mercoledì 30 maggio 2007

A volte ritornano

Guido aprì il freezer alla ricerca di un filetto di platessa da scongelarsi per cena mentre si massagiava la fronte.

Quello non era un buon periodo per lui e quella giornata cominciò nel peggiore dei modi.

In principio, appena sveglio, si accorse della prematura morte di Sigismondo, il pesciolino rosso vinto per caso, con un centro netto, alla fiera di Mondovello. Guido non aveva mai avuto un pesciolino rosso in tutta la sua infanzia ed ora, all’alba dei 28 anni, se ne era trovato uno da accudire.
Guido era andato alla fiera con due suoi amici per cercare di rimorchiare qualche nuova leva locale. Dopo parecchi squallidi tentativi di abbordaggio senza lieti fini, decisero di far sosta al bar della piazza per un giro di negroni. Si sa che i negroni sono come le ciliegie ma senza i noccioli e, con in corpo quattro negroni, si diressero alla macchina per tornarsene a casa delusi dalla magrezza della giornata. Sfiorarono il Tagadà, evitarono il Taboga, poi gli autoscontri e dunque proseguirono per una via dove le giostre e la folla cominciavano a diradarsi. Quando furono all’altezza del baraccone degli anelli, l’attenzione di Guido fu rapita dalla vita bassa dei jeans di una ragazza chinata di schiena dietro al bancone. Mentre gli altri proseguivano senza aver notato nulla, Guido rallentò la camminata per deliziarsi ancora un pò di quel sorriso verticale che faceva capolino dai jeans. Perso tra i suoi pensieri e le sue fantasie, dalla bocca di Guido, involontariamente, uscì un “... ma merda, che culo!”. Non si rese nemmeno conto di quanto aveva appena detto che, da dietro il bancone, un ragazzone sul metro e novantotto di gran lunga sopra il quintale, con la faccia color sughero di quercia della Sardegna, il naso da boxer ed un tatuaggio tribale che spuntava dal collo del maglione, si sporse. Con la velocità di una faina geneticamente modificata, afferrò Guido per il bavero del giaccone e, avvicinandoselo come un'orsacchiotto alla bocca, gli sussurrò all’orecchio “...scusa non ho capito cosa hai appena detto... non è che ti spiacerebbe ripetere?”. Guido sentì il peso del fiato sul collo ed avvertì uno strozzamento all'altezza della bocca dello stomaco, quasi un morso dovuto alla fame. Le parole uscivano unte dalla bocca di quell’essere e si depositavano sul viso di Guido pesanti come il vapore dell’olio fritto sulla cappa di casa. Attonito, un pò per i negroni ed un pò per l’assurda situazione, Guido roteò gli occhi senza muovere il capo nel vano tentativo di cercare qualcuno dei suoi amici. Quando ormai disilluso realizzò di trovarsi solo in balìa delle spire di questo invasato energumeno, supportato dal suo spirito di sopravvivenza, biascicò con uno stirato sorriso di sottofondo "hey, hey amico...". Con queste poche parole che finora credeva potessero funzionare solo in circostanze cinematografiche, Guido esordì calandosi nella parte del buono di turno cacciatosi in un grosso casino e proseguì seguendo il copione "...calmo, calmo, ho solo detto che sarebbe una botta di culo riuscire a vincere uno di quei graziosissimi pesciolini rossi!". Ora la telecamera avrebbe sicuramento cambiato campo per inquadrare la faccia corrucciata del sosia di Steven Seagal. Il gigante, per niente stupito dall’irrealtà di quel dialogo, colse la palla al balzo e, allentando solo un poco la presa, aggiunse "certo amico che se non provi non vinci" e poi soggiunse sfumando un poco la voce ruvida "... ma lasciatelo dire, tu hai la faccia di uno fortunato...". Lasciando intravedere il giallo dei denti come un cane che ringhia e vuol apparire ancor più feroce di quanto già non sia, proseguì con un tono retoricamente inquisitorio e per nulla rassicurante "... perchè non prendi qualche cerchio da tirare?".
A quel punto Guido ebbe salva la vita anche se a caro prezzo. Infatti dovette continuare ad acquistare cerchi sino a che non riuscì a centrare quella maledetta boccia di vetro opaco con dentro quel rincoglionito d’un pesciolino rosso. Era il più brutto pesce rosso mai visto. Era di un rosso smunto, quasi avessero aggiunto del cloro all’acqua e le squame erano grosse con una melmetta verdastra che le ricopriva. Se qualcuno avesse visto anche solo di sfuggita quel pesciolino non avrebbe certo più creduto al detto sei sano come un pesce. Nonostante tutto questo, non appena il suo cerchio si sporcò in quell’acqua torbida e ferma, Guido si sentì addosso il peso dello sguardo dell’amico enorme fatto di una montagna di carne ed inchiostro. La mossa successiva che l’istinto ordinò a Guido fu di fingere una verosimile contententezza. Prese il pesciolino già provato di suo nella busta giallognola di plastica e si avviò, senza nemmeno salutare, verso i suoi amici.
Da quel giorno era trascorsa una sola settimana quando Sigismondo, una mattina, affiorò dall’acqua torbida della boccia con la pancia biancastra e gonfia rivolta verso il soffitto. Quando Guido alle sette se ne accorse, attraverso il vetro di quella boccia sul frigorifero, non vide galleggiare quel maledetto Sigismondo, bensì quei 54 € che gli era costato in lanci. Amareggiato, per nulla scalfito nel profondo, si preparò un caffè prima di andare al lavoro.

Poi ci fu la delusione al lavoro quando scoprì che la nuova segretaria non ammiccava solo a lui ma a tutti: soffriva di un tic nervoso. Questo, in verità, non lo turbò molto, un pò però si!

