutte false alla stessa maniera”, proseguì lui ormai lanciato per la sua strada. “E scommetto che da allora non ti ha più parlato per tutta la serata, che ha cambiato atteggiamento, che ha assunto quel loro classico sguardo verticale; quello che se tu prima avevi già problemi a sentirti uomo, dopo non riesci nemmeno più ad identificarti con una merda...!”. Se avete presente un fiume in piena che rompe gli argini e straripa disseminando morte e diffondendo nel più intimo degli uomini un senso di impotenza atavica e necessaria, avete quasi un’idea di quello che mi son trovato difronte. Non ce ne era più per nessuno, il suo sfogo di nichilismo sotto spirito procedeva senza lasciare intravedere un punto di arrivo, una fine.
Con espedienti nemmeno troppo collaudati ma spesso utilizzati nei miei confronti, cercavo di rallentare questa palla che man mano che il tempo trascorreva diventava di dimensioni sempre più grandi, mastodontiche...

Lo avevo conosciuto pochi minuti prima, mezzo disteso sul bancone del solito locale nella traversa di via Mentana, mentre teneva un monologo sul perchè le lingue di derivazione latina, a differenza di quelle anglosassoni, determinino uno sviluppo più completo e “dettagliato” del carattere delle persone. Incuriosito da questo argomento, sicuramente un pò insolito per un mercoledi alle due e mezza in un locale quasi vuoto, mi sedetti alla sua sinistra ed ordinai un rum cooler con l’intenzione di seguirlo.
“... Se utilizziamo tanti termini con significati molto specifici...”, trascinando le parole, quasi masticando le consonanti e con lunghi periodi di pausa, “... sviluppiamo un modo di ragionare estremamente articolato ed ordinato... mentre, ... se utilizziamo pochi termini con tantissimi...” sul tantissimi mi sembrò quasi incespicare, vacillò un momento e “...significati...” ci fu una pausa più lunga del previsto o meglio del prevedibile. Alzò lo sguardo da quello che posso solo immaginare come il bicchiere, che prima sicuramente era statto pieno, e con una maestria e plasticità sconosciuta a molti blasonati registi, lo posò proprio al centro della mia faccia, dove la fronte si rastrema e si trasforma in naso. Per un periodo che percettivamente posso definire discreto, che avrà potuto essere quantificato in circa 45 secondi, mi fissò come succede di solito quando l’attenzione dello sguardo viene rapita dalla presenza di una imperfezione. La reazione inconsapevole che si ha in risposta a queste circostanze è proprio quella di sfiorarsi con una mano esattamente la parte fissata con cotanta attenzione dall’interlocutore.
Sfregandomi con un dito l’attaccatura del naso, convinto di essermi suggestionato dal suo comportamento, avvertii un quasi impercettibile rilievo. Nel lasso di tempo che impiegai nel realizzare quello che inconsciamente stavo facendo, lui mi chiese “tu sei del leone, vero?”.
Nel mentre, voltandomi alla mia destra, nello specchio della Warsteiner appeso alla parete, vidi riflessa l’immagine del mio viso.
Con la snodatezza tipica di un contorsionista circense, mi ritrovai a dissociare i miei sensi per cercare di seguire con attenzione tutto quello che mi stava succedendo intorno.
Con lo sguardo mi fissai esattamente nel punto in cui, per quasi un minuto, mi aveva puntato gli occhi addosso il tipo;
con l’udito prestai attenzione a quello che mi stava chiedendo “tu sei del leone, vero?”;
col gusto riassaporai l’aroma di rum bianco e limè, non ancora scomparso dalla mia bocca;
con l’olfatto sentii lo stantio di sudore che, ormai da pochi centimetri, emanava quel tizio ed infine, continuando a sfregarmi il dito sul naso,
col tatto percepii sempre più nitida la presenza di questo rilievo.
Oltre ad essere del leone, con estremo stupore, per la prima volta in vita mia, mi resi conto di avere come segno distintivo da gran parte del genere umano un neo nel punto esatto in cui dalla fonte si dipana il naso.

