lunedì 26 luglio 2010

La ragazza alle mie spalle

Era seduta due posti più a destra di noi. Al bancone del bar. Era con quella sua amica rumorosa che si era costruita una identità stonata. Una che dava l’impressione di portare fuori il cane in abito da sera. Non so se mi spiego. Ciononostante non è di lei che volevo parlare, era solo una digressione. Roba accademica per punteggiare i contorni, roba che magari vi dico che io ero con un gruppo di amici sconosciuti in virtù del fatto che non volevo passare un’altra sera in casa. Provavo ad essere simpatico. Mi comportavo bene ed infilavo un sorriso dove riuscivo. La mia attenzione era però alle spalle. Su quella ragazza bionda in abito bianco. Su quel tatuaggio sulla spalla che doveva significarmi qualcosa.
Ordinai un’altra birra.
A quel punto la discussione era sulla campagna acquisti del Bologna o su qualcuno che si era comprato il Bologna, la squadra di calcio.
Sorrisi e presi un altro sorso. A disagio come un marocchino in pausa pranzo durante il ramadan. Roba da Topolino che si mangia un pollo arrosto assieme a Paperino e Qui, Quo e Qua una domenica a pranzo.
Aspettai che le dinamiche del gruppo prendessero il sopravvento nel centrifugo sfaldamento verso un’altra birra.
“Certo che fa caldo!” e “che fai quest’estate?” sono i discorsi che mi passarono accanto appoggiati al bancone con in mano i cinque euro per una media.
Constatai con Stefano che la ragazza bionda dietro di me non era niente male parafrasando un gergo giovanile decisamente fuori luogo a stomaco pieno.
A quel punto Stefano mi si piazzò davanti vomitando tutti i suoi racconti migliori ad un volume appena percettibile solo in fondo al locale.
La ragazza bionda probabilmente aveva smesso di parlare.
Dopo qualche minuto l’amica iniziò a competere con Stefano per il primato sul decibel.
Immaginai scintille all’incrocio dei loro sguardi.
Poi mi persi un po’ a pensare alla natura ondulatoria e corpuscolare della luce, alle onde energetiche di Dragon Ball ed alla reinterpretazione dei migliori successi dance in chiave acustica. Tutte cose che succedevano qualche anno prima. È che rimango irrimediabilmente ancorato al passato. Succede sempre così.
Anche quella sera quando la ragazza bionda che avevo scoperto chiamarsi Chiara se ne andò continuai a pensare a lei. E a fare stupide battute da quindicenne sul suo nome.
Stefano intanto continuava ad urlare per via del Pratello.

giovedì 22 luglio 2010

Matrimonio

A questo punto tutti battono sul tavolo ripetendo “discorso, discorso, discorso, discorso” e le posate sobbalzano con piatti, bicchieri e companatico.
È un momento che richiede un tasso di sobrietà ragionevolmente basso. Fortunatamente è il mio caso.
Mi schiarisco la voce mentre goffamente mi alzo.
Pantaloni neri con la piega al centro, camicia bianca, cravatta e giacca su misura. Mi valorizza, è questo che mi hanno detto in negozio. E con un sorriso dieci minuti dopo lubrificavano la stretta fessura del loro pos con la mia carta di credito. Ora comunque mi sento a disagio. La sensazione è quella di indossare un vestito non mio. Recitare un ruolo a cui non sono preparato.
Prendo un sorso dal bicchiere e le bolle appuntite si insinuano tra le otturazioni dei molari. Stimolando un sorriso forzato. Coraggio.
Tutti intanto sono immobili a guardarmi. Facce tirate ed occhi aperti che si distingue il colore dell’iride anche delle terze file. Da qui sembra una ripresa a 360 gradi. Quello dove il protagonista fa qualcosa di eccezionale, determinante ed impossibile.
Lei è bellissima, anche più del solito. Sarà per il vestito bianco e quel sorriso incerto che non mi pare averle mai notato.
Inizio inciampando in un “bè, grazie a tutti”.
Mi stupisco di non aver mandato qualcosa a memoria per l’occasione ma succede in un attimo. Subito dopo lapideo mi fisso sui piedi nemmeno ci avessi due chiodi conficcati e continuo a parlare. Il tono passa dall’incerto al comprensibile. Non mi pare l’alcool allunghi troppo la pronuncia o arrotoli le parole. Anche le frasi mi sembrano chiare, per una volta. Consequenziali. Il fine d’altra parte è chiaro. Questa è solo una difficile formalità.
Ringrazio tutti per essere vestiti in maniera ridicola come me e aggiungo una battuta su dei pinguini che si incontrano in un bar. Lo faccio così, per sciogliere il ghiaccio. In qualche tavolo avverto una risata. Timidi segnali.
Proseguo.
In queste situazioni è sempre meglio non guardare nessuno. Mai fissare lo sguardo perché ci si deconcentra. Così non mi accorgo più di tanto degli sguardi che seguono alle mie parole. Alle cose che avrei dovuto tralasciare e a quelle che sarebbe stato bene sottolineare.
Dico che Maria me l’ha presentata Marco. Era una sera qualunque e ci eravamo incontrati per caso nello stesso bar. In quel periodo frequentavo Elisa già da un po’ e la nostra relazione era l’eco dell’incredibile attrazione che c’era stata. Roba da sesso sotto la doccia.
Dico che non mi ero mai lavato tanto e tutti ridono.
“ma sto divagando” mi scuso.
Maria comunque mi aveva subito colpito. Era troppo. Non riesco a descriverla in altro modo. Ed anche quella sera non devo essere stato molto loquace. Almeno non prima del terzo giro di birra.
Altre risate.
Applausi.
Sarebbe il momento giusto per concludere ma non riesco a resistere a questa orgia di attenzione.
Quindi vado avanti finchè qualcuno non mi batte sulla spalla e dice che può bastare.
“grazie” dice applaudendo teatralmente di lato. Mi guarda come un cordiale neonazista guarderebbe un extracomunitario mentre gli fotte la morosa, il lavoro e la macchina contemporaneamente. Certamente è lo sposo, fortunatamente disarmato e in una sala piena di testimoni. Constato che Maria non ha scelto male: il suo vestito lo valorizza più di quanto faccia il mio con me. Quindi dico “ora è meglio che vada”. E mi sembra un’ottima decisione.

