giovedì 31 dicembre 2009

I bei tempo andati (storiella altalenante non troppo impegnativa)

Qualcosa di poco impegnativo. Aspettando il pranzo. Rispettando una consecutio temporum che trascina la mattina nel pomeriggio. L’eco del caffè è il richiamo del pranzo. Il frigo minimalista di salse e surgelati per tutte le occasioni. Ciononostante non so bene cosa ho voglia di mangiare. Non è una questione esistenziale ma semplicemente congiunturale. Come un incontro più o meno fortuito. L’altra sera ad esempio ho rincontrato dopo un gran tempo Karl e subito sono venuti a galla nel mio stomaco vagamente allagato un sacco di ricordi sconvenienti. Sentimenti tipo invidia del pene. Nello specifico il suo che penetrava dentro Erica.
C’era l’odore di legno bagnato e freddo e ricordi di fumo.
Karl indossava una felpa Abercrombie arancio e teneva i gomiti appoggiati al tavolo.
A questo punto mi ha chiesto come andasse ed io ho risposi che stavo da Dio. Praticamente in paradiso. E lui sembrava anche ne fosse contento. Poi gli ho tirato una bicchierata in testa che lui tutto sommato ha accettato con magnanimità.
C’era un gran casino nel locale e solo pochi erano interessati a noi due anche perché c’erano un sacco di ragazze. E anche io avrei voluto avere quella distrazione anche se tutto sommato questa posizione scomoda ma malinconica non mi dispiaceva così tanto. Bevvi un sorso sublimando nicotina in ottemperanza al cartello vietato fumare. Certo ci sarebbero stati risvolti e sicuramente non propriamente porno.
Karl disse quindi eccheccazzo. Più per cortesia che per effettiva necessità. Non era incredulo, sofferente, sanguinante, devastato, morto. Era semplicemente lì. Bevve un sorso dal suo bicchiere e continuammo a parlare dei bei tempi andati.

giovedì 24 dicembre 2009

Neve

Negli ultimi tempi tutte le mail sono firmate Buon Natale o Buone Feste. Spesso con caratteri colorati e poco ortodossi. Alcuni estendono gli auguri alla mia famiglia, altri mi augurano anche un felice anno nuovo. Come se cambiasse qualcosa.

Fuori non nevica e nemmeno accenna a piovere un po’. Anzi. Fa piuttosto caldo e per strada c’è ancora più gente del solito. Si accalca nei negozi per comprare questo o quest’altro articolo. Ogni tanto qualche bambino piange. I mendicanti si danno battaglia, come ogni anno. Dal mio ufficio posso vedere 10 metri di questo moto continuo. Mi distrae.
Respiro l’aria depurata della stanza con un sapore vago di eucalipto e torno al mio schermo.
Una icona indica una nuova mail. La ignoro e torno alle mie fatture ripassando le persone nella mia vita che si aspettano un regalo e quelle che lo meriterebbero. Dopo circa 2 ore decido di aprire la casella della posta.

Da: francesca
Inviato: giovedì 17 dicembre 2009 15.09
A: dante
Oggetto: ...

ciao, torni anche quest'anno per natale?
come stai?
un bacio,
francesca

Silenzio.
Domande si domande che si accavallano a situazioni. Possibilità.
“Lascia perdere”
“Perché?”
Incongruenza di due blocchetti Lego che stranamente non si incastrano. Cubi di Rubik. Dizionario Latino-Italiano Castiglioni Mariotti. Musica concettuale. Acne. Esposizione di arte contemporanea alla Fiera di Bologna. Chilometri di niente da autostrada dell’entroterra spagnolo. Quiz televisivi troppo complessi. Decisioni posticipate, lasciate al caso. Destino perverso. Controsterzo in uno svincolo autostradale congelato. Sudore freddo e caldo alle tempie. Tutto bene.
“Caffé, prendo un caffé”
Seguono attimi di concentrazione flebile e falsa. Di facciata.
Scene di me e Francesca che facciamo l’amore si sovrappongono allo schermo piatto affollato di finestre e geroglifici che ho davanti. C’è quella sera di fine primavera in cui ci siamo lasciati senza sapere bene come che scorre al ritmo delle mie dita sul tastierino numerico. In una fattura di qualche compagnia aerea vedo le nostre facce sospese che masticano parole inconsistenti e subito dopo, saltando un buco temporale di anni agrodolci, io e Francesca che facciamo molto più sesso di prima.
La casella della posta da leggere ora è vuota.
L’ultima volta che vidi Francesca fu qualche anno fa quando disse di aver conosciuto una persona importante. Aveva un maglione a collo alto e cenavamo in una pizzeria arredata come un pub irlandese. La pizza non era il massimo e lei aveva questa ciocca castana luminosa che le si muoveva sopra l’orecchio destro. Parlava con una voce sottile ma di quel momento ricordo ogni parola. Mi era tutto chiaro forse anche da prima del maglione a collo alto e la pizza al tonno.
Scorro con la sedia lontano dalla scrivania.
Ripasso le facce degli amici di un tempo che vedo più adulte ogni Natale. C’e Marco con la giacca a vento lucida Monclaire ed i capelli corvini dritti in testa e Pippo con i suoi improbabili maglioni e gli occhiali da vista dalla montatura spessa. Poi contraggo qualche muscolo di cui non conosco il nome. E basta.
Decido.

Il 17 dicembre comunico al mio capo che dal 21 sarò in ferie e contestualmente informo mia madre del mio imminente arrivo.
Entrambi sono dapprima stupiti poi uno si incazza e l’altra si dichiara “felicissima”. Parole sue.

Questa sera cenerò con Carlo. Porterà a casa dal lavoro 3 grosse ceste cariche di prosecco, spumante, zampone, lenticchie, arance, mandarini e noci. Me lo anticipa con un SMS incomprensibile dove mi chiede anche di andare a comprare un po’ di puré solubile.
Carlo lavora nell’ufficio acquisti di una grossa azienda. Non ho ancora capito cosa produca. Ho visto il sito internet e nella pagina “prodotti” c’è scritto connettori. Carlo non è riuscito a darmi altri dettagli. E non è che poi ci interessi molto. Era per dire.

Quando rincaso trovo due buste di zampone che galleggiano nell’acqua fumante di una pentola troppo piccola. Carlo è sul divano, come sempre a quest’ora. Sul tavolo da 9 euro in truciolare una bottiglia di spumante immersa in una insalatiera in vetro piena di ghiaccio.
“Buonaseeera” dicono i suoi occhi fissi sullo schermo del computer.
Prendo un sorso dalla bottiglia e sistemo con cura la giacca su una sedia dalla seduta in paglia e struttura in legno scuro.
“Domenica parto” dico con la convinzione dei messaggi di servizio alla stazione di Bologna.
Carlo continua a visualizzare video su youtube.com. Non c’è poi molto da dire. In questo momento forse razionalizzo. La sensazione è chiara: dolorosa sconfitta e rassegnazione.
Nello schermo 15 pollici del portatile precario sulle ginocchia del mio coinquilino qualcuno perde la propria moto da cross in un salto a parecchi metri da terra. Una voce fuori campo dice “oh my god!”. Si interrompe il brusio del pubblico di sottofondo quasi tutti prendessero fiato allo stesso momento. L’omino, un casco bianco su tuta blu, guanti e stivali, pare guardare la telecamera per un secondo. Come nei cartoni animati. Poi rovina al suolo. Sordo.
Carlo si gira un secondo con un sorriso e torna al computer.
Prendo un altro sorso dalla bottiglia e vengo a patti con il mio orgoglio.
Carlo intanto ha trovato un nuovo video. Me lo comunica attraverso la porta del bagno.
Dice: “questo non te lo devi assolutamente perdere”
Intanto piscio. Sarà il freddo ma il mio pisello sembra più piccolo.