Infine, quando la giornata volgeva ormai al termine, sulla strada del ritorno a casa, ci fu il tamponamento col morto. Guido era incolonnato ad un semaforo lungo Via Saragozza da diverse decine di minuti. Il verde era già scattato almeno quattro o cinque volte e nessuno accennava a partire. Tutti cominciarono a suonare il clacson. Guido era l’unico fermo in silenzio. Il suo clacson e la sua radio non funzionavano. Era forzatamente calmo. La giornata era stata la peggiore mai capitatagli nell’ultimo decennio ed in corpo, tutto quel chiasso cominciava a montargli dentro come la panna fatta in casa. Resistette stoicamente qualche altro lungo minuto mentre tutti alle sue spalle suonavano, sfanalavano e, riflessi nello specchietto retrovisore, gesticolavano come tarantolati. In un baleno Guido esaurì quel poco di pazienza rimasta. Ingranò la retro, fece pochi passi indietro e, dopo aver buttato un occhio allo specchietto di sinistra, inserita la prima, con un bilanciamento di peso sui pedali si lanciò in un sorpasso con un piccolo stridìo di gomme. Quella mossa alleviò, seppur di poco, la sua tensione e la sua agitazione riportando il suo livello di stress a parametri accettabili. Man mano che fiancheggiava le macchine immobili che superava, spontaneamente buttava dentro uno sguardo, quasi a cercare una conferma sulla faccia che avrebbe dovuto avere il conducente. Una, due, tre, dieci macchine superate e, tutto sommato, sembravano quasi tutte facce normali; pochi nonnetti con cappello e quasi nessuna suora al volante. Con un misto di rammarico e sconsolazione Guido proseguì, acquistando sempre più velocità, nel suo sorpasso. Sopravanzò undici, dodici, quindici auto e, quando riportò lo sguardo alla strada era ormai troppo tardi. Il tachimetro avrà segnato più o meno i 45 km/h un attimo prima che Guido, con tutta la forza che teneva in corpo, a due piedi premesse invano il pedale sudato del freno. Con tutta l’energia cinetica che può sprigionare una Suzuky Maruti lanciata a quasi cinquanta all’ora, Guido tenendosi stretto al volante e schiacciandosi allo schienale, andò ad impattare violentemente contro la fiancata di un macchinone scuro intento a svoltare, con tutta calma, sulla sinistra. Il rumore di lamiere accartocciate, plastica rotta e vetri frantumati durò un attimo soltanto ma fu devastante per i suoi timpani. Guido, che non aveva la cintura di sicurezza allacciata, per la violenza dell’urto andò a sbattere la testa contro il vetro del cruscotto. Guido aveva ereditato la Maruti da una prozia morta improvvisamente qualche mese prima. Insieme alla macchina, Guido aveva anche ereditato tutti gli amenicoli che ad essa erano annessi del tipo santini di Padre Pio in ogni angolo, madonnine benedette provenienti da tutti i pellegrinaggi fatti dalla prozia alle varie Medjugorie, Fatima, Lourdes... e per finire un rosario di quelli antichi fatti in ferro e vetro. Per ironia della sorte, non solo i vari santini non avevano sortito l’effetto desiderato, ovvero quello di proteggere la macchina e chi la guidava (come questi subdolamente recitavano), ma addirittura il crocifisso del rosario, che ad ogni curva si dondolava appeso allo specchietto retrovisore, nella violenza dell’impatto gli si conficcò dritto dritto in piena fronte. Quando lo stordimento per la botta si alleviò e Guido riuscì a riaprire debolmente gli occhi, oltre ad avere la vista appannata e rossa a causa dei flotti di sangue che gli colavano dalla fronte, vide una cosa che gli fece rimpiangere di non essere egli stesso morto. Una Mercedes nera, lunga almeno sette metri con una sfilza di finestrini, molti dei quali infranti, gli si parava di fronte, lateralmente distrutta. Il primo pensiero che si formulò nella testa acciaccata di Guido suonava pressapoco così “occazzo, occazzo! Ho tamponato una cazzo di limousine con a bordo qualche bontempone di vip”. In un baleno, nella sua mente stropicciata, si proiettò un film. Iniziava con l’immagine di un titolo di giornale (come impaginazione avrebbe potuto essere il Resto del Carlino), che a caratteri cubitali riportava: “Giovane pirata della strada tampona violentemente l’auto di stato del presidente degli Stati Uniti d’America in visita d’onore nel nostro paese”. E come sottotitolo: “Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra all’Italia!”. Guido vide anche passargli davanti agli occhi una rassegna di fotogrammi di un programma coccodrillo che, in onda sulle reti nazionali, ripercorreva tutte le tappe meno significative della vita del presidente. Tutto questo “film” scritto e prodotto da Guido stesso ebbe la durata di qualche secondo; il tempo necessario perchè intorno alla macchina cominciassero a raccogliersi tante persone, alcuni anziani, altri meno, tutti vestiti con eleganti abiti scuri e tailleur, conditi da seriosissime facce sull’orlo della commozione. Mentre Guido, esterefatto, non riusciva ancora a capacitarsi dell'entità del danno da lui stesso causato, con in piena fronte conficcato un rosario e sul volto una sindone di sangue, tra la folla si fece largo una persona vestita di un lungo abito bianco con uno scialle color viola, attorniato da alcuni ragazzini reggenti ceri accesi. Guido, frastornato ed ancora assordato dal boato dell’impatto, non riusciva a mettere a fuoco il contesto che man mano che il tempo passava gli si creava attorno. Solo dopo qualche minuto di lunga agonia mentale, realizzò che quelle figure erano un prete e quattro chirichetti. Sempre più confuso e sempre meno rassicurato, cercò di superare l’impasse che lo teneva chiuso in macchina. Con i dolori che gli avvolgevano ogni centimetro quadrato del corpo, Guido aprì la portiera e cercò con fatica di farsi reggere da due gambe ancora tremanti che sembravano non appartenergli. Una volta fuori dalla Maruti, ora ancora più corta ma dalla linea non di molto peggiorata, il campo visivo migliorò e gli permise di capire qualcosa in più. Con gli occhi si trovò a fissare attraverso i finestrini scuri infranti della limousine nera ed ammaccata. Strabuzzò gli occhi come succede nei momenti che precedono un mancamento e si portò le mani al viso conficcandosi ancora più in profondità il crocefisso ed emettendo un vivace "Ahi!". Dentro quella Mercedes c’erano corone di fiori intorno ad una bara di mogano lucido rovesciata ed un corpo pallido e ben vestito scomposto riverso su un fianco del vano. Guido, con lo sguardo fece una panoramica su quello che gli stava attorno: la folla delle persone eleganti vestite di nero con gli occhi brillanti e venati di rosso, il prete con la faccia da curato di campagna con lo stuolo di chirichetti al seguito, pochi curiosi come sfondo che davano una macchia di colore alla scena. Solo allora Guido realizzò di avere tamponato un carro funebre mentre svoltava per il viale del cimitero seguito dall’intero corteo di parenti ed amici. Un sollievo gli alleggerì il peso che avvertiva al petto, dunque svenì a cuor leggero.