Il mattino dopo ho dei ricordi vaghi. Spero solo di non aver raccontato di quella volta che con Maria ci ho fatto anche qualche porcheria.
Poi accendo il cellulare.
E capisco che l’ho fatto.
È stata proprio una gran bella festa.

lunedì 12 luglio 2010

Il frinire delle cicale, due Heineken ed una Coca Cola

Si domanda quando le cicale smetteranno di cantare. Può succedere in un minuto, un lento scemare come la musica dell’autoradio inghiottita dietro ad un finestrino elettrico che sale. Col sapore in bocca di chi ha cenato ma non troppo. Con moderazione, si corregge. Intanto non ci pensa. Si concentra sulle cicale. Impegnato al punto da ignorare pure gli attacchi ripetuti delle zanzare sui suoi muscoli poco tesi. Non suda, trattiene tutto facendosi asciugare da ogni giro di ventilatore che fa sbattere un poster alle sue spalle.
“Frinire” dice ad alta voce, tanto per sentirsi. Per accompagnare il concerto fuori dal terrazzo. Didascalico.
La storia è sempre la stessa: un film già visto, dei discorsi già sentiti e delle parole che non ha voglia di leggere. Quindi si gode il concerto seduto su una sedia precaria. Le mani dietro la testa, le gambe in avanti. Accavallate sugli stinchi filiformi. Una sigaretta certo la mettiamo in questa scena. Un piccolo ritocco ad una altrimenti troppo realistica invenzione. Nella mano destra quindi una sigaretta accesa incerta. Il braccio lo vedo molto come in quello della Morte di Marat. Ostentatamente vittima della forza di gravità.
Ed il concerto continua.
E sembra non succedere mai niente che poi quando succede troppo ci si stressa in un vortice di iperattività ed iposensorialità. Un po’ come quando ci si brucia la lingua con la prima portata di una cena fantastica. Quindi non si può far altro che ricordare. Intessendo trame più belle di quelle che in effetti erano.
C’era quella sera di qualche estate fa quando dopo il lavoro il nostro Andrea stava al solito tavolo in plastica bianca. Davanti 2 bottiglie di Heineken ed una Coca Cola. Vincent e Sara. Aria piombo che si attacca ai polmoni e piccioni troppo invadenti. Sara aveva un vestito bianco allacciato con solo un nodo dietro i capelli raccolti. Aveva questo collo che era roba da film porno preadolescenziale. Immaginate Liv Tyler in Io Ballo da Sola. Roba così. Parlava con Vincent mentre il nostro Andrea se ne stava attaccato alla birra a guardare l’aria occupare sempre più volume.
Poi il rutto trattenuto.
A questo punto Sara tirava dalla cannuccia arancione mentre Vincent non la piantava di parlare. Era simpatico Vincent. Aveva un sorriso contagioso ed amava fare cose improbabili. Fu così che quella sera si infilò la sua bottiglia di Heineken nel culo.
Il resto è storia.
Fuori dal bancone di Andrea solo un grillo strafatto di concime continua a cantare stonato.