A cena non guardiamo la televisione. Il nostro vecchio 21 pollici Samsung con videoregistratore incorporato ha dei problemi col tubo catodico. Ogni immagine ha dei colori improbabili, quasi lisergici. Comunque. C’è la radio accesa.
Carlo ha finito la prima bottiglia e l’ha lasciata affogata nel ghiaccio sciolto nell’insalatiera sul tavolino del soggiorno.
Ammetto che lo zampone non è venuto male ed il puré solubile ha un sapore vagamente genuino. Rustico. Come sulla confezione.
Scena conviviale, un po’ l’Appartamento Spagnolo un po’ Continuavano a Chiamarlo Trinità.
Brindisi.
Alla radio passa la pubblicità di una banca che si offre di sobbarcarsi un mio mutuo. Usa un tono umoristico molto anni novanta: cinico. Tra una battuta e l’altra definiscono la loro offerta. Prestiti su misura anche per lavoratori interinali, scemi di guerra, studenti fuoricorso, over 60 con un cancro alla prostata, decerebrati, ragazze madre, preti, ausiliari del traffico. Già, anche per gli ausiliari del traffico. Immagino grasse risate. Applausi.
Torno alla cena. Zampone e poi puré.
Il tavolo in cucina è bianco. Combatte con l’umidità come un vecchio con l’artrite. Alcune parti delle gambe sono scrostate e scoprono un legno vero con molli venature scure. Roba d’altri tempi: vecchia. Non so perché mi capita di distrarmi sui particolari. Probabilmente è la seconda bottiglia di spumante.
Carlo intanto racconta di un capodanno in campagna.
“Non so nemmeno dove avevamo rimediato tutta quella gente” dice.
Internet? Numeri di telefono nei bagni dell’autogrill? Flyers dai titoli allusivi stampati su carta colorata?
“Poi c’era Stefania, Michele, il Botta e Napalm. A proposto ti ho mai parlato di Napalm?”
Sì, me ne ha parlato. Aveva detto “Napalm: dove piscia lui non cresce più niente.”
Si ripete e prosegue col racconto.
“Bè insomma. Tornando alla festa. Ci siamo noi nel giardino davanti a questo casolare che inneschiamo botti più o meno legali. C’è anche chi tiene in mano quegli assurdi bastoncini che fanno le scintille, da festa giapponese. Poi di colpo PAM! Salta la luce. E tutti che ci guardiamo alle spalle verso il casolare improvvisamente silenzioso e scuro. Minaccioso. Qualcuno è basito, qualcuno dà fuoco a qualche fontana ed illumina qualche metro di scintille rosa. Altri disinteressati o ubriachi brindano stringendo gli occhi per abituarli al buio.
Il fatto è che eravamo persi in mezzo alla campagna senza l’idea di dove fosse la levetta del contatore. Forse poteva saperlo Gimmi che aveva affittato la casa ma se ne era andato da qualche parte con Iris. Un bello scherzo del cazzo!”
Rabbocca il bicchiere di spumante e segue dopo averlo svuotato per metà.
“Sai, Iris non era affatto male. Usciva in compagnia con noi anche se era di un’altra scuola. Aveva i capelli biondi alle spalle ed un sorriso allusivo. Forse anche per quello ero lì ed invece mi trovo io con Napalm e un altro numero indefinito di persone a incespicare alla ricerca del contatore di quel cazzo di casolare. E niente. Non si trovava. Qualcuno bestemmiava. Poi, non so chi, iniziò un coro tipo fuoco e fiamme. E tutti dietro. Una scena tra rito pagano e follia collettiva. La paglia si definiva sempre meglio con la luce bianca della luna. Arrivava alle prime finestre del fienile impilata in blocchi rettangolari. E noi a cantare. Contavo i botti che mi erano rimasti e gli accendini che avevo nelle tasche larghe dei pantaloni militari. Pensavo alla felpa nuova indossata inutilmente per l’occasione. L’avevo comprata con i soldi ricevuti a Natale. Devo avercela ancora da qualche parte. poi la cerco e te la faccio vedere. E poi mi dici se non è ancora bella. Alla moda!”
Mi guarda un attimo, incerto. Con la faccia di chi ha un nome sulla punta della lingua ma proprio non riesce a ricordarlo. Si scompone i capelli troppo lunghi e sbatte gli occhi. Io aspetto, mite. Recupero ancora qualche pezzo di cena dal piatto da portata affollato come una stazione di provincia il 17 ottobre. Cerco di immaginare Francesca oggi, chissà come porta i capelli e che maglione veste. Carlo prosegue riprendendo la parola basso ed incerto.
“Quindi. Tipo 10 minuti ed inizia ad alzarsi un fumo bianco e denso tipo panna montata. E noi continuavamo a scoppiare petardi verso il fienile. Napalm sparava dritto i suoi bengala dentro la finestra come nei film di guerra. Poi sono arrivate le fiamme e poi i pompieri. E noi lì fermi a guardare con la bocca aperta. Innocenti. Non saprei dire in quanti si davano da fare con estintori e manicotti. Urlavano ordini e nessuno di noi che diceva niente. Era molto Hollywood ma più caldo e sudato. Non ci volle molto a spegnere l’incendio. Dopo rimase un odore di paglia bagnata persistente che si attaccava ai vestiti sopra lo strato affumicato. Gimmi il butterato in tutto questo si era addormentato con Iris in una delle camere del casolare che, tra parentesi, era di un qualche amico di suo padre. Dovevi vedere che faccia aveva il giorno dopo.”
Carlo svuota il suo bicchiere con un sorso da ubriaco.
Sorrido e non capisco se ho ascoltato tutto il racconto. Continuano a galleggiarmi in mente quelle tre righe della mail di Francesca. Magari non volevano dire niente. Magari voleva solo sapere se esisto ancora dopo due anni che non ci si sente. Sapere come sto. Sarebbe anche normale. Non riesco a concentrarmi. È sicuramente la luce della cucina ad essere troppo chiara per qualsiasi riflessione. C’è il colore della stanza della poltrona del dentista. Anche per questo non abbiamo spesso ospiti.

Finita la cena usciamo lasciando i piatti sporchi nel lavandino bianco.
Non abbiamo ancora deciso la destinazione. Camminiamo dividendo una bottiglia di birra.
Carlo propone un locale dove non ho nessunissima voglia di andare. Dico che non lo so.
“Mah, non so…”
Continuando un passo dopo l’altro mi chiede dove possiamo andare allora.
“Mica ho voglia di congelarmi” dice.
Ho la stessa mente vuota di quando mi costringo ad indovinare il resto di un acquisto qualsiasi.
“Allora?”
Farfuglio per qualche passo. Prendo tempo ed ancora ripasso la risposta da inviare a Francesca. Cerco le parole giuste. Allusive. Mi lascio trasportare.
“Ok, andiamo al Corto”
Passeggio apatico, non mi esprimo che a monosillabi. Fortunatamente Carlo ha un sacco di cose da raccontare.

Quando arriviamo per fortuna il locale è inspiegabilmente vuoto e troviamo il posto e la calma per due malinconiche birre servite in bicchieri da cocktail.
La barista ci guarda con la faccia di chi vuole solo tornare a casa mettersi comoda con un bicchiere di vino a nuclearizzarsi con qualche rivista superficiale e patinata. Io cerco di sembrare solidale e lei si sposta verso il lato opposto del bancone col cellulare in mano. Incomprensioni adolescenziali. Carlo continua a chiedermi dove andiamo dopo. Ormai ha il bicchiere vuoto ed il mio è ancora praticamente pieno. Ne ordina un altro che significa un altro anche per me.
La barista si trascina allo spillatore. Appoggia alle sue spalle il telefono e riempie altri due bicchieri. Mi sento in dovere di dirle qualcosa.
“Grazie”
Lei fa un cenno, raccoglie i soldi contati e torna al suo SMS.
Potevamo lasciare qualche euro di mancia, forse.
Parlo a Carlo di Francesca e lui mi guarda stranamente sobrio. Saranno gli occhi neri pennarello.
Gli dico che non so cosa aspettarmi.
“Non so cosa mi aspetto, so solo che ho fatto incazzare il capo quando gli ho chiesto le ferie”
“Vabbè, ma che ti importa? Tanto tu lo schifi quel lavoro. Lo dici sempre”
“Si, ma. Ok. Forse hai ragione”
Carlo dice che mi aiuta lui a rispondere alla mail.
“Tranquillo, ci penso io” e aggiunge, dopo un sorso veloce “il poeta maledetto”
Chiede alla annoiata e bionda cameriera un foglio ed una penna. Questa gli porta il tutto e rimane poco distante, curiosa. Quasi viva. Faccio considerazioni poco nobili che tengo per me. Carlo intanto sul foglio ha scritto con tratti veloci.

CIAO,
CERTO CHE VENGO, ASPETTAMI A GAMBE APERTE.
TUO,
DANTE

Mi allunga il biglietto e dice “fanne buon uso, buon Natale”.
Immagino imbarazzato la barista poi provo a distrarla ed ordino le ultime due birre.
“Poi basta” aggiungo.
La barista sorride nervosa e recupera due bicchieri puliti. Sono certo che ci odi.
Chiedo a Carlo che ha intenzione di fare a Natale.
Lui risponde prendendo un sorso e facendo una smorfia.
“Sarò a casa dai miei verso le 12 con una busta contenente un paio di pantofole per mio papà taglia 43 e una cornice per mia madre con una foto di me a 19 anni appoggiato alla mia prima auto. Una Y10 verde petrolio di seconda mano. Per mia sorella avrò quella macchina digitale da 8 megapixel rosa che ti ho fatto vedere l’altro giorno. Sul tavolo apparecchiato di antipasti ci sarà un centro tavola con pigne, agrifoglio e qualche fiocco rosso e oro o argento e blu. Ci saranno anche i miei nonni materni che mi domanderanno se ho fatto domanda per entrare in banca o in qualche ufficio comunale. Poi mangeremo con la televisione accesa. Un pranzo a 4 portate culminante col tradizionale panone bolognese preparato dalla nonna. Per le 17 sarò sicuramente a casa con qualche centinaio di euro in più in tasca. Magari ti manderò un messaggio in cui ti chiederò di salutarmi la tua amica”
“Francesca”
“Appunto”
Sorrido con la birra ormai a metà. Nervoso. Intanto è arrivato qualche altro avventore e nel locale ci saranno almeno 10 persone. Mentre ci alziamo incerti sono felice di lasciare la barista in compagnia.
Carlo la saluta e lei ricambia.
Io ho un conato di vomito che riesco a rimandare aggrappandomi a un vago concetto di contegno.

Del giorno dopo è meglio non parlare. Mi sveglio troppo tardi per arrivare puntuale al lavoro e quando anche arrivo riesco solo a combinare casini. Confondo le valute nelle registrazioni, mi tremano le mani e non riesco a consultare gli archivi in ordine alfabetico. Immagino il capo, un uomo corretto e calvo con un handicap alla gamba destra, controllarmi dal suo ufficio alla fine della sala con le nostre postazioni monouso. Un monitor piatto, una tastiera ergonomica ed un mouse griffato Logitech. Il mio cestino contiene già il guscio di plastica marrone di 4 caffè. 11 e 17. È come se la notte scorsa avessero imbottito la mia austera sedia blu con le ruotine. Mi si chiudono continuamente gli occhi su una visione scura della stanza che sobbalza. Poi di nuovo la realtà illuminata fredda dello schermo piatto Dell.
Mi ripeto in mente un po’ di bestemmie nervose ripassando la serata precedente a tinte catastrofiche memore di altre serate ben più catastrofiche. Sudo e continuo a passarmi la mano tra i capelli. Guardo sottecchi i colleghi attaccati alla scrivania. Concentrati. Quanto vorrei essere come loro.
A pranzo, davanti all’ovvietà della nausea scappo a casa e recupero 15 o 20 minuti di sonno.
Nei miei occhi chiusi rivedo il neo impercettibile accanto al capezzolo destro di Francesca poi suona la sveglia del telefonino e mi sento completamente solo.
Il resto del pomeriggio al lavoro passa come un uovo sodo in gola.
Non faccio altro che salvare bozze di email. Insoddisfatto e remissivo. In bocca nicotina e caffeina: speedball.
Verso sera inizia la decompressione. L’aria di festa impazza con mail di auguri inviate da e verso tutti i contatti dell’azienda, filiali comprese. Ci sono quelle con Homer dei Simpson vestito da Babbo Natale, quelle con delle filastrocche cacofoniche e melense, quelle con le foto di Anne Geddes e quelle tradotte in una infinità di lingue. Le inoltro tutte all’indirizzo di Carlo che risponde con la foto di due zingari vestiti da scalcagnati Babbo Natale con fisarmonica e tamburello. In basso a destra una bottiglia mezza vuota di vodka con una etichetta verde.
Sotto l’immagine scrive:

natale ad Istanbul – prossimamente nei migliori cinema.

Carlo

Ps. Stasera cena da Gigi?