Una volta aperta l'anta del freezer sul quale giaceva la boccia di vetro con Sigismondo immobile in superficie, Guido si mise alla ricerca di un filetto di platessa da scongelare per cena mentre, ancora incredulo, si massaggiava la fronte con la mano alla ricerca di un riscontro, di un dolore in grado di confermare la realtà.

martedì 29 maggio 2007

l'epigrafe di Guido

Scritto con la musica sotto. In un’ora definibile come quello del tramonto. Aria insapore come le setole di uno spazzolino nuovo. Guido e la città, le coppie che scorrono veloci, i gruppi di amici. Un ragazzo passa con una t-shirt nera, firmata da Dolce e Gabbana.
Nello stesso momento qualcosa succede da qualche altra parte. Succede sempre qualcos’altro. Ma non è che poi sia così importante. Diciamo che non ce ne frega niente, come sapere che lo stronzio nella combustione sviluppa una fiamma rosso acceso, a sprazzi.
La città alle 7 e cinquanta è un posto misterioso. Bologna degli spettri di anni passati. Bologna delle ragazze che si accalcano in un bar del cazzo di Via Zamboni per succhiare da una cannuccia un cocktail dal nome esotico come lo farebbero dall’uretra del bello di turno. Probabilmente attore. Discorsi stereotipati ed irrinunciabili come consunte riviste nelle sale di attesa. Meglio se di un dentista.
Guido rimette il tappo sul pennarello. Rilegge la sua dedica. Una epigrafe ad un particolare momento. Il sole è già determinato ad eclissarsi. Mani in tasca.

SCEMO CHI LEGGE

lunedì 28 maggio 2007

Chi visse sperando morì

Non ne poteva più.
Era ormai convinto di non potercela fare. Più e più volte familiari ed amici lo avevano messo in guarda con frasi del tipo “non hai ancora capito che tu non ci sei portato per quelle cose. Mettitelo bene in testa prima che qualcuno te lo metta in culo...” oppure sua madre più delicata “caro, lo sai che per te farei qualunque cosa al mondo... ma vedi, secondo me faresti meglio a trovarti un lavoro come si deve, per qello che hai studiato”. Queste erano le stilettate che da due anni quasi quotidianamente gli arrivavano dalle persone che lo circondavano.
Cocciuto sognatore lo era sempre stato. Sempre era riuscito a fare quello che voleva e riteneva giusto anche remando contro tutto lo schifo che gli altri gli vomitavano addosso. In questo modo aveva conseguito una laurea in Scienza dell’Alimentazione, aveva vinto i campionati provinciali di ballo tradizionale medievale e da due anni a questa parte aveva provato a scrivere. Scriveva per otto ore al giorno sette giorni alla settimana. Un vero e proprio lavoro. Diceva di lavorare al romanzo della sua vita. Finalmente aveva avuto l’illuminazione. “ho visto la luce” si diceva. Gli si dedicava ossessionatamente, credendoci per almeno due settimane consecutive, durante le quali si faceva forza “Cazzo Carlo, finalmente ci siamo. Questo è perfetto”.
Ma con la precisione di Frate Indovino, all’inizio della terza settimana di lavoro, qualche dubbio annidato nel lato meno soleggiato della sua mente sbocciava ed in quattro e quattr’otto, come un fungo dopo due giorni di pioggia ed uno di sole, cresceva talmente tanto da occupare tutta la sua testa facendogli pensare “ Merda Carlo, non ci siamo proprio. Stai scrivendo l’ennesima stronzata”. Ed in questo modo, suggestionato dai suoi stessi pensieri, cancellava dalla cartella “battiti” nel suo pc tutto quello che sino a quel momento aveva ritenuto il capolavoro della sua vita. La settimana successiva tutto si riproponeva come una noiosa replica delle 4 del mattino.
Carlo per due lunghissimi anni aveva sopportato tutto questo circo senza battere ciglio, sostenuto dal suo solo orgoglio ed amor proprio. Per due stanchi anni si era trascinato, come una pena da scontare, questo suo romanzo.
Aveva ventisei anni, una laurea e tanti hobby. Lo dicevano un ragazzo intraprendente ed intelligente sin dalle elementari. Sin dalle elementari, quando rimane solo ama fare palloni con le chewingum, far scoppiare sacchetti di plastica pieni d’aria e staccare la coda alle lucertole. Questo nessuno lo sa.
Quella mattina Carlo si era svegliato con qualcosa che gli ronzava nella testa da una parte all’altra talmente velocemente da non farsi acciuffare. Gli servì tutta la giornata per riuscire ad inquadrare bene di cosa si trattasse. Dovette andare alla Feltrinelli di via dei Mille e leggersi “lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta” per capire qualcosa. “Io, lo zen e le motociclette non abbiamo niente in comune” fu la conclusione. Uscì deluso ed ancora più ingabbiato in questa difficile situazione di stallo e si ributtò tra le polveri sottili del traffico deciso a rinfrescarsi con una granita al cioccolato di Stefino. Giunto all’incrocio con Via Galliera, un manifesto storto e mezzo scollato dal muro attirò la sua attenzione. “Gran premio letterario dei colli bolognesi” si chiamava. Magneticamente attratto, lesse tutto il bando d’un fiato e decise che quella sarebbe stata la sua riscossa. Partecipando a quel gran premio avrebbe potuto vincere e dunque dimostrare a tutti ed a se stesso il suo valore. Lui si sentiva scrittore e la missione della sua vita era quella di scrivere un cazzo di romanzo. Dal bando del concorso capì di avere tre settimane di tempo per scrivere un racconto breve con cui partecipare. Il tema era “la discesa della Madonna di San Luca in città”. Già nella sua mente immaginava il titolo del racconto che avrebbe scritto “Un trasloco della Madonna”. Gli sembrava il titolo giusto, a metà strada tra il serio ed il faceto. Avrebbe parlato di tradizione bolognese, inserendola in una storia moderna di giovani sfiorando qualche tematica attualmente in voga e concludendola con un finale a sorpresa, non senza aver inserito qualche perticolare autobiografico. Avrebbe scritto una storia per tutti gusti e tutte le età che non avrebbe potuto far altro che consegnargli la vittoria del premio ed una rivincita personale sulla vita. Gli ingredienti necessari c’erano tutti. Decise quindi di precipitarsi a casa per cominciare a scrivere.
La voglia di granita, ormai, non era che un ricordo. Davanti agli occhi aveva solo l’immagine della sua consacrazione alla letteratura; il suo ingresso nell’Olimpo degli scrittori. Stava già pensando al discorso da fare davanti ai fotografi ed ai giornalisti al momento della consegna del premio ed il modo giusto per declinare gli inviti a farsi pubblicare da qualche editore di bassa lega.
Si incamminò verso casa con la testa leggera come un Super Tele, isolato dal traffico e dalla gente che sfiorava camminando. Avrebbe fischiettato qualcosa se solo avesse imparato a farlo da piccolo. Camminando per via Irnerio, fischiettando mentalmente qualche motivetto, ad un certo punto immaginò nuovamente la scena del conferimento del premio, con il sindaco accanto a sè avvolto nel tricolore, la gente tutta attorno cicalante e la banda che suonava. Tutto ad un tratto sentì un suono forte, quasi da tromba da stadio. Subito cercò tra la folla la faccia di quel disgraziato di turno pronto a rovinargli la festa, mentre la banda continuava festante a suonare. L’unica cosa che riuscì a vedere furono due occhi sgranati grandi quanto due susine e qualcosa di enorme ed arancione. Poi la musica si fermò e le luci si spensero.
Il giorno dopo il Resto del Carlino titolava in prima pagina
“Scrittore bolognese travolto ed ucciso dal 20 in Via Irnerio. Dall’inizio dell’anno è il 35°”.