Come un uomo nuovo, proprio come ci si sente in un vestito nuovo nel giorno di festa, ordinai altri due drink, uno anche per quel tizio sconosciuto, e gli chiesi, “ma da cosa hai capito che io sono del leone?”.

sabato 6 gennaio 2007

olio cuore e bacardi breezer

la mia filosofia di vita è tra la pubblicità dell'olio cuore e quella del bacardi breezer: mangio bene e bevo un sacco. ho una attrazione irrefrenabile per i colori innaturali. come la volta che comprai l'energade azzurro puffo in una assolata giornata di fine maggio.

era caldo, un caldo che pareva già estate inoltrata. una di quelle estati secche dai record di studio aperto e con la terra crepata per la mancanza di acqua. i motorini storpi sui loro cavalletti incerti sprofondati nell'asfalto nero erano una immagine ricorrente per le strade in quella straordinaria settimana. anche io, nonostante un forte menefreghismo per il clima in generale, mi trovavo debilitato dal clima inatteso. passeggiavo nelle mie all star nere dell'anno prima forzandomi a non vestire i bermuda da recuperare in una remota scatola che non avevo voglia di cercare. con lucidità l'avrei trovata in un momento nell'angolo dell'armadio, ma la temperatura permetteva solo fumosi ragionamenti. passavo comunque per una piazza maggiore estiva ma tuttavia popolata di studenti cazzoni che sedevano sui gradini meravigliati di quanto possa essere calda la città. qualcuno guardava un piccione, qualcuno il nettuno, altri un libro, una birra e una canna con l'occhio vigile al possibile passaggio del vigile. attraversai la piazza in diagonale noncurante di superstiziose cazzate che mi avrebbero voluto precludere una laurea in antropologia poi conquistata agevolmente. mi soffermai, affannato nel mio passeggio destinato alla casa di un amico fornito di aria condizionata, in un piccolo negozietto di generi alimentari attratto da un gigantesco frigorifero trasparente che copriva una parete. avevo sete e come da pubblicità sprite
la ascoltai stupendomi davanti alla varietà di bottigliette e lattine multicolore. l'indecisione durò pochi attimi in cui scartai sequenzialmente: lattine, bevande già provate e acque minerali. recuperai, da una copiosa fila ordinata, la ormai bramata bottiglietta blu dell'integratore di sali minerali. pagai un euro e ottanta ed uscii dal negozio con il valido e colorato acquisto.

giovedì 4 gennaio 2007

spazio libero tra le due e cinque e le tre e venti

marco aveva ventitré anni, chiara trentadue.
un giorno marco si svegliò, al solito, tardi per la lezione della mattina ed entrò in facoltà con una massa assonnata per la lezione di diritto internazionale. erano le due e cinque del pomeriggio. tra le facce ne cercò qualcuna di conosciuta trovando solo il docente. si appoggiò dunque svogliatamente al primo posto utile. con la lingua ritrovò pezzi di noccioline incastratesi tra i molari durante quello che, secondo intervalli secolarizzati ed istituzionalizzati per i pasti, è detto pranzo. si dilettò nell'autoispezione del cavo orale per un buon minuto e ventidue poi si raddrizzò sulla sedia, organizzò quaderno aperto e penna nera e perse lo sguardo nel vuoto. in realtà sondava l'aula per eventuali ed impossibili ragazze alle quali chiedere appunti. unicamente per approcciare giacchè le lezioni le aveva frequentate quasi tutte per il loro l'incastrarsi congeniale tra sveglia e ora dell'aperitivo. in fondo la televisione di casa si era rotta assurgendo ad un nuovo ruolo sicuramente più utile di oggetto inutile in mezzo ai coglioni.
chiara lavorava per una impresa di media importanza che però non aveva un nome altisonante. quando ne parlava lo faceva solo per rispondere cortesemente a domande la cui risposta era rilevante come il telefono per i sordi. il classico "che fai nella vita?": consumata domanda retorica dell'interlocutore di turno che freme per vomitare una logorroica esposizione di "questo, questo e questo". magari intervallato da assaggi di cultura buddista ispirata a qualche libro di merda. in fondo tutti vogliono qualcuno di interessante impegnato su più fronti. magari con anche la passione per i viaggi. lei, alle tre e venti di quel venerdì pomeriggio voleva solo un caffè solubile.