Segue l’informativa ai sensi del D.Lgs 196/'03 c. d . Privacy che non leggo ritornando al presente dell’ufficio.
Quando controllo l’orologio in basso a destra nello schermo è certamente il momento più felice della giornata, definitivo. Un’orchestra di computer si spegne e nel vuoto produttivo galleggiano pacche sulle spalle, buone vacanze e ci vediamo l’anno prossimo. Ci si bacia sulle guance e ci si stringono le mani. Sabrina mi augura buone vacanze e mi racconta di come si è organizzata per rientrare in città a capodanno.
“Ho sentito dire che in piazza ci sarà un concerto mica male” improvviso.
Lei sorride e risponde “infatti”. Mi racconta che si farà una cena da lei. Elenca il menù per intero come recitasse una poesia durante l’ora di italiano con tutti che la guardano. Altezzosa. Si interrompe sui dolci. È indecisa.
“Meglio il tradizionale pandoro farcito di crema fatta in casa o una torta allo yogurt?”
Ci penso. Sabrina indossa un abito nero sotto un cappotto bianco. Ha delle unghie curate con smalto rosso ma poco evidente. Dà l’idea di una persona affabile ma sofisticata.
Le dico che non lo so, entrambi i dolci per me andrebbero benone.
Devo scrivere assolutamente a Francesca.
“E tu che fai?” domanda.
Le possibilità si aprono e si chiudono come le fiacche che sento nello stomaco da questa mattina. Immagino la camera di Francesca a casa dai suoi. Con quella finestra piccola e quadrata da ultimo piano di un caseggiato anni 70. Con le pareti dipinte. Col letto disfatto e plausibilmente noi due sopra. Non vedo alternative. Vedo Tony e Marco con un coca a rum in mano vestiti da playboy di periferia. Firmati fino ai denti. Ripasso i locali esclusivi con brindisi a mezzanotte, musica tutta la notte e colazione alle 7 di mattina. Mi viene in mente l’animazione di un villaggio turistico in Sardegna.
Le dico che ancora non lo so.
“Torno a casa” dico senza aggiungere particolari.
La immagino delusa mentre mi saluta un paio di battute più tardi. Egocentrismo.
Mi accorgo di avere le unghie sporche.

A cena da Gigi Carlo ripete i suoi sketch da ufficio acquisti. Comicità sull’incrocio tra domanda ed offerta. Deformazione professionale. Con noi ci sono Eleonora e Francesco, ex compagni di studi ora colleghi di Carlo che sorridono e ridono rispettivamente. La sua compagnia ha praticamente assunto tutti i laureati nella sessione estiva del 12 luglio di Economia ed io, con la mia laurea anticipata a marzo, ero rimasto incastrato con un contratto di collaborazione sottopagato in una azienda che commerciava sistemi di chiusura. Serrature e rivetti diciamo. Comunque, questo succedeva 2 anni fa. Col tempo ho raggiunto una certa stabilità ed accettazione della maturità all’alba dei trent’anni. A volte la chiamo rassegnazione. Più spesso flessibilità.
Stefania si avvicina. Si annuncia con un buonasera mentre apre il blocchetto per le ordinazioni.
Usa una matita piccola. Di quelle che si trovano all’Ikea.
“Che vi porto?”
Quindi chiediamo le nostre pizze.
Per me una marinara ed una birra.
A Carlo una gorgonzola e salame piccante.
Eleonora decide per una margherita e Francesco, dopo qualche indugio, chiede il solito risotto.
Tradotto: Francesco è celiaco, Carlo affamato, Eleonora prudente ed io ho una inarrestabile dissenteria e non lo voglio ammettere.

Il giorno dopo quando vedo passare per la sala Eleonora con addosso una felpa di Carlo penso a Francesca.
“Buongiorno” mi dice con un sorriso composto. Molto inglese.
La immagino in abiti ottocenteschi sorseggiare un tè da una tazzina in porcellana dal manico placcato oro.
“Ehi” mi limito a dire immergendo un altro biscotto nella tazza di latte freddo. Rassegnato. Questa è quella tazza che mi regalò Francesca 5 anni fa mentre passeggiavamo in uno stanco sabato pomeriggio in uno di quei negozi con i prodotti al prezzo fisso di 99 centesimi. Nostalgia e malessere generico. Oggi devo comprare i regali. Recessione.
Eleonora esce dalla cucina con un cartone di succo d’arancia in bilico sopra ad una scatola di latta di biscotti danesi al burro assieme a due bicchieri in vetro.
“C’è un vassoio in cucina, te lo prendo”
“Non importa”
Lo sapevo.
Controllo ancora una volta la casella della mail. Nessun messaggio nuovo. Poi scrivo.

Hey,
quanto tempo.
Qui tutto alla grande, qualche novità dall’ultima volta c’è anche. Sarà passato un secolo, spero tu non sia invecchiata.
Comunque.
Comunque domani sono lì e se non hai niente di meglio da fare –e sono certo tu non l’abbia– ci vediamo.
Un bacio,
Dante.

Il mal di testa mi impone di premere invio dopo appena una lettura veloce. Mentre assisto irrimediabilmente al mio destino compiersi parafraso la risposta in un cacofonico tentativo di risultare interessante ed arguto. Come mi immagino le piacessi a suo tempo.
Mi sento un po’ patetico e non è una sensazione digestiva ma permanente. Mi domando se comprare un regalo anche per lei e quanti soldi ho in banca da buttare in regali sbagliati e scelti in base al gusto del commesso di turno.

Dico: “vorrei un profumo per mia mamma, sa, è una signora sui 55 ma molto giovanile. Tradizionale ma innovativa”
Ed una ragazza in divisa Douglas mi consiglia un profumo di Gucci. Prende un campione lo spruzza su un cartoncino, lo agita e me lo trovo sotto al naso prima di considerarne il prezzo.
Respiro i 50 euro del primo regalo.
“Un pacchetto regalo?” chiede con già una mano sulle forbici nel cassetto bianco sotto la cassa.
Ha delle sopracciglia sottilissime che, per contrappasso, mi ricordano quelle di Madonna negli anni ottanta.
“Certo” dico mordendomi il labbro.
Tutto il resto scorre da programma. Mi trovo, con 150 euro in meno rispetto a questa mattina, a passeggiare da Feltrinelli. Tra l’arredamento standard di tascabili impilati ed organizzati per autore, copertina e tema. Su qualche testo c’è un adesivo blu che comunica un allettante 20% di sconto. Penso a Carlo, Francesca e me stesso. A come si incastrino gli eventi e a come ce ne siano altri che non significano niente. Sia nel breve che nel lungo periodo. Penso alla bicicletta che mi hanno devastato lasciando intatto solo il lucchetto, ad Una Poltrona Per Due e ad altre ovvietà sul Natale, ai proverbi ed a mio nonno che non parla mai della guerra. Mi sento orfano di una casa ma non in senso architettonico. Senza ragione mi appoggio su una poltrona ed inizio a sfogliare un libro qualsiasi annoiato e tangenziale. Stanco, presumibilmente.
Carlo ed Eleonora probabilmente sono ancora a letto.
Mi sento solo.
Mia madre sarà impegnata a stendere la sfoglia o a comprare quegli odiosi tovaglioli di carta rossa che rimangono sempre appiccicati alle mie mani bagnate dal vino troppo freddo e gasato.
Francesca a quest’ora avrà letto la mia risposta e magari pure scritto qualcosa.
Il libro che ho in mano racconta di due coppie sedute ad un tavolo a discutere bevendo gin scadente. Vado ancora un po’ avanti a leggere poi mi alzo e lo lascio più o meno dove l’avevo preso.
Sono l’unico ad uscire senza una borsa in plastica griffata Feltrinelli. Ribellione.
Fuori mi si avvicina uno augurandomi buon Natale. Mi mostra dei libri sull’Africa e mi chiede un’offerta.
“Almeno un cappuccino” sorride mostrando i denti fino alle gengive.

La prima cosa che faccio tornato nell’appartamento è controllare la posta. Ho ancora addosso il cappotto grigio pesante quando leggo l’unico messaggio nuovo ricevuto. Proviene da un indirizzo sconosciuto e propone uno sconto del 70% su Viagra e Cialis. Lo leggo come un messaggio premonitore. Sorrido, chiamo Carlo ma non risponde nessuno.
Quindi decido di tornare fuori a completare il giro di acquisti.

Il giorno successivo sono in treno. Mastico ancora gli avanzi di un dvd che mi sono autoinflitto più per noia che per necessità. Ha il retrogusto di una bottiglia di vino rosso avanzata in qualche occasione particolare nella credenza tra l’olio ed i biscotti. Non so che ha fatto Carlo. Mi ha scosso dal divano prima di andarsene a letto con Eleonora e in qualche modo mi ha augurato buon Natale. Ha lasciato un pacchetto sul tavolo Ikea. Spero tanto non sia una di quelle compilation con le canzoni di Natale che ha minacciato di regalarmi.
Tutto questo deve essere successo relativamente presto siccome stamattina ho trovato anche il tempo e l’intenzione di radermi e di caricare qualche nuova canzone sull’ipod.
A Carlo ho lasciato un biglietto sopra una raccolta di racconti di Hemingway in sconto a 9 euro e 90.
Il biglietto dice:

BUONGIORNO TESORO.

È firmato:

LA TUA GATTONA

Spero tanto lo veda Eleonora. Anche se non capisco bene perché. Immagino centri il cameratismo e la misoginia. Ma sono solo le prime parole che mi vengono in mente.
Provo a tornare alla musica che ho nelle orecchie. Intanto passo in mezzo al nulla di una pianura fatta al massimo di umidità condensata in nebbia. Tengo il ritmo con un dito che batte sul ginocchio destro. Poi seleziono un’altra canzone ed un’altra ancora ma rimane una claustrofobia da ripetizione. Fretta ed ansia. Passo dal folk al rock a qualcosa di più inatteso tipo Prodigy. Provo a sonnecchiare come tutti quanti ma non riesco. Quindi mi lascio trascinare in un viaggio dalla durata soggettiva doppia. Come gli ultimi 5 minuti di corsa per finire l’allenamento. Avanti, avanti. Poi una stazione di un paese che sono già pronto a dimenticare. Poi avanti. E daccapo con un nuovo nome per una omologa stazioncina deserta. Atomica.