Giusto la settimana precedente Carlo aveva rinnovato la carta d’identità ed alla voce “Professione” aveva risposto abbastanza convincentemente “scrittore!”. Un pò restio l’addetto alla compilazione aveva però riportato quanto riferito.

martedì 22 maggio 2007

il mio primo stipendio

Con il mio primo stipendio comprai una costosa bottiglia di vino. Dovevo festeggiare. Vestivo ancora il completo da lavoro del giovedì: un gessato con un grigio appena accennato ed una camicia a righe verticali alternate per spessore. La cravatta allentata, in posa. Mi vedevo nei modelli per una qualche marca di vestiti, più o meno costosa. Le vetrine lucide rimandavano una immagine patinata di me, quasi da copertina.
Una sensazione di estraneità al mio corpo naturale, proiettiva, che era, quel giovedì pomeriggio, estesa dalla busta paga infilata nella mia valigetta scura.
Mi ero trasferito a Bologna da una quarantina di giorni ed avevo passato il tempo pensando al lavoro o fantasticando sul poetico sovrapporsi delle chiese in Piazza Santo Stefano. Mi affascinava l’effetto degli anni sugli stili, le varie interpretazioni di religiosità. Le opere più magnifiche e quelle più distruttive sono di origine divina: le slanciate cattedrali gotiche e le crociate, la lapidazione, Il Giudizio Universale. La ricerca di equilibrio porta alla follia della religione, della professione di fede. Una scusa per opere altrimenti puro diletto bambinesco. Una costruzione di blocchetti Lego protratta negli anni, tendente all’eterno. Utile come può esserlo un’altra chiesa tra il rincarare degli affitti, bella come una donna a ventitrè anni. Mi sedevo quindi spesso in Piazza Santo Stefano con la planimetria delle sette chiese immaginandomi davanti ad un foglio bianco. Come avrei costruito la mia chiesa? Ne sarei stato capace?
Incontrai Maria all’inaugurazione di una mostra di un conoscente lontano nei tempi dell’università di Architettura. Anni prima, quando si viveva come in una sala incentrata su una grossa e confortevole poltrona di pelle, avvolta di libri che parevano avere tutte le risposte. Lorenzo portava irreali capelli legati a coda. Troppo lisci e lucenti anche per una pubblicità, saltuariamente argomento di discussione. Diceva di avere preso da sua madre ed io non ne dubitai mai. Aveva un modo di parlare affrettato, quasi avesse sempre altro da fare per cui doveva svuotare la bocca di tutte le parole per ascoltare, poi, stringendo gli occhi a fessura. E non sapevi mai se ti stesse studiando o se cercasse di andare oltre a vedere dietro le tue spalle. Quella sera parlò con lo stesso modo a cui ero abituato. Svilì e distrusse la sua opera lasciando dissociata e non vocalizzata gran parte delle domande preparate nei, più o meno importanti, taccuini degli ospiti. Ammise di essersi ispirato a questo per poi copiare Gropius, ammise di non avere nessuna fantasia. Concluse dicendo “la fantasia è inutile e brutta”. Ci fu un secondo di quel silenzio imbarazzato in cui il cervello automaticamente cerca di adeguarsi alla situazione, in cui dà ragione e giustificazione alla inevitabile risposta stereotipata. Applausi. E lui a guardare oltre, come sempre. Io di per me ero in piedi vicino al muro. In fondo. Avevo una visione per intero della sala e consideravo quanto fossero antiestetiche le persone viste da dietro, sedute su sedie pieghevoli di legno. Ero arrivato di fretta e non avevo ancora avuto il tempo di considerare le bozze alle pareti, di recuperare un bicchiere di spumante se non champagne. Dopo pochi minuti Lorenzo venne verso di me dicendosi felice di vedermi. Voleva la mia opinione, disinteressata come quando gli dissi che una sua tavola era inintelleggibile. Banale. Mi accompagnò per la mostra senza parlare con un bicchiere in mano. Poi mi presentò Maria. Quando la vidi mi sembrò subito bella. Ho sviluppato una debolezza nei confronti delle ragazze chiamate con quel nome da quando, a 15 anni, mi scoprii innamorato di una mia compagna di classe. Nella mia vita ho conosciuto otto ragazze di nome Maria e il massimo che ne ho ricavato è stato qualche bacio ed un paio di libri presi in prestito e mai restituiti. Scrittori russi principalmente. Ho ancora un libro di Chekov sulla scrivania in casa di mia mamma. Ho perfettamente chiara in mente la localizzazione. Potrei stimare al millimetro le esatte coordinate su un immaginario piano cartesiano.
Maria disse di essere una grande amica della fidanzata di Lorenzo, Martina. Mi parlò un po’ di lei mentre io cercavo di rilevare nel suo volto definito e dal mento sicuro qualche particolare della mia compagna di classe. Mi convinsi che avevano la stessa solare e proporzionata distanza zigomi/orecchie. Sorrisi ed andammo verso il bar dove ormai tutti parlavano disinteressandosi all’osservazione in seconda istanza delle opere. Solo un vecchio, dagli occhiali troppo tondi per non essersi ispirato ad una foto di John Lennon che dovevo aver visto in qualche dove, stazionava piantato solidamente sulle sue due gambe e lo scuro bastone davanti a Scuola Per Giardino Fiorito. Lo osservai il tempo necessario a stimarne una età attorno alla settantina e poi mi rivolsi al barista.
“Un frizzantino”
Pensai spesso nei giorni a seguire a quella sera, a Maria. Mi capitò anche un giorno di incontrarla per caso vicino a Feltrinelli, mentre studiavo il taglio e l’inclinazione della torre detta Garisenda. Quanto poteva essere stata alta? Lei aveva un libro nuovo che le avevano tanto consigliato, me lo avrebbe prestato volentieri appena letto. Domandai troppo sicuro se si trattasse di un autore russo.
“No, è l’ultimo libro di Ammaniti” rispose.
La Garisenda doveva senz’altro essere stata almeno 10 metri più alta di quei monchi resti che ombreggiavano la nostra conversazione.
Dopo qualche minuto ci salutammo ed io proseguii alla volta di Piazza Santo Stefano carico di un quaderno bianco per la mia chiesa. Attesi il tramonto, osservando insoddisfatto le righe a carboncino che aveva lasciato la mia mano, le sfumature del mio pollice ormai irrimediabilmente sporco. Lorenzo non aveva avuto torto dicendo che la fantasia era brutta. L’effettività della chiesa che avevo davanti era più bella di qualsiasi piano mi potesse venire in mente. Rincasai completamente soddisfatto, per la prima volta, da un’opera.
Il giorno seguente, col mio primo stipendio, comprai una costosa bottiglia di vino.