lunedì 5 luglio 2010

Tormentoni estivi di 20 anni fa

(racconto liberamente ispirato ad uno dei tanti sondaggi inutili del sito repubblica.it cui partecipo durante le ore di lavoro)

Fuori dalla finestra il mio vicino ubriaco canta assieme al suo stereo tormentoni estivi di 20 anni fa. Roba che appena ricordo fatta di vacanze al mare, ombrelloni e romanticismo non ancora corrotto dalla pornografia online. Non è male a cantare il mio vicino. Ha questa voce che sembra stare bene con tutto. E poi conosce le parole. Nel suo terrazzo mima incerto una esibizione live impugnando un manico di scopa e poi un telecomando, sotto una notte di nuvole grattate su una lavagna con un gesso rumoroso ma impotente. C’è quel caldo che ti appiccica allo schienale dello sdraio con la trama in tubini di plastica rossi. Quello che ti spinge a posizioni improbabili e spesso a tenere la pancia scoperta.
Mi viene in mente Enrico nel piccolo terrazzino in boxer da spiaggia e canottiera con i piedi in un secchio di ferraccio recuperato chissadove.
Un pomeriggio estivo.
Quel giorno decise che non aveva senso fare il pesto alla genovese con i pinoli, che le noci andavano più che bene.
Quel giorno capii che stavo crescendo e forse avevo sviluppato una personalità asociale fatta di sughi pronti e monodose per non dovermi preoccupare di come conservarli. Fondamentalmente mi confondeva l’inquantificabilità del “una volta aperto consumare entro pochi giorni”. Probabilmente retaggio del fatto che quando mio nonno mi parlava dell’altro giorno per lui erano gli anni della guerra e per me il 1987.
Mangiammo spaghetti Coop col pesto alle noci di Enrico mentre mi raccontava di questa ragazza che aveva conosciuto a lezione. Quella che passava il tempo a disegnare fate ed elfi durante le ore di macroeconomia. Quella che due giorni prima gli aveva chiesto se poteva fotocopiare i suoi appunti.
“e sai che significa questo?” domandò affermativo.
Lo guardai mentre allungavo l’ultimo boccone di pasta con una bottiglia da un litro di birra aperta da giorni ormai sgasata.
C’è da dire che Enrico probabilmente aveva ragione e quella che seppi chiamarsi Giulia magari ci sarebbe pure uscita con lui. Del resto solo nell’intimità portava quella improbabile canottiera a metà tra il gay pride e le raccomandazioni di una madre apprensiva. Per il resto era ineccepibile. Sapeva anche qualche barzelletta ed usava con minuzia il filo interdentale prima di uscire.
Pensai che non sarebbe stato male se Giulia avesse avuto una amica.
“che dici?” domandò il mio ego accaldato ma ancora ribelle.
Lui era su di giri. Col caffè avevamo aperto l’immancabile bottiglia di amaro fatto da un implacabile ubriacone che, applicando la stessa teoria dell’efficienza di Enrico, era riuscito a imbrigliare tutti i gradi dell’inferno in 1 litro di liquido torbido vagamente aromatizzato con qualche radice. Stava in una bottiglia da vino di quelle verdi, con un tappo di sughero e anche con tutto il supporto di Wikipedia non saprei dire bene che sapore avesse. Ma non era male però, piaceva anche a qualche ragazza: quelle alcolizzate croniche.
Fu così che Enrico si alzò in piedi tenendo il suo cellulare come fosse una spada laser.
Fece un movimento rotatorio barcollando. Poi si ricompose ed iniziò a scorrere la rubrica. Incominciò dalla A soffermandosi di tanto in tanto per un sorriso che ricambiavo complice mentre mi scolavo la sua bottiglia.
Poi si arrivò alla G e le mie antenne iniziarono a vibrare. Mi sentivo tipo cicala rumorosa. Passammo un paio di volte da Giada e Giuseppe senza passare per nessuna Giulia. Lui disse che era sicuro di averlo salvato.
Cercai di staccare un pezzo di noce che si era rimasto incastrato tra i premolari che notavo solo allora.
“devo averlo salvato!” disse appoggiandosi sul divano curvo e minaccioso come un gancio da macellaio sul telefono.
Non trovammo il numero, né il modo di averlo benché chiamammo sia Giada che Giuseppe.
E poi non ci parlammo per il resto del pomeriggio.
Enrico si riprese la sua bottiglia ed io Bologna non mi ero mai sentito tanto solo.
Per fortuna ora posso aggrapparmi alla disperazione del mio vicino di casa che ormai in mutande canta con un cartone di vino in mano.
E devo dire che non ha più quella bella voce intonata di poco fa.