mercoledì 29 luglio 2009

Racconto di uno che aspetta la fine del ciclo di lavaggio della propria lavatrice

Questo è il racconto di uno che legge un libro che narra la mirabolante vicenda di un altro che ha scritto il libro. In arte: l'autore. Sottofondo di ventilatore, sudore sulla schiena appiccicata alla copertura indiana del divano, digestione di carne aromatizzata all'aceto balsamico.
Quando in frigorifero c'è un'incredibile puzza di merda basta tagliare un limone a metà e buttarcelo dentro. Quando succede con un libro non si può fare altro che riporlo secondo un ordine cromoalfabetico nella libreria e ricordarsi di non ripescarlo.
Comunque. Il discorso è che c'è questo tizio seduto sul divano, crogiolato nella propria digestione e in un libro che odora di nuovo e di edizione esclusiva ed esente dagli sconti del caso. La lavatrice scandisce un ritmo sincopato e la strada fuori dalla porta finestra fa il coro. Sara è lontana da abbastanza perché ci si domandi che stia facendo, il futuro ormai sembra appartenere ad un passato che di giorno in giorno sembra più glorioso, il pavimento è sporco ma senza polvere. I piatti sono ordinati nel loro armadio.
Sono le 22 e 35.
Gira la pagina numero diciannove con l'interesse che si può avere per le trasmissioni televisive del primo pomeriggio. O per la digeribilità delle uova sode.
Succedesse qualcosa andrebbe anche bene ma sembra molto una sera uguale ad un'altra in cui si rimandano le cose a domani per poi aspettare di rimandarle nuovamente. Quasi all'infinito se non fosse che le bollette ed i generi alimentari scadono.
Poi finalmente la lavatrice finisce il ciclo di lavaggio economico.
La novità è che si sente quasi sollevato ad interrompere quella lettura.

giovedì 16 luglio 2009

Vent'anni

Penso ancora a quando si dormiva fino alle tre del pomeriggio perchè non avevamo voglia di caricare la sveglia. Era una bella scusa alla quale fingevamo di credere tutti e due. Saltare la lezione di diritto perchè il docente prendeva le firme ed a noi questa cosa è sempre stata sulle palle. Siamo maggiorenni e vaccinati al punto da poter decidere se andare a lezione o saltarla, ci decevamo con le vene del collo gonfie di rivoluzione. Eravamo talmente anarchicamente maturi da optare, alla fine, per saltarle tutte. O la maggior parte. Senza dire niente ai genitori. Poi con le lumache nello stomaco, e la notte appesa alle palpebre, alle tre ti sfioravo una spalla. Allora seppellivi la testa sotto il cuscino e mugugnavi qualcosa allargando le gambe. A me piaceva. Fingevi di voler dormire ancora quando era chiaro che anche tu volevi fare l'amore. E lo facevamo. Delicato, assonnato ed a lungo per ricadere, sudati ed estasiati, nuovamente uno accanto all'altro a rimirare il soffitto bianco godendoci gli ultimi brividi. Poi sì che era un piacere cominciare la giornata. Fare la doccia insieme e magari rifare un'altra volta l'amore abbracciati sotto l'acqua fumante od attaccati alla tenda di plastica a fiori chiusi in silenzio in bagno. Il mondo fuori poteva aspettare, non eravamo ancora pronti. Poi la colazione giù al bar dell'angolo dove, sfogliando il giornale quasi vecchio, oltre al cappuccino ed alla brioche potevi prenderti un deca di fumo o, se andava di lusso, dell'erba oppure ascoltare qualche pensionato lamentarsi di questo e di quello. C'è sempre qualcosa che non va. E poi buttarsi di petto col sole del tramonto a baciarci la fronte verso il centro.Gli uccelli in cielo e noi abbracciati impegnati a camminare fissandoci negli occhi. E poi a ridere specchiando nelle vetrine le nostre facce poco cinematografiche, entrare nei negozi di abbigliamento e provare qualunque cosa per poi uscire rigorosamente a mani vuote. Eravamo felici e contenti, spensierati nullatenenti ventenni padroni del mondo. Non avevamo l'auto, i soldi per i concerti ed una benché minima idea sul futuro. Programmare un fine settimana in giro da qualche parte o le ferie al mare in agosto con la mia super tenda e la macchina fotografica sempre appresso con cui abbiamo scattato migliaia di foto. E poi le abbiamo riviste centinaia di volte distesi sul letto con lo stesso entusiasmo di quando le abbiamo vissute. Era fantastico pensare al futuro in termini di viaggi, scogliere, cene in rive al mare, amore ad ogni ora ed in ogni dove e falò sulla spiaggia. E finire sdraiati sull'erba fresca del parco a guardare i bambini rincorrere i cani ed i cani rincorrere i frisbee, gli aquiloni perdersi nell'ultimo sole e le chitarre cantare canzoni americane, bottiglie di birra abbandonate sotto gli alberi secolari e ragazzi fumare a torso nudo studiando per gli ultimi esami prima di tornarsene a casa per le vacanze. E noi a berci addosso migliaia di parole, lasciandoci dolcemente incantare dalla bellezza della natura, dalle farfalle e dalle nuvole, dal tuo ombelico scoperto e dalle margherite tra le dita dei tuoi piedi. E mangiarti di baci senza mai saziarmi per finire con la bocca secca ed il cielo bruno. Alla fine, tornare a casa la sera tardi era bellissimo. Sapevamo già come sarebbe finita una volta aperta la porta. Era tutto chiaro come il giorno, quasi ripetuto a memoria e nonostante questo non ci stancavamo mai. E attraversare il ponte buio ululando poesie d'amore alla luna ubriaca con le macchine come saette accanto a noi e gli Eurostar sfrecciare sotto rincorrendo Roma, Ancona, Firenze o Milano...
Era fantastico ignorare che un giorno sarei passato anch'io sotto quel ponte con un Eurostar.