martedì 15 maggio 2007

stazione di benzina, 15 e 17

C’era questo tizio, vestito di blue jeans e camicia a quadri che si affannava, in una giornata troppo estiva per fine maggio, dietro una pompa di benzina. Stava riempiendo il serbatoio della sua golf del ‘98. Odore ovviamente pungente per i vapori dei combustibili. La radio dell’auto ripeteva una canzone, gli amplificatori, distribuiti sopra le sei pompe di benzina, un notiziario. Non si distinguevano quindi i suoni da un rumore confuso. Un cartello ricordava il divieto a fumare. Stefano sentiva veramente il bisogno di una sigaretta: rilassarsi un poco dopo tutti quei chilometri, distogliere la mente per un paio di minuti dalle domande che nelle ultime settimane si ripetevano come i ritornelli di filastrocche fanciullesche mai interamente memorizzate.
Ci son due coccodrilli, un orango tango, due piccoli serpenti, un’aquila reale, un gatto, un topo, un elefante, non manca più nessuno. Solo non si vedono i due leocorni…
La domanda più frequente era: perché? Seguita da un: come mai? A voler poi significare lo stesso concetto. Lo stesso arcano dubbio che lo insegue dal giorno in cui prese la decisione: una vita nuova.
Il cambiamento non fu certo dall’oggi al domani, ma quasi. C’erano state certo discussioni al lavoro ed in casa, ma erano passate come un temporale estivo, irreali e quasi terze. Lui spettatore dei giorni che si erano avvicendati, uno di seguito all’altro. Senza emozioni e senza molti dialoghi. Alle volte ancora vedeva Stefania ed i toni si facevano cupi e lei chiedeva ancora spiegazioni.
“te l’ho già detto” rispondeva lui infondo dispiacendosi di non essere mai stato innamorato di lei.
“si lo so” mandava giù un sorso di qualcosa.
Quell’aria calda gli faceva aderire la camicia alla pelle, la pancia era aumentata nell’ultimo anno e si trovava a somigliare sempre più al padre.
“appena mi organizzo faccio un po’ di sport” pensava sapendo di ingannarsi.
Intanto il liquido passava dal tubo alla pistola e dalla pistola al serbatoio.
Controllò il cellulare riscontrando che niente era cambiato se non l’orario nell’angolo del display in alto a destra. 15 e 17. Ma poi chi avrebbe potuto chiamare? Non aveva nessun contatto che non fosse professionale: finalizzato alla vendita. La sua vita era stata barattata con un bel cazzo di vuoto, un abbonamento a Sky, uno stipendio decente e qualche benefit. Era bravo nel suo lavoro. Il migliore, dicevano alcuni, gli altri erano soltanto invidiosi. Si grattò la nuca, come gli avevano detto fare le persone nervose.
“Guardali sempre dritto negli occhi e soprattutto mai toccarti i capelli” era stata la prima regola che aveva imparato. La seconda era “aggiungi sempre a penna sul biglietto da visita, il tuo numero di cellulare”.
La pistola scattò a segnalare che il serbatoio era pieno. La estrasse automaticamente, lasciò cadere qualche goccia sull’asfalto e la ripose. Poi entrò a pagare.
Dentro il negozio stretto ed angusto il notiziario stava finendo. Parlavano di qualche disordine post elettorale in Francia. Vicino alla cassa un cartello si scusava per la momentanea sospensione di qualsiasi sorta di promozione. Un altro ricordava che nemmeno lì dentro si poteva fumare. Pagò i suoi 47 euro ed uscì veloce sotto il sole irreale.
L’auto si era notevolmente scaldata in quei pochi minuti. Accese l’aria condizionata settando la temperatura a 18 gradi. Dalle feritoie per l’aria si generò un sottile rumore come di ventilatore che gira. In pochi minuti l’abitacolo era fresco, il benzinaio lontano, la musica tranquilla e melodica e, finalmente, si accese una sigaretta.

martedì 8 maggio 2007

zanzare