Alla fine finalmente suona il telefono. Inatteso che quasi non riesco a rispondere in tempo.
Rispondo.
Mia madre mi domanda se va tutto bene.
“Certo” dico impermeabile.
Mi parla delle previsioni. Hanno fatto un servizio alla televisione.
Ha il solito tono lento ed accomodante. È come se mi rallentasse tutto e mi desse finalmente il tempo di ragionare. Razionalizzare.
Dice che potrebbe nevicare su un sottofondo della pubblicità.
“Sarebbe bello” continua “ti ricordi quella volta che avevi montato le catene sulla macchina? Eravamo andati in centro per passeggiare. C’eravamo Solo noi: io, te, papà e quella tua amica. Come si chiamava pure?”
“Francesca”
“Sì, sì. La Francesca. Appunto. Dì, sarebbe mica bello venisse a nevicare?”
“Sì, sarebbe niente male”

venerdì 11 dicembre 2009

L'emisfero boreale

Probabilmente era una delle cene meno sane che consumavo negli ultimi due anni. Beh, certo, se non consideriamo anche le due volte da McDonald's, la cena al cinese e la vacanza negli Stati Uniti, possiamo tranquillamente affermare che si trattava senza dubbio della cena meno salutare degli ultimi quattro anni.
Tre wurstel di puro suino, un sugo riscaldato di pomodoro e cipolle preparato da non so chi (forse da Giuseppe), tre tomini nauseabondi ma squisiti, qualche fetta di salame Negroni e, per concludere, Puzzone di Moena portato direttamente da Pinzolo da Marco, che forse ignora che Pinzolo è il paese di origne della Spressa... ma poco male, il tutto innaffiato da una mezza dozzina di Hell's Beer. Già, proprio la birra più economica mai commercializzata da Lidl.
"Ciao vecchio, come va?
"Insomma..."
"Come insomma, se non va bene a te, caro mio... e Sara, dov'è? Credevo sarebbe venuta anche lei"
Già, dovevamo andare a sentire i "La ira de dios" al Cox, un gruppo peruviano nonchè il preferito di Sara.
""Mmm, ti devo dire una cosa"
"Su avanti sputa il rospo"
Chissà da cosa deriva il modo di dire "sputa il rospo". Magari nel Medio Evo (dato che tutti modi di dire hanno origine proprio in quel periodo) si era soliti mettere un rospo in bocca a chi non doveva parlare oppure era, che ne so, una punizione per chi parlava troppo o faceva gossip...
"Oggi ho lasciato Sara..."
Appena ho sentito quella frase un boccone di Wurstel di puro suino mi si ficca nel canale sbagliato ed a momenti non muoio soffocato. Ho cominciato a tossire come uno che si è scolato metà Mediterraneo e, per nulla preoccupato del mio stato di apnea, sottovalutando tutti i rischi che possono derivare da una prolungata assenza di ossigeno alle cellule del mio cervello, cercavo di dire
Ma dico, ti è dato di volta il cervello? Come cazzo ti è saltato in mente di lasciare Sara, l'unica ragazza che ha avuto il coraggio, non solo di farsi vedere con te, ma pure di andarci a letto!
Poi pianin pianino, quando gli spasmi da soffocamento avevano cominciato a passarmi e le cellule neuronali erano ormai al sicuro, col sudore che mi colava sulla fronte, sono riuscito a biascicare
"Ma sei un coglione!"
Sia chiaro, non è che Sara fosse tutto questo splendore ma, detto fra noi, voi non conoscete Silvano. Dio mio, Silvano è un incrocio tra un ritratto cubista di Picasso ed un cane Carlino venuto male. E' un mio grande amico e non parlerei mai male di lui in sua assenza ma, cazzo, è veramente strano. Ha un viso talmente asimmetrico che se gli guardi il profilo sinistro e poi si volta, beh, sembra un'altra persona... ma nessuna delle due decente. Almeno Sara, era sì brutta e culona ma era simpatica, o meglio, non rompeva i coglioni. Era la classica tipa soprammobile. Non fiatava mai, stava in disparte quando si parlava di sport, lasciava tutta la libertà che Silvano voleva e poi, questo bisogna riconoscerglielo, cucinava da dio, anzi da chef.
"Come sarebbe a dire -l'ho-lasciata? Forza chiamala subito e dille che ti sei sbagliato. Sì, inventati qualcosa, cazzo ne so, dille che avevi la febbre, che eri ubriaco... checcazzo, dille che era uno scherzo chiedile se c'è cascata"
"No, sa che non scherzo su questi argomenti. Poi, ho deciso..."
"Aspetta... aspetta un secondo capo. Come sarebbe a dire -ho-deciso?"
"Sì, stamattina quando mi sono svegliato ho guardato dalla finestra. C'era un sole bellissimo e tanta gente per strada. Mi sono fermato un attimo a fissare i passanti, i piccioni, le auto ed i tram poi mi sono chiesto se veramente mi piacesse Sara... e, beh, sono arrivato alla conclusione che forse non mi piace..."
"Ccccccccosa? Ma tu devi essere diventato scemo. Cazzo vuol dire -forse-non-mi-piace? Ma dico, in quattro anni che state assieme, solo ora te lo sei chiesto? Amico, fatti vedere... ma da uno bravo!"
Roba da matti. Non mi sembrava vero: Silvano, dopo quattro anni o forse tre o cinque, non so -mica ci stavo io con Sara, scopre che Sara non gli piace? Cioè, se voi sapeste di chi sto parlando, capireste. Mi sentivo, non so per quale motivo, investito da non so chi di compiere una missione importantissima: impedire che Silvano lasciasse Sara.
"Siediti. Anzi, prenditi un bicchiere dallo scolapiatti e una birra dal frigo. Poi siediti"
"Sì, mi rendo conto di aver fatto una cazzata, o qualcosa che si avvicina molto ad una cazzata, ma so che se non lo avessi fatto stamattina, non sarei più stato in grado di farlo. Questa mattina, guardando fuori dalla finestra ho visto una coppia. Avranno avuto più o meno sessant'anni ed andavano a braccetto. Avevano un cagnolino al guinzaglio e spingevano un passeggino. Forse il nipotino. Sembravano felici anche se era mattina presto e faceva freddo e lei... zoppicava. Mi sono immedesimato in quei due vecchi e... accanto a me non c'era Sara. Credimi, mi sono commosso. Questo vuol dire che..."
"Te lo dico io cosa vuol dire. Vuol dire che sei un coglione. Anzi no, sei un assassino. Hai spezzato il cuore di quella povera ragazza solo perchè sei un cazzone egoista, ecco cosa sei, altro che palle!"
Non mi rendevo conto di quello che stavo dicendo. Ero comandato da qualcun altro. Quando le parole mi uscivano dalla bocca era come se non solo le avesse pensate ma le avesse anche pronunciato un altro. Le ascoltavo per la prima volta. Vi giuro che non le pensavo io quelle stramaledette parole. Dovevo fare qualcosa. Assolutamente, dovevo riuscire a starmene zitto e tornarmene a fare i cazzi miei. A mangiare i miei wurstel ed il mio Puzzone. Pensa te che roba. Io, che non ho una donna da secoli, che sono uno stronzo, anzi, il classico stronzo in quanto a ragazze, che mi mettevo lì a fare il moralista col povero Silvano. Ma che cazzo stava succedendo? Mancava solo che l'acqua cominciasse a scendere negli scarichi in senso antiorario ed era la conferma che il mondo andava alla rovescia. Fatto sta che, l'unica cosa che sono riuscito a fare per tapparmi la bocca è stato riempirmela di birra. Mi sono attaccato al collo di una boccia Hell's Beer da 66cl e me la sono scolata tutta in un solo sorso. Poi, dopo un tanto sonoro quanto catartico rutto me ne sono stato un pò zitto. Anche Silvano se ne stava zitto zitto. E fuori dalla finestra non c'era il sole e nemmeno la luna ma c'era... sì, ne sono certo, un asino volante.

mercoledì 18 novembre 2009

Un pomeriggio

C’è una nebbia umida quasi piovosa, le tinte incerte da accenno di miopia e odore caldo di castagne.
C’è quella sensazione di eternità che spinge sulle ginocchia e che vomita pensieri che non ricordavo. Ci sono degli studenti che si lanciano delle patatine davanti ad un McDonald’s. Da quanto questa città è diventata così scontata? Da quanto Carlo non fa più una festa alla quale posso infilarmi a bere gratis dispensando le mie peggio battute? Da quant’è che ho questa sensazione di suicidio in concomitanza con la suoneria in crescendo della sveglia incastrata nel mio Nokia?
Mi guardo ancora un po’ attorno, le mani infilate in tasca più per moda che per effettiva necessità termica.
Poi, alla fine, mi ritrovo ancora una volta a bere una birra.

venerdì 13 novembre 2009

Una discussione

L’altra sera ho avuto una discussione. Strano per me che cerco sempre di evitare queste situazioni. Mi vesto non eccessivamente fuori moda da farmi notare, prediligo i colori scuri così che non si riesca bene a ricordare se mi ero o non mi ero messo effettivamente quel maglione scuro. Che poi non me lo ricordo nemmeno io. E succede che a volte finisco a vestire sempre gli stessi vestiti per settimane senza rendermi conto che sarebbero anche sporchi. Comunque ripescando il filo del discorso ed i suoi piombini fissati coi denti l’altra sera c’è stata questa sorta di battibecco. Insomma ero in quel locale che mi piace un mondo. Abbastanza trasgressivo per avere sia un numero di decibel che i prezzi ragionevolmente bassi. È un posto praticamente sconosciuto dove giuro una volta hanno pure appeso un quadro che io avevo dipinto. Ci sono le sedie deliberatamente spaiate e ciondolanti ed io sono parecchio amico col barista. Ci diamo del tu e barattiamo soldi con birre. Si chiama Stefano e non ho ancora trovato un diminutivo o un soprannome che gli possa calzare. Che in quel posto tutto è talmente creativo che mi sento annientato. C’è una sorta di luce galleggiante che illumina tutto e anche la più grossa stronzata puzzolente sembra una trovata geniale. Roba tipo merda d’autore ma in aria più indierock da occhiali spessi e camicia in flanella. Quelle cose di moda e notevoli loro malgrado. Quelle che ci faranno sorridere quando saremo vecchi, impotenti ed in aria di demenza senile. Bè insomma ieri sera ero ancora una volta al bancone e c’è stato questo scambio di battute. E ribadisco che io non volevo proprio. Ci siamo detti due cose io e Franco. Ma non è che poi abbia tanto importanza. Mi era sembrato quand’ero là.

lunedì 2 novembre 2009

Il mio amico Giulio è andato ad abitare in un posto sperduto nell’Appennino Tosco-Emiliano