lunedì 13 luglio 2009

Pausa: lavoro.

Un sacco di tempo, un sacco di acqua sotto ai ponti quasi da affogarci. Sapore di caffè bruciato aderisce al palato. Traffico davanti e sole che scalda le spalle. Il vantaggio dell'open space è che faccio fatica a leggere le parole sul computer con tutta questa luce. Tutta questa luce mista di sole e neon. Ibrida. Aria condizionata e l'orologio digitale sul cellulare sincronizzato con quello dello schermo davanti. 14 e 35. Muovo il mouse in circolo disegnando un filo inutile di pensieri. Sul tavolo delle cose da fare e l'intenzione di farle. Diciamo buona volontà. Certo sarebbe più piacevole che le cose si facessero da sole. Sfruttando l'inerzia. Come quando gli argomenti si tirano fuori da soli barricati dietro un genocidio di lattine di Birra Moretti da 33. Domani è l'anniversario della rivoluzione francese. Tanto per contestualizzare. Per ancorare alla realtà questo pomeriggio etereo cullato dalle auto che passano. Rallentano e ripartono.
Poi suona il telefono e lo guardo agitarsi come un insetto sulla schiena lotta per la sopravvivenza. Gira in senso antiorario. E con lui il nome di Carlo. E con lui un rumore noioso. Rispondo con un entusiasmo da Giro di Italia in televisione. Con una verve da Acqua di Giò. Per nulla spontanea.
Segue una conversazione che mi distoglie parzialmente dai miei pensieri.
Riaggancio consapevole del mal di testa che mi accompagnerà domani con gli immancabili compagni: alitosi e mani incerte. Guardo le fatture da codificare. Considero che più o meno 3 metri sopra la mia testa c'è la macchinetta del caffè. Una valida alternativa. Se solo avessi voglia di alzarmi. Muovermi. Scuotermi.
Alla fine preferisco lavorare. Forse anche perché il lavoro nobilita l'uomo ed io ho bisogno di attaccarmi a qualcosa. In fin dei conti.