Una porta verde trifoglio, i cardini vecchi salutano con lo stesso cigolio ogni nuovo avventore, le pareti imbiancate di un luminoso bianco e disegnate di grigio e giallo affumicato dai giorni. Un paio di crepe verticali dell’intonaco scompaiono dietro una foto insignificante e mangiata dal tempo: sbiadita. Il bagno occupato.
Michele, scomodo su una sedia scomoda di legno usurato, sfoglia il giornale. Il barista nasconde sotto la cassa alcune banconote da 50 euro. In cucina Alex sciacqua un paio di piatti. Svogliato e lento come un San Bernardo passeggia il 12 agosto per i Giardini Margherita.
“Cristo Santo, non è possibile!”
Stefano si allarga in un sorriso, stende le gambe ed accende una sigaretta. Forse soddisfatto o semplicemente teatrale. I capelli lucidi gli cadono sulle spalle mentre piega indietro la testa spingendo il fumo giù nei polmoni.
Oltre porta San Donato qualcuno siede dietro un libro, la mano destra a tenere la fronte ed il dito sinistro a seguire l’avvicendarsi delle parole. Un’unghia perfettamente tagliata a mezzaluna. Qualcun’altro svolta a destra in auto, con la musica troppo alta per considerare il rumore del traffico. “Spanish Caravan take me away...”. Odore di smog venato dalla fragranza della pizza e dai condimenti, piccanti e non, dei kebab. Humus di ceci.
“probabilmente dovrei chiamare Carla” pensa Andrea asciugando la condensa del suo bicchiere con il pollice. Sente la schiena appena umida come dopo una passeggiata con lo zaino in spalla ad inizio primavera. Nervosismo. Si bagna con la lingua il palato. La campagna per lui conserva da sempre la stessa attrattiva di quando ad otto anni andava a trovare il nonno Tunén. Quando passava pomeriggi sopra un vecchio trattore arancione spento, immaginandosi a correre da un albero all’altro per raccogliere scure ciliegie. Veloce, precedendo sanguinari uccelli ad assassinarle lasciandosi dietro solo lo scheletro di un nocciolo e qualche sanguinoso e dolce brandello di polpa. In quella casa c’era sempre un odore forte di erba fresca, di giardino appena tagliato e, la sera, quando le gambe erano troppo irritate per riposare tranquillo lo cullava. Sua nonna, la Mara, preparava le migliori lasagne di Ozzano. Il segreto era la salsiccia nel ragù.
“gneek” un paio di amici entrano da Albert per una birra ed una grappa. Siedono al bancone su slanciati ed incerti sgabelli in legno verniciati di nero. Chiacchierano affabilmente.
Marco si è fermato solo per un caffè, cinque minuti prima, ha pagato ed è risalito nell’auto lasciata posteggiata in doppia fila.
Oltre il ponte di San Donato, nell’appartamento al secondo piano Stefania chiude il libro.
“certo che c’è un caldo tropicale, guarda che zanzare” dice qualcuno.

venerdì 4 maggio 2007

Astral blu

Ridere in faccia alla morte non è cosa da tutti. Canzonare la morte sapendo di averla a poche ore di distanza può solo essere il frutto di un cocktail shakerato di coraggio ed incoscenza in dosi di due terzi ed un terzo. Masticare anacardi del Brasile sorseggiando birra scura appollaiato sullo sgabello consumato di un locale buio, forse può aiutare.
Aver sconfitto notti insonni affidandosi a rum di bassa lega forse non fa curriculum ma sicuramente avvicina le luci del giorno e strappa di bocca un pensiero “anche stavolta ho tirato a domani”.

A Bologna piove e gli autobus sono in sciopero. In giro per la città, sotto i portici, voci riecheggiano “se solo avessimo la metropolitana...”.
A Milano piove forse anche più che a Bologna e, sia i bus che i metrò, sono in sciopero. A Milano voci vengono sopraffatte dal chiassoso traffico cittadino “se solo ci fossero i portici...”.