Siamo in un paese di vecchi e bambini, diciamo Vedegheto. È una frazione di un comune che non è poi così comodo da raggiungere. Il supermercato è uno sgangherato camion frigo una volta ammiraglio della flotta BoFrost. Passa in paese alle 11 e si ferma nel parcheggio dell’unico ristorante per un’ora circa. Dalle 10 ci sono già nonne e nipoti ad aspettarlo. È l’evento della giornata e nell’attesa ci si intrattiene come nella sala di attesa del medico: raccontandosi disgrazie.
Quando il camion ripart svuotato bene bene è verso mezzogiorno e le strade si fanno presto deserte. Si disegnano timidi percorsi di fumo bianco fosforescente nel cielo cristallino che passano le ultime vette delle colline.
A questo punto i bambini guarderanno sicuramente uno dei pochi canali che la televisione qui riesce a sintonizzare mentre le vecchie si danno da fare sui fornelli. Immagino una di quelle pentole da brodo in alluminio ammaccate dagli anni.
Noi passiamo con la nostra 206 verde diretti verso una strada sbagliata, ostinando fiducia nelle improbabili scorciatoie proposte dal navigatore.
Il rumore dell’auto non coinvolge nessuno. Tutti troppo interessati alla loro quotidianità.
“Mi sa che stiamo andando a fanculo” dice Piero parafrasando gli 883.
“Già” gli rispondo con gli occhi fuori dal finestrino, lontano in un campo lucido che probabilmente sa di gelo.
Continuiamo avanti parlando poco sulla colonna sonora dell’unico cd che si ripete. Abbiamo pochi argomenti. È quasi sempre così quando siamo sobri. Ci perdiamo in ragionamenti banali da vergognarsi che preferiamo tenere per noi. Tipo tutto questo pensare alle montagne ed alla vita agreste. E a domandarsi se agreste è l’aggettivo adatto o suona solo giusto. Se con questi pensieri posso imbastire un sentimento da raccontare in qualche occasione accompagnato da un tavolo traballante, bicchieri di vino di vetro spesso ed una ragazza qualsiasi dei miei sogni. Magari Antonella che è partita per chissadove con le responsabilità che possono avere 5 anni in meno dei miei. E poi che responsabilità? Probabilmente non mi è ancora passata la sbornia di ieri. E perché questo maglione Benetton e la giacca con le toppe ai gomiti? Ah sì, perché erano gli ultimi vestiti ancora puliti. Cazzo, dovevo fare la lavatrice. Mi sollevo un attimo dal torpore del sedile avvolgente e sportivo.
Piero dice “porca puttana” alla strada bianca che ci troviamo davanti. Poi rallenta fino a che ci fermiamo. Io avrei inchiodato sollevando la polvere tipo film west ma tant’è.
Il navigatore è convinto a farci proseguire. La strada che abbiamo davanti è colorata di viola nel display.
Piero gira la macchina ed il navigatore protesta.
“Ricalcolo” dice e poi aggiunge “appena possibile effettuare una inversione a U”. Un atteggiamento testardo da recidere i nervi sottili di Piero che inizia a ripassare ad alta voce le bestemmie che conosce.
Poi spegne il navigatore e lo lancia sui sedili dietro senza curarsene troppo.
Ora scendiamo inerti per l’unica strada possibile col motore in folle. Inchiodiamo in curva e poi riprendiamo a poco a poco velocità.
Al paese in cui ripassiamo intravediamo una televisione accesa in sala da pranzo. Mi viene una fame della madonna.
Ci fermiamo al ristorante, mangiamo come maiali e beviamo come disperati.
Al ritorno siamo molto loquaci e facciamo pure la pace col navigatore.

Tutto questo per dire che domenica scorsa non siamo andati a casa di Giulio perché abita in un posto decisamente irraggiungibile.

sabato 31 ottobre 2009

Telecronaca di un film dell’orrore (è Halloween e questa cosa fa audience)

Ci sono i soliti 4 liceali, 2 coppie. Una ragazza bionda, una castana e due ragazzi che potrebbero sembrare gemelli. Stessi capelli tagliati corti e stessi jeans consumati negli stessi punti. Parlano di qualcuno che è fuori campo visivo. Quello che si dice sparlare.
È uno di quei momenti di pausa da liceo americano. Interminabili ore passate in un immenso giardino del campus appoggiati ad una fontana finto rinascimentale mentre entrano ed escono dall’inquadratura un ragazzo che insegue una palla da football americano, una ragazza che si affretta con dei libri, due amici che parlano di musica, un professore con toppe marroni nelle maniche della giacca.
Ci sono poche nuvole e l’erba sembra muoversi in una sonnolenta ola che sfuma verso destra. Il rumore sono parole sottili e perfettamente tornite.
La ragazza bionda ora parla della sua casa in campagna tenendosi i libri al petto. Non nascondo un certo interesse per le sue forme troppo generose per una attrice non professionista.
Poi c’è un’altra mezz’oretta di vicissitudini e velate allusioni sessuali e si finisce alla festa nella casa di campagna di Stacy (tipico nome da ragazza bionda americana con 4 di seno) dove il classico maniaco sventra quasi tutti tranne 3 protagonisti su quattro. Facciamo morire uno dei due con i jeans strappati lasciando un interessante triangolo.
A questo punto la mora, il cui ragazzo è appena stato appena dissezionato, dice: “non può essere…”. Chiaramente lo fa in stato di shock seduta in un angolo con le gambe tirate al petto. Anche lei ha una maglietta scollata. Anche lei è più bella di qualsiasi ragazza si incroci normalmente per strada (viali inclusi).
Ora quindi c’è spazio per la sua storia. Diciamo 5 minuti buoni in cui il maniaco magari è andato a farsi uno spuntino di carne umana e non sembra più così interessato all’ammazzeria. Poi proprio quando decidono di uscire gli si para davanti. Ha il classico completo da serial killer: una maschera ed un qualche tipo di uniforme. Mi piacerebbe tanto vestirlo da uno dei tre porcellini ma non funzionerebbe quindi fate voi. Comunque ha tanto sangue addosso e un gancio da macellaio in una mano. Strumento senz’altro impegnativo per compiere una strage.
Poi urla.
Poi corsa con inseguimento.
Poi la bionda viene infilzata per la schiena. Si vede un pezzo di una finta colonna vertebrale.
Poi si rallenta un attimo.
Colonna sonora altalenante tipo Lo Squalo.
Poi ancora inseguimento con camera a spalla da mal di mare.
Pathos.
Poi si arriva finalmente ad un luogo che c’entra qualcosa con il killer. Tipo un lago, un cimitero od un molo.
E c’è la resa dei conti. Nel senso che il cattivo deve morire.
Una morte atroce ma non proprio definitiva da lasciare possibilità al sequel.
Quindi i superstiti si abbracciano mentre arrivano le luci della polizia.
Chiaramente non si trova il corpo del maniaco.
E nemmeno della amica bionda.
Titoli di coda e musica inquietante.

mercoledì 14 ottobre 2009

Suicidio di massa

Ogni mattina ci svegliamo più o meno allo stesso orario. Patteggiamo con la sveglia prima di alzarci. Poi un piede davanti all’altro passano dal caldo tabacco del parquet alle piastrelle fredde del bagno. E acqua che si scalda e pensieri che si raggruppano in grappoli di uva grigia piombo. Ci ignoriamo concentrati in una attenta valutazione sulla lunghezza della nostra barba.
Diciamo rispettivamente: “oggi no” e “chissenefrega”.
Siamo più o meno come voi. Solo in pelli e vestiti diversi. Sistemati in loculi di dimensioni e province diverse.
L’aliquota irpef per il nostro stipendio è del 23%. Per esprimere in termini percentuali l’impatto dell’affitto sulle nostre vite. Peraltro in nero.
Anche noi come voi abbiamo un compito definito in obiettivi di breve termine inseriti in un elenco chiaro e sintetico, in una parola: efficiente.
- Chiudere la porta;
- Fare le scale ricordando di aver chiuso la porta quel tanto che basta da calcificarlo in testa per altri 5 minuti;
- Usare solo le parole “salve e buongiorno” evitando il “come va?”;
- Uscire alla sferzante aria tragica del mattino. A questo punto l’immagine che vediamo è una pubblicità di un supermercato di elettronica.
Ci domandiamo cosa campeggiava ieri al posto di questo folgorante manifesto rosso e ci convinciamo che le affissioni si cambiano al martedì. Con una frequenza concepibile solo traducendo complesse formule di uffici marketing con tazzine per il caffè in ceramica.
Quando arriviamo alla fermata dell’autobus la sigaretta è ormai bruciata a metà e l’autobus puntuale. Lasciamo perdere il suicidio da cancro ai polmoni optando per una soluzione più immediata. Quindi come tutti i giorni saliamo sull’autobus.

Mio padre diceva che il problema di noi giovani è che vogliamo tutto e subito.
Non me la sento di dargli torto.

martedì 6 ottobre 2009

Racconto in cui immagino di scrivere sull’autobus per andare a lavorare

Non ho voglia della solita storia d’amore nata ed abbandonata sull’autobus dai miliardi di risvolti possibili accartocciati nell’ennesimo foglio buttato. Sarebbe pura invenzione ed inutile sforzo intellettivo. Prendo l’autobus sempre con la precauzione di infilarmi gli auricolari con la musica alta e per questo tutto quello che ho da dire risulta sempre distratto e svogliato. Perché su quell’autobus mica ho voglia di andarci in realtà rimarrei più volentieri in casa. Anche a far niente. Un cheeseburger, una birra e un film qualsiasi in televisione. Mi basterebbe avere le interruzioni pubblicitarie inserite nei momenti giusti per andare in bagno o recuperare qualcos’altro da mangiare. Vorrei che la mia vita fosse così: un divano letto con accanto un tavolino su cui appoggiare birre e trofei ed un cesso inodore possibilmente sullo stesso piano. Vorrei essere l’impiegato dell’ufficio anagrafe di un paese dove non nasce e non muore nessuno. Vorrei essere il dio del cazzeggio con una connessione ADSL. Vorrei che le cose successe non avessero impatto su di me. Che l’intenzionalità cedesse sempre all’impossibilità.
Una volta ho conosciuto una ragazza che era un po’ tutte queste cose ma organizzate con la confusione di un adolescente in preda ad una crisi ormonale. Ed ora non ho la più pallida idea di dove cazzo sia andata a finire.

Pubblicità, rimanete con noi.

mercoledì 30 settembre 2009

Il soave canto dell'arpa

ATTENZIONE: questo racconto potrebbe turbare la vostra sensibilità. La parola "cazzo" compare per 13 volte.