Carlo approdò a Milano scendendo da un interregionale partito da Bologna, ormai qualche anno fa. La prima cosa che fece fu uscire dalla stazione e cercare un bar. Quel giorno camminò veramente tanto prima di incappare nell’insegna genuina e calda del “bar Gino” dove continuò a bere sino a perdere i sensi. In seguito ha provato più e più volte a cercare quel posto senza mai riuscirci, perchè gli sembra di ricordare di non aver pagato l'ultimo rum cooler. Oggi Carlo è ormai convinto che quel bar non sia mai esistito; "è stato solo il frutto di una allucinazione alcolica impressa nella mia immaginazione" è quello che si ripete. Proprio come accadde, esattamente al contrario, quando, sbronzo, raccontò a Franco che suo bisnonno emigrò in America. Dal giorno dopo quella bevuta, Carlo è fermamente convinto che il nonno di suo babbo, Sergio, nel 1907, in Maggio per la precisione, approdò a Manhattan. Anche Franco oggi ne è convinto. In verità Sergio, nel Maggio del 1907, stava bevendo un bicchiere di rosso seduto al tavolo di casa sua aspettando che smettesse di piovere.
Carlo a Bologna ha lasciato tutto quello che un uomo può avere. Le amicizie, i luoghi vissuti, gli amori bruciati e la bicicletta. Un rarissimo modello di Astral azzurra con freno posteriore a scatto fisso. Una bicicletta difficilissima da governare. I pedali sfruttano un misterioso sistema che permette di frenare invertendo la direzione della pedalata. Carlo era uno dei pochi in grado di sfrecciare in tutta sicurezza nella giungla urbana di via Irnerio o Via San Donato, dribblando autobus dell’Atc, auto, camion dell’Hera e pedoni come fossero innocui birilli.
Una settimana fa, una voce amica gli annunciò per telefono “Carlo, ti devo dare una bruttissima notizia... ieri ti hanno rubato la Astral. Stamattina ho trovato la catena spezzata a terra. Mi dispiace...”. Non rispose. La voce gli morì prima di uscire ed in gola gli si formò un nodo duro quanto quelli di certe tavole in rovere. Abbassò il ricevitore, alzò lentamente lo sguardo sino alla finestra e vide che pioveva. Si sentiva svuotato come un furgone dopo un trasloco. Lui, Carlo, era stato uno dei pochissimi “fortunati” (come lo definiva la gente) o “migliori” (come amava invece dirsi lui) che, per sei lunghi anni, era riuscito a non farsi mai rubare una bicicletta. Un vero primato per Bologna. Ora a Milano, si sentiva definitivamente fottuto.

Anche oggi, come una settimana fa, piove su tutto il nord Italia. Carlo si è svegliato presto stamattina. Il cielo grigio non è molto diverso dagli altri giorni ma piovono gocce penetranti, grandi e fredde. Il traffico è intasato come sempre ma il rumore è diverso, più liquido. Dalla finestra si vedono solo colori accesi e lucidi con forme rettangolari e rotonde che affollano strada e marciapiede. La caffettiera sul fuoco chiama e Carlo non risponde assorto tra i suoi pensieri "chissà come se la passano i miei cugini americani?".

giovedì 3 maggio 2007

alieni

La scena si apre entrando in un pub dove, nonostante spessi vetri colorati, il sole filtra rifratto e rende surreale il fluttuare di microparticelle nell'aria. Subito sopra la birra e al braccio nel maglione blu che la regge si avviluppano inconsistenti molecole in linee di luce. Giulio siede di schiena aggrappato alla sua pinta necessariamente mezza vuota. Guarda il sottobicchiere distorto dal culo del bicchiere e bagnato di condensa. Qualcuno ciancia poco lontano con la mano destra infilata in una busta da 25 grammi di patatine aromatizzate al pomodoro. Ketchup.
Il nostro protagonista, Michele, è nel bagno localizzato dopo il bancone, in direzione opposta alla pesante porta di ingresso. A destra. Lo troviamo in piedi di spalle davanti alla tazza bianca e disegnata. Qualche adesivo alla parete ad indicare qualche nuova moda, un band inequivocabilmente indie rock. Ed ovviamente un sito internet. A quell'ora di poco successiva alle quattro l'odore tra quelle strette pareti piastrellate è neutro come dentro una busta nuova della spesa Coop. Si sente solo lo schioccare del piscio. Poetico come un assorbente galleggiante in un mare limpido, caraibico. Liberatorio come l'indulto.
Fuori, dentro il pub, pochi cambiamenti. Negli schermi accesi una cantante sculettante si è sostituita ad una ammiccante, una mano si è avvicendata alla precedente nel recupero delle ultime croccanti patatine. Il vociare prosegue su argomenti seri come lo può essere l'acqua gassata. Diversamente dall'effervescente naturale l'umorismo è calcolato solo per sopperire a buchi di attenzione introdotti dal crocchiare delle patatine tra i denti. E rendere frizzante una conversazione sul marxismo leninista. La birra di Giulio è ancora più vuota e calda. Il sole finto si indebolisce fuori dai vetri verdi, gialli e rossi, venati come le mani dei vecchi per atrofia dei tessuti sottocutanei.
Michele, scorgendosi veloce allo specchio, si sorride di lato senza scoprire i denti. Schiocchia un "thcì!" con la lingua e spinge la porta con l'intero palmo della mano.
Nessuno si aspetta una invasione aliena, nessuno nota l’interruzione dell’attimo che preannuncia la tragedia.

Michele solleva la sua birra e tocca il bicchiere con quello di Giulio. Nuovamente pieno.
“alla tua”
Giulio sorride, da un piccolo sorso inclinando quasi impercettibilmente il bicchiere e riattacca a parlare di quella ragazza senza un braccio.
“è bellissima” dice sognante.
Cristina, questo il suo nome, è una ragazza di 22 anni che spesso passeggia con una qualche insignificante amica lungo Via Zamboni. Ha un fisico esatto come gli esercizi copiati dal libro delle soluzioni e due occhi blu che rimangono impressi. Veste spesso di nero ed ha sempre qualche particolare viola. Con i suoi orecchini, piuttosto di un nastro allacciato in vita a mo di cintura (od una collana di piccole sfere colorate) Cristina arride della concezione teatrale della vita. Non hanno senso per lei tutte le maschere, le logiche dell’appropriatezza, gli aperitivi solo per sfuggire ad una inevitabile noia. Passeggia quasi sospesa, libera. Come un disattento cane può passeggiare per uno zoo safari. Fragile e cosciente di un altro mondo. Spesso con una sigaretta in mano di marchio Pall Mall. Soffiando il fumo spesso incrocia Giulio che rallenta il passo a metà tra l’attratto e l’imbarazzato.
“insomma…come si abborda una che non c’ha un braccio?”
“basta non chiederle: “Scusa, mi dai una mano?””
“stronzo!”
Michele beve un altro sorso. Pensa ad altro ma non sa nemmeno lui dire di che si tratta. Una sensazione, forse la stessa che spinge i topi ad abbandonare per primi la nave danneggiata. Forse il bisogno di una dormita decente, dopo le ultime due sere appoggiato a casa di Giulio girando fronte/retro i boxer, rimediando una maglietta ed usando il dito come spazzolino. Come quando da piccolo rimaneva a dormire a casa di Marco. Usava quel dentifricio alla menta talmente forte che per due minuti il respiro pareva gelarsi in gola.
“…l’ho vista anche oggi” lo richiama alla conversazione Guido “devo assolutamente fare qualcosa che mi viene una faccia troppo da idiota quando la vedo…” e prosegue comico. Come può esserlo un ragazzone alto e robusto appollaiato su di uno sgabello al bancone che parla e parla, incentivato dall’alcool e dal troppo tempo libero. Alla coppia poco dietro che masticavano patatine fritte tra i loro discorsi, si sono sostituiti vari gruppetti multicolori. Sparsi ed estesi nel legno ciliegio del pub come vivaci muffe. Il chiacchiericcio diventa incomprensibile e camuffato da una qualche colonna sonora. Odore di primavera da una camera chiusa. Una ragazza bionda ordina affrettata uno Spritz proprio accanto a Michele. Lui la guarda, lei lo ignora. Poco dietro la attende una sua amica seduta al tavolo da un buon quarto d’ora. Ha finalmente smesso di tormentare il proprio telefono. L’attesa in un pub è necessariamente nervosa. Si passa il tempo leggendo il menù, la composizione e le nere preconizzazioni dei nostri pacchetti di sigarette e si beve tendenzialmente più in fretta. Spesso ci si finge impegnati col proprio cellulare mentre in realtà si scorre annoiati la rubrica.
“ecco a te, …sono 3 euro”
La bionda si allontana con il bicchiere pieno del suo liquido rosso Aperol allungato.
“…mi domando se lei mi abbia mai notato, ti ricordi quella festa dove c’era pure lei?”
Pur ricordandosi nel dettaglio Michele risponde di no. Vuole tagliare la conversazione, portarla su un argomento più intellettualmente costruttivo. Ha voglia di dissentire, discutere per poi sintetizzare nuove basi di ragionamento e sa che, se gli desse corda, Giulio passerebbe un’altra ora a parlare di Cristina. Poi lei stessa, chiamata in causa come una improbabile coincidenza, varca la soglia del pub. La porta si socchiude facendo filtrare quel poco di sole rosso che ancora rimaneva a riscaldare i portici, come fa ad ogni passaggio. Poi si chiude lenta ma senza cigolii. I due tacciono. Lei raggiunge alcuni amici, poco lontano dal bancone. Le portano una bottiglia di Henieken. Giulio si domanda che fare. Michele legge un messaggio sul cellulare; una situazione carica di divenire e lui si ritrova escluso. Il suo più grande desiderio è isolare il mondo continuare a bere, parlare di una poesia di Hugo tornatagli alla mente proprio ora e, infine, dormire. Ma Giulio è troppo teso, non lo seguirebbe in nessun genere di discorso, ordina due birre.
“questo è il mio giro” dice. Forse cercando di farsi sentire da Cristina che sorride mostrando i primi denti bianchi, forse semplicemente ubriaco.

Quando si prende senza cautela un liscio foglio di carta e ci si taglia, si rimane increduli a guardare la falange. C’è l’illusione che il cervello sbagli. Gli occhi diventano grandi e l’espressione più o meno grave. L’olfatto si annulla e l’udito peggiora. La fronte corrucciata nei pochi istanti precedenti il disegnarsi di una mezzaluna rossa. Poi ci si asciuga il dito rilassando la fronte. Sussurrando: “che coglione”. Non facendosi ascoltare dai colleghi. È un momento in cui le leggi naturali non esistono. In cui la carta diventa anche forbice.
Così immagino come possa sentirsi Cristina mentre Giulio le parla e lei aspetta di ordinare un’altra bottiglia di birra al bancone. Ora che le si seccano le parole ed indovina di avere perso uno di quegli istanti in cui, il folle correre parallelo di tutte le vite, si inganna toccandone altre. Incrociandole. Si tocca la cicatrice sotto il gomito sinistro, dove pochi anni prima proseguiva il braccio. Mette Giulio sulla difensiva. Lo imbarazza e non dice niente. Lo guarda cercando la voce, la sua innata vitalità. I dialoghi dei film si avvicendano ma non riesce a coglierne uno da riproporre. Da ricopiare per lo meno. Giulio fissa per un attimo la sua pinta, ne prende un sorso. Michele finge di non far parte della scena benché ne sia il protagonista.
Poi arrivano gli alieni e muoiono tutti. Perché gli alieni sono cattivi.