Avevamo avuto un'altra idea geniale. Anche quella sera, dopo la quarta Harp Strong, Frenc era saltato su con: "cazzo ragazzi". Sì, parlava sempre al plurale anche quando eravamo solo io e lui e praticamente sempre eravamo solo io e lui. "Ci sono!" e vi assicuro che quando partiva con "ci sono!" era meglio allacciarsi le cinture di sicurezza, indossare il casco assicurandolo bene sotto il mento, stringersi forte allo sgabello del bancone e, schiarendosi la voce, tuonare: "Ludmilla ci suoni altre due arpe per favore?". Sì, le arpe ovviamente stavano a significare le medie mentre gli arpeggi avrebbero indicato le piccole ma, per ovvi motivi di convenienza e di sete, queste non sono mai state ordinate. La notte, quelle sere, era una striscia di asfalto scuro infinita, senza cartelli, indicazioni e traffico. Una lingua nera affascinante e coinvolgente, dritta e senza fine che ti spingeva a premere sempre più sull'acceleratore e sempre più a fondo. Era calda e rassicurante come l'utero materno. Poi, dopo aver tenuto a tavoletta per parecchio, quando arrivavi a tutta canna, a velocità tali che la vista rallentava sgranandosi ed i suoni si trascinavano cominciando a mischiarsi con i rumori, all'improvviso spuntava un cazzo di muro bianco, schifosamente candido ed angelico. L'asfalto veniva divorato furiosamente accorciandosi sempre più fino ad arrivare inevitabilmente a sbatterci contro la faccia. Qualche volta rischiando pure di perderci qualche dente o di farsi un occhio nero. Poi, il giorno dopo era faticoso come rinascere un'altra volta e nel giro di poche ore svezzarsi, imparare a camminare, a parlare e, insomma ci siamo intesi, no? Almeno una volta ciascuno di noi sarà nato e saprà quanto tempo ci è voluto e quanti sforzi ci è costato arrivare ad essere quello che siamo. Per qualcuno potrebbe non esserne valsa la pena ma questo è un altro discorso.
Poi Ludmilla ci ha spillato le due Harp Strong e Frenc è stato in grado di continuare: "per quale cazzo di motivo..." Già, anche "cazzo" era abbastanza frequente nelle sue dissertazioni. L'algoritmo che stava alla base della frequenza dei suoi "cazzo" era semplice. Bastava moltiplicare il numero di birre ingurgitate per il livello di infervorazione raggiunto lanciandosi in ragionamenti contorti come ulivi millenari, per il sudore secreto. Ecco fatto, infine bastava elevare il tutto al quadrato. Talvolta "cazzo" arrivava ad essere tanto frequente quanto un segno di punteggiatura. Diciamo ad esempio, quanto può esserlo una virgola in un tema.
"Per quale cazzo di motivo la maggior parte dei film che escono in queste sale del cazzo sono tratti da dei cazzo di libri mentre mai nessun cazzo di libro è mai stato tratto uno stamaledettissimo cazzo di film". Leggerlo, vi assicuro, che non rende nemmeno un quarto dell'effetto che un discorso di questa entità può avere se ascoltato in presa diretta. Vi avrebbe stregato, avrebbe potuto, alla fine, ipnotizzarvi e farvi firmare un assegno in bianco. Per rendere meglio l'idea dovete immaginare questo tizio, Frenc, alto quanto basta, magro un pò più del normale -il tutto sessantacinque chili coglioni compresi (come direbbe Hornby)-, con uno sguardo da spazzacamino ed i capelli da autista di tram mentre scampanella incazzato duro perchè qualche cazzo di automobilista ha parcheggiato l'auto sulle rotaie. Avete presente? Ochei, a tutto questo dovete aggiungere alcuni particolari: quando parla tende ad incurvare la schiena in avanti appropinquandosi sempre più a chi gli sta davanti (alcune volte talmente tanto da ritrovarsi sdraiato per terra), spesso nella concitazione del parlare lancia zampilli e meteore di saliva gesticolando come un invasato oratore nero cattolico del Bronx. Ecco questo è Frenc ma per dirla proprio tutta, Frenc non è il suo nome. Esatto, proprio come Giec non è affatto il nome del barista. O forse sì, non ricordo più bene.
Quella sera vi devo confessare che l'idea parve geniale anche a me. Provate ad immaginare di andare da Block Buster e trovarvi nello scaffale, accanto ai dvd, i libri che ne sono stati tratti. Trarre un libro da un film, ma ci pensate a Robocop tradotto in parole. O provate ad immaginare di leggere Terminator ed arrivare al punto in cui pronuncia la fatidica, memorabile, unica frase "I'll be back". Ovviamente io la lascerei in inglese, esatto, proprio come voi la state leggendo adesso. Non vi è venuta la pelle d'oca? Ribadisco, a me è sembrato geniale, quel qualcosa che ancora non c'è ma che tutti stanno aspettando. Sarete sorpresi da questa mia esternazione perchè magari avevate una certa reputazione di me ma, credetemi, rispetto a quello che spesso veniva definito geniale, questo lo era veramente. Giusto per allinearvi con quello che sto dicendo, dovete sapere che alcune genialate, termine col quale indicavamo a mente lucida, il giorno successivo, l'idea geniale del precedente, sono state:

1. invadere il Vaticano mentre il papa si trovava in tournee in Medio Oriente, ma mica tutto. Ci saremmo accontentati di un'appartamentino, un buco di un centinaio di metri quadri su piazza San Pietro. Poi ci sarebbe bastato riuscire a resistere per una ventina d'anni agli sfratti in attesa che, per la fantomatica legge dell'usucapione, diventasse nostro. Ci sembrava anche abbastanza fattibile. Non ho mai letto sull'Osservatore Romano di guardie svizzere attuare uno sfratto. Sono sempre tutte così colorate e gioiose con gli spadini luccicanti, gli elmetti brillanti e le balestre intagliate a tentare in tutti modi di entrare nel nostro appartamento. No, decisamente no. Non possiamo mettere i vigli urbani o la polizia sullo stesso piano delle guardie svizzere. Tutta un'altra cosa. Per finire, non ho mai nemmeno sentito nessuno che si è preso una multa in Vaticano perchè non aveva il casco o guidava senza cinture. Secondo me manco ce l'hanno stè guardie il blocchetto delle contravvenzioni.
Maledetti voi, non lo ammetterete mai ma so che state pensando che è un'idea geniale... ma sappiate che l'idea è nostra quindi se ci doveste provare e magari riuscire pure, ricordatevi di noi.

2. Avevamo anche pensato che fosse geniale comprare tre televisioni, costruire interi quartieri di qualche città, acquistare qualche giornale, il tutto magari anche non troppo lecitamente ma poi diventando Presidenti del Consiglio avremmo sistemato tutto. Ma, cazzo, mi han detto che già qualcun altro l'ha ritenuta un'idea geniale. Poco male.

3. Beh, che dire di quella volta che avevamo organizzato, su consiglio del Giec (il barista che non si chiama così o forse sì), di portare in teatro quelli che erano spezzati vita vissuta, reali, veri al 100%. Avremmo iniziato una nuova corrente di neoneorealismo. Anzi neoverismo. Avremmo offerto ai ben pensanti borghesi di città, alle impagliate signore ingioiellate altolocate dei circoli del bridge, ai mummificati avvocati in pensione che non hanno mai pronunciato la parola culo nemmeno per chiederlo alla moglie in una vita intera, una sicura vetrina su quella che è la vita della gente normale, dei ragazzi sboccati e sbraitanti di oggi, di due universitari che un martedì sera si ritrovano al pub e discorrono del più e del meno mischiando perle di saggezza a birre doppio malto, pillole di filosofia a bestemmie originali ed a cazzate supersoniche e chi più ne ha più ne metta. Per l'allestimento del palco avevamo già pensato a tutto: l'avremmo allestito con il bancone di legno del bar del Giec (contentissimo di prestarcelo per l'intera tournee.Lui sarebbe stao il nostro tour manager) e due sgabelli, magari un pò buio rendendolo nostalgicamente fumoso. Noi ci saremmo limitati a tracannare Harp Strong come solitamente facevamo nel nostro locale ed essere il più naturali possibili. Che ne pensate?

4. Un'altra genialata era stata quella di creare una linea di abbigliamento da esporre in un negozio... un momento, questa scusate ma non posso proprio divulgarla, ci stiamo lavorando perchè effettivamente la riteniamo ancora geniale...

Ma, scusate un secondo, per quale strano motivo vi sto raccontando tutto questo? No, perchè divagando, schiacciando un tasto quà ed uno là mi sono perso nei meandri della memoria e non ricordo più da dove ero partito ma, ancor peggio, non so più dove volevo arrivare. Mettiamola così, forse volevo solo ricordare con un pò di malinconia e condividere con voi alcuni memorabili momenti trascorsi quando davvero Tutto (con la T maiuscola) poteva diventare unico e geniale grazie al magico tocco di qualche birra.
Già, proprio così!

martedì 29 settembre 2009

Esperienza di vita: l’happy hour

È stata l’estate di qualche tempo fa. Ripetevo qualche passaggio di On The Road senza una spalla a cui appoggiarmi. Lasciarmi trascinare. Avevo un punto fermo ed un cellulare che riceveva e telefonava anche all’estero. Era bianco e di mia sorella. Faceva anche i video che per quei tempi era il futuro. Oggi è passato prossimo.
Chiesi una birra e me ne portarono due. C’era l’happy hour ed in quel locale funzionava così.
“Paghi uno e prendi due” sorrise il barista in bilico tra un piede ed un trespolo artificiale che si infilava nei suoi tatuaggi sul polpaccio.
Mi sentii improvvisamente ancora più solo. Di quei momenti in cui vorresti rifugiarti in un bel libro dalla copertina rigida, in una ideologia, in un messaggio lasciato in segreteria. Sarebbe anche bastata una qualsiasi partita alla televisione.
Ringraziai aggrappandomi saldo al primo bicchiere.
Il bar era mezzo vuoto. C’era un gruppo di ragazzi con più o meno la mia età di allora poco lontano. Sedevano attorno ad una grossa botte su cui avevano appoggiato un secchiello pieno di birre in bottiglia. Ridevano.
Ripassavo le migliori battute ma era come masticare una seppia poco cotta.
Bevvi quindi ripassando i testi di gioventù: bibbie dell’autodistruzione. E volevo essere come Arturo Bandini. Mi crogiolavo nella mia dislessia comunicativa.
Presto finì la prima birra ma il cameriere non accennava a portare via il bicchiere vuoto. Rimaneva appoggiato ad uno sgabello ad ascoltare una radio tenuta troppo bassa per fungere da sottofondo.
Per scherno continuavo a fissargli la protesi che era un semplice tubo di ferro con attaccata una scarpa da skate tipo Vans. Lui se ne fregava ed anzi sembrava esserne orgoglioso come un militare di una ferita di guerra.
Considerai la mia cicatrice sul ginocchio costatami uno scooter poi riattaccai a bere. Il telefono che faceva anche i video era acceso ma non suonava almeno da due giorni. Ero partito perché nessuno mi trovasse e nessuno ancora mi aveva cercato.
La birra intanto si era scaldata ed i ragazzi avevano recuperato un altro secchiello di bottiglie.
La sola parola che mi veniva in mente era: colpo apoplettico.
È una parola che ho scoperto in rete e ci tenevo davvero ad usarla. In fondo ci vuole poco per sentirsi meglio.

martedì 22 settembre 2009

Parlando svogliatamente di mio padre

Mi viene in mente mio padre che detta qualcosa alla sua segretaria. Tipo lettera. Passeggia con dei pantaloni grigio scuro quasi nero. Le pieghe decise del vestito rimandano a miti di navigazioni intercontinentali. E in quel momento mio padre è un uomo strutturato come un marinaio russo di sommergibili.
Dice: “fatta eccezione l’eventualità…”.
La segretaria è poco lontana e batte i tasti incastonati in un computer paleolitico. Saranno passati 15 anni ma ancora ricordo le grandinate delle lettere che si schiacciavano. Da quando ho una tastiera provo ad imitarla. Ho passato ora a digitare veloce il mio nome. Anche senza guardare. Ho imparato addirittura ad usare lo spazio col pollice: sforzandomi. Non sono mai stato così veloce. Dattilografia. Per scriverlo inciampo nelle lettere e mi faccio correggere dal correttore automatico del programma. Triste nella certezza che non avrò mai una segretaria ma al massimo una nuova versione del programma MS Word magari con riconoscimento vocale.
Comunque tornando a mio padre in quel giorno mi ritrovo annoiato ad ascoltare i suoi passi e la sua voce disegnare paragrafi. Trarre conclusioni. Poi ripete una frase. Poi dice di cambiarla.
“No, cancella” dice paziente e disteso.
E Stefania schiaccia ripetutamente qualche tasto per cancellare veloce. Poi rilegge l’ultimo periodo. Denso di parole rumorose da riempire la bocca.
Io sono seduto nella sedia girevole dal lato succube della scrivania scura di mio padre. Mi guardo attorno e la sola cosa familiare è una foto in cui siamo assieme: io, lui e mia madre. La cornice è in argento chiaro, quasi metallo anodizzato.

Mi alzo un attimo e faccio un giro nella mia stanza ingombra di vita trascinata.
Vedo una foto di Giulia e sorrido. Mi parla di quando avevamo affrontato un viaggio con solo una tenda bucata rammendata col mastice. Un’estate mica male. Strano mi venga in mente ora mentre cerco di fare altro. Tipo descrivere un momento più o meno importante della mia infanzia. Il fatto è che non sono mai riuscito a concentrarmi. Non mi ha mai interessato scrivere o far scrivere delle lettere interminabili e poi sono 5 minuti che sto qui davanti ed ho già voglia di andare nuovamente a controllare la mail. Sperando che a parlarne Giulia si sia ricordata di comunicarmi che mi ama ancora una follia.
Poi mi viene in mente mia madre che lascia mio padre in un bel giorno freddo di sole.
E di seguito la segretaria che dice: “non chiamarmi Signora Carlotti, chiamami pure Stefania”. Lo fa a cena con mio padre. Nella sua nuova casa.
Poi c’è un film di cui non ricordo il nome visto al cinema mangiando un hot dog di nascosto.
Poi c’è che domani devo svegliarmi ripetendomi che quello è il primo giorno del resto della mia vita. Che è come dire che questo è l’ultimo della mia vita attuale. Tipo che sto per morire.
C’è una strana interpretazione di questo momento che forse richiama la bibbia. O forse Pulp Fiction.
E anche questo non centra niente con quello che volevo dire.

Aspettando il Santo Natale

Lui ha trascorso una vita -se vent'anni possono essere definiti tali- in solitudine. Lui non è mai stato invitato ad una festa. Lui ha sempre cercato di schivare le pedate nel culo sferrate dai suoi pochi fidati amici. Lui è arrivato a preferire, tra tutti, l'insulto meno offensivo. Lui è sempre stato condiserato meno degli altri; meno di chiunque altro.
Lui era triste. Lui era brutto. Lui era chiuso. Lui era zoppo. Lui era schivo. Lui era inutile.
Lui stamattina si è buttato sotto la metrò rossa bloccando tutta la viabilità della linea per cinque ore.
Lui era anche una persona sensibile. Lui era una persona buona. Lui era una persona silenziosa. Lui era una persona rispettosa ma nel suo gesto non ha tenuto conto dell’angoscia e del trauma psicologico causato al conducente del metro che l'ha investito. Lui non ha pensato all'inspiegabile senso di colpa che per parecchio tempo quel povero conducente si sarbbe portato dentro pur essendo consapevole che in nessun modo avrebbe potuto cambiare il suo destino. Lui non ha calcolato lo shock arrecato alle centinaia di persone che hanno assistito alla scena.
Lui è morto.
Lui non è stato tranciato a metà od in tre pezzi come ci si aspetterebbe da un buon film splatter. Lui è morto semplicemente fracassato contro il muso del locomotore. Lui è morto spiaccicato come muoiono quotidianamente centinaia di migliaia di insetti. Lui non ha urlato niente per annunciare il suo gesto. Lui, discretamente, ha schizzato una decina di persone che si accalcavano, in ora di punta, sulla banchina. Lui non ha lasciato biglietti. Lui non ha lasciato lettere. Lui non ha detto nulla a nessuno. Lui non ha spiegato il suo gesto a nessuno.
La sua morte ha irritato migliaia di persone. La sua morte ha rovinato migliaia di giornate. La sua morte ha incasinato e complicato la vita di migliaia di persone.
Non si sa niente sul suo conto. Non si sa proprio nulla se non che Lui era il suo nome.

domenica 20 settembre 2009

Una serata speciale

Ho seguito Carla. Per questo sono qui. Le mie scarpe sono in tinta con la cintura ma chi lo potrebbe dire con queste luci che vanno e vengono? Tipo sirene dell’ambulanza, tipo faro metropolitano.
Quando Carla ha detto che era una serata speciale non ho indugiato molto. Ho risposto: “ok”. Ed ora cerco di seguire i passi di Carla in questo vedo non vedo. Con questa musica da cartoni del latte che esplodono su un pavimento di lamiera. Vedo un momento i capelli lisci volarle sopra le spalle. La considero nuda come l’ho già vista poche settimane prima. Seguo il tempo muovendo quasi unicamente le gambe mentre tutti in questo momento alzano le braccia.
Immagino un rito satanico celebrato dal capitano Kirk.
Il dj aumenta i bpm. Partono le luci stroboscopiche. Aumentano gli alti. Quello che dovrebbe essere un rullante suona come il frinire delle cicale. Tutti guardano su affamati. Mi si secca la bocca. Gli scatti delle luci diventano sempre più violenti. Il dj si mette in piedi sulla consolle urlando: “eeeeeeeeee”.
Poi cade.
È sempre bello uscire con Carla.

venerdì 18 settembre 2009

Incontro una ragazza che conoscevo al liceo

È proprio il momento per dirlo. La vedo poco avanti. Non ci incontriamo dal tempo in cui ascoltavo ostinatamente musica di nicchia cercando di trarne qualche spunto per la quotidianità. Una frase originale. Filosofia spicciola.
Lei è sempre la stessa, fedele alla foto della carta di identità. Ha anche lo stesso sorriso troppo amichevole per sottendere qualcosa. I capelli biondi portati con una astuta coda di cavallo tra lo sportivo e l'elegante. Quasi da camicia jeans.

Il dj ripete le stesse canzoni di sempre. Incastrato nel clichè del classico intramontabile. Sì, succede anche nei locali alternativi come questi. La luce è quella che serve per guardare nel buio senza sentirsi troppo osservati. Con abbondanti tonalità blu e rosse a scontrarsi.
Un'altra canzoni indie rock con quelle basi vicino alla musica elettronica.
Non ci sono le luci stroboscopiche. Noto con disappunto.

Ritorno all'humus del mio palato. Alle spalle di Sabrina, chiamiamola così. Lei parla con un ragazzo che conosco e che mi riconosce. Ci ignoriamo a vicenda in una tacita tregua nella battaglia di ricordare l'uno il nome dell'altro. Io mi guardo attorno aspettando il mio turno, simulando una conversazione. Mi sento in fila al banco dei salumi Coop col mio biglietto numerato in carta rosa in mano.

Andrea mi racconta dell'ultima bicicletta che gli hanno rubato. Mi descrive nei minimi particolari il telaio verde. Dice che c'era una marcia che non si inseriva. L'aveva comprata ad un mercatino dell'usato.
“non ci avevo dato molto” aggiunge.
Sembra concretamente dispiaciuto ed io mi rendo conto che nella mia autarchia nemmeno sapevo possedesse una bicicletta. Il che ora è anche corretto.
Decidiamo quindi di infilarci in coda per un'altra birra. Mentre ci allontaniamo mastico i particolari di Sabrina.
- Legge poco.
- Ha paura a parcheggiare la macchina sola nel garage a pochi passi da casa sua.
- Non esce mai da sola.
- Immagino beva poco.
- L'ultima volta che mi ha incontrato ha domandato “come va con l'amore?”. Ci teneva a dirmi che per lei andava malissimo.
- Odia le discussioni di politica.
- Ha un culo quantomai eloquente. Lo ricordo in un paio di pantaloni attillati grigio chiari. Stavamo tornando da scuola.

Pago le birre e passo lo scontrino a Marco per andarle a ritirare. Burocrazia.
Noto che questo locale è affollato inspiegabilmente da zanzare e che le mie scarpe stanno perdendo inutili pezzi di suola diventando fuori moda.
Marco torna con i due bicchieri di Chiara. Cerco Sabrina ma non la trovo più, spero tanto non si sia sentita tradita.

lunedì 14 settembre 2009

una occasione speciale

Era un’occasione speciale, per quello avevo comprato i fiori che agonizzavano sul sedile accanto al mio. Sotto il sole in una macchina con l’aria condizionata troppo diplomatica per essere di qualche sollievo. Indecisa. La radio ripeteva più o meno la stessa musica del giorno prima e mi si attaccava ai vestiti puliti assieme alle prime gocce di sudore. Dovevo guidare fino alla rotonda di via Togliatti, poi prendere a sinistra verso il centro. In quel momento attraversò la strada una ragazza che non riuscii ad evitare di guardare. Sollevai il piede dall’acceleratore poi lo rimisi giù. Ai 75 km all’ora.

Stefania aspettava davanti alla gradinata di una scuola. Le passai davanti con l’auto ma lei non mi riconobbe. Guardava dritta nel vuoto con la sua uniforme attillata completata da scarpe col tacco e occhiali da sole Ray Ban.
Decisi di proseguire dritto per un po’. Chiamiamola paura riservandoci il diritto di rettifica in seguito.
Mandai giù un sorso secco di saliva e mi venne di pensare che magari avevo mangiato un po’ pesante. Vedevo la scatola di mentine sul tavolo da 4 sedie a riposo nella mia cucina, le mie tasche vuote e la strada che si apriva deserta come un autodromo dismesso. Possibilità da partita a scacchi.
Guardai i fiori che minacciavano la morte imminente. E mi trovai nello stomaco quella sensazione di quando in gelateria mi chiedevano se volevo un cono o una focaccia con panna rimediando una imbarazzante scena muta. Di solito per me parlava mia madre.
“Oggi Dante prende un bel cono gelato” diceva accomodante ed autoritaria.
Io solitamente uscendo protestavo. Una volta ho detto anche “vaffanculo” nel modo sgangherato che hanno i bambini di fare il verso alla televisione. Ne ho ricavato una fastidiosa pedata in culo. Da allora giro a largo dalle gelaterie e a cena salto sempre il dolce.
Quel giorno quindi proseguivo incerto vedendo Stefania sbiadirsi nello specchietto retrovisore. Quando scomparve decisi di trovare un bar. In fondo ero ancora ragionevolmente in orario.
Alla radio una canzone ripeteva un ritornello orecchiabile.

Al barista chiesi un’opinione. Erano meglio le gomme da masticare o le mentine piccole ad effetto immediato ma non necessariamente duraturo?
Lui mi guardò. Aveva una camicia bianca indossata per almeno due giorni. I polsini avevano delle gocce di caffè pulite alla meno peggio, il colletto era molliccio e sulla schiena c’era una striscia più scura come si fosse appoggiato ad un muro sporco di polvere. Aveva gli occhi sudati di chi non ha voglia di discutere.
“Scusi, sono un po’ nervoso” mi giustificai optando per entrambe le soluzioni.
Battè sulla cassa 2 euro e 50. Pagai con una banconota da venti per metterlo in difficoltà. Subdola vendetta.

Quindi ero di nuovo in auto. Considerai che i fiori dopotutto erano ancora ragionevolmente composti ed i capelli mi stavano abbastanza bene in testa. Mi rimisi velocemente in auto. Mangiai una mentina con un sospiro di sollievo e rischiai di soffocare. Iniziai a tossire diventando in un attimo un sudato pellerossa con un soprannome tipo Toro Sudato.
La mia auto sbandava perdendo velocità. Sterzava al ritmo dei miei conati. Qualcuno sorpassava suonando il clacson, altri sollevando il dito medio fuori dal finestrino, un mi mandò a cagare.
“Va a cagher!” disse alla mia faccia paonazza.
Vedevo strisce di realtà dipanarsi nelle retrovie e sentivo una bestemmia asciugarmisi in bocca.
Accostai per istinto di autoconservazione.
Scesi battendomi sul petto e finalmente fui libero dalla caramella. Ero sudato e con lo stomaco ribaltato dallo sforzo. Mi concessi il tempo necessario per riabituarmi alla prospettiva di essere ancora vivo, solo un po’ in ritardo.
Quindi recuperai la via con la prudenza di chi si riprende dopo un colpo di sonno in autostrada.
Alla radio passava una pubblicità delle assicurazioni.

Calcolai che per raggiungere Stefania mancavano appena 5 minuti. Il mio ritardo era poco più che insignificante. Mi calmai quindi cercando di riassorbire il sudore con un vago aiuto dell’aria condizionata. Con la cautela di un disinnescatore di mine iniziai a succhiare una nuova mentina pronto a qualsiasi eventualità. Riposi la mano sul pomello del cambio e l’altra sul volante. Mi venne in mente quanto mi aveva fatto star male Claudia e dopo di lei Carla che era tornata col suo ex. Ripensai a quei messaggi sconclusionati fatti di alcool, ormoni e frustrazione. Al ripetuto rastrellamento ad occhi aperti dei locali che frequentavo con loro. Alle battute pronte che diventavano obsolete ed inutilizzabili. Stronzate.

Ci sarebbe stata una sera in cui, per caso, Claudia avrebbe finito per aspettare che Fabrizio tornasse dal bagno. Con lei quel vestito sottile grigio con una scollatura ovale sul davanti. Mi avrebbe sorriso sulle difensive.
Una canzone ricercatamente popolare tipo Coldplay avrebbe accompagnato il mio ingresso in scena.
“Ciao” avrei detto con finto imbarazzo da mani in tasca.
“Ciao” avrebbe risposto da una realtà parallela.
“Mi piace il tuo ragazzo, fa molto paginone centrale di Gaymaster. Sicura non sia l’alter ego di Vladimir Luxuria?” avrei proseguito.
E l’avrei lasciata lì.

Svoltai a destra a 3 minuti da Stefania.

Poi magari, in un posto che frequentavamo assieme riempito di arredo in legno pesante tipo tavoloni in ciliegio, avrei visto Carla al tavolo col suo ragazzo. Lo stesso con cui stava prima di me. Un tipo un po’ schivo da braccia incrociate ad un concerto. Con una serie di magliette che additano al suo arguto e sottile senso dell’umorismo. Supposto chiaramente.
Comunque sarei andato al tavolo con un sorriso diplomatico. Di quelli da foto di gruppo dei capi di governo che riportano i giornali. Meno abiti formali e scarpe lucide.
“Carla, ho l’ADIS” avrei annunciato un attimo dopo avere cortesemente salutato.
E poi mi sarei allontanato lasciando le loro bocche spalancate molto visita dentistica.
Non sarebbe stato male.
Comunque a quel punto ormai vedevo Stefania. Alzai ed abbassai la musica concentrato sulle parole da dire. Rallentai ai 40 km/ora. Qualcuno mi sorpassò con una Croma grigia ammaccata e scrostata che rifletteva degli scintillii strani. Accusatori ed incerti. I fiori sul sedile mi fecero coraggio in un ultimo slancio vitale. La mia maglietta sembrava finalmente vestirmi bene. La mentina era quasi completamente sciolta e non avrebbe ostacolato la comunicazione.
Finalmente vidi Sabrina. Si era fatta un po’ più sulla strada e si guardava attorno col telefonino in mano. Auto indifferenti di macchiette uguali dirette verso casa. Stanche.
Strinsi forte il volante. Saldo e sicuro col logo FIAT incollato al centro. Imperativo.
Pronto ad una nuova relazione placcata amore. Con abbondanti prospettive sessuali.
Mi fermai e lei finalmente mi riconobbe.
Sorrise. La maglietta aderente aveva un senso mentre camminava tranquilla verso di me. Prendendosi la sua rivincita sul tempo.
Ero in ritardo di 35 minuti ma comunque riuscii a non farmi preoccupare il volto.
Aspettai determinatamente calmo quei pochi misteriosi secondi che ci separavano.
Guardai un attimo i fiori ormai trapassati nella loro composizione raccolta da una rete arancione ed un fiocco giallo. Poi la sua faccia era lì. Dove per giorni l’avevo immaginata.
“Ciao Stefania”.
Sorriso, pausa, indifferenza: corteggiamento.
Respiro profondo ghiacciato menta.
“Stefania? Guarda che io sono Chiara…” pugnalò il mio cervelletto.
Accellerai e lei rimase lì a guardarmi andare.

giovedì 3 settembre 2009

Playstation

Dante è seduto alla scrivania, tapparelle abbassate e ventilatore che lo sorprende ritmico alle spalle.
Occhi stanchi violentati dall’esuberante schermo piatto. Mente acuta ad anticipare curve e pendenze del circuito. Guida un macchina che nella realtà non potrà mai permettersi: spinge il pedale a fondo e poi improvvisamente scala tre marce e frena con i denti stretti. L’auto dal lungo cofano rosso risponde fedele ai comandi. L’impianto sourround lo avvolge con rumori generici da abitacolo ed improbabile colonna sonora rock. Ogni volta che passa il traguardo si dice “ancora un giro, poi stacco”.
Passa alla destra un villaggio di montagna. Un podere delimitato da una staccionata marrone ciliegio. Vicino una coppia di grossi cani bianchi è congelata in un balzo. Ai bordi della strada un pubblico bidimensionale festante. Sempre lo stesso ad ogni passaggio. I cani si ripetono qualche centinaio di fotogrammi più avanti. Quando il villaggio di montagna si trova alla sinistra, appena superato il tornante. E poi veloce per la discesa. Col pubblico che si fa irriconoscibile, generico. Assenza di odori e forze che spingono sul corpo. La strada torna a stringersi e a farsi dissestata. Si definisce rallentando.
Curva a destra.
Rumore di ruote che strisciano sull’asfalto.
Controsterzo ed acceleratore giù a tavoletta.
Esperienza.
“ancora un giro, poi stacco”.

sabato 29 agosto 2009

Cristina e Franco

Quel pomeriggio non c’è molto da fare. Al bar di Franco c’è Cristina che gli fa compagnia compagnia. Galleggiano assieme in quel pomeriggio stanco. Discorsi molli, spontanei ed alternati. La cosa che ama Franco dell’estate sono quei momenti di calma. Gli uffici chiusi e l’odore persistente di intimità che acquisisce finalmente il bar. Cristina si domanda perché tenere aperto il bar per quei pochi che passano accaldati per una bottiglia d’acqua od un gelato confezionato. È seduta su uno sgabello colorato ed ergonomico al bancone. Scarabocchia un tovagliolo sottile griffato Essse Caffè.

“Si potrebbe andare al mare questo week end”
“Cosa mangiamo stasera?”
“Hai sentito Filippo?”

Domande veloci. Accusatorie. E Franco lava a mano un bicchiere. Lo asciuga. Annuisce perso in pensieri tangenziali. Caldo, caldo, caldo. Aria condizionata, surriscaldamento globale. Gente calda e cani caldi. Hot dog. Sorriso. Apparato digestivo da buttare. Riciclare. Inserire i vecchi consumi nei nuovi consumi. Le buste biodegradabili della Coop.

Alla radio ripetono ancora una volta le notizie della giornata.
Poco lontano il clacson di una macchina si fa sentire festante con due veloci squilli. Eco di altre vite.

Cristina e Franco si conoscono dai mondiali del 2006. Da quando si scoprirono entrambi disinteressati davanti ad un maxischermo a casa di amici in comune. Una casa nel fresco dei colli mica male. A quel tempo Franco aveva come unica occupazione sentimentale il proprio bar e Francesca si divincolava tra l’università da finire una occupazione in nero 3 sere a settimana in un pub e Stefano. Stefano era il suo noioso accompagnatore di quella sera nonché fidanzato. Il suo disinteresse trascendeva la partita in televisione, era generalizzato. Sembrava vivere la naturale prosecuzione della propria ombra. Senza alti ne bassi. Cristina si sforzava di dire non fosse così ma davanti ad una passiva accettazione del tradimento caddero tutte le sue argomentazioni.

Era successo prima della fine del 2007. Era già freddo e si era trovata per caso a passare dal bar di Franco. Una busta di Feltrinelli ed una birra piccola davanti. Era seduta allo stesso posto dove stava seduta ora e chiacchierava sfogliando un libro nuovo. Franco aveva servito gli ultimi clienti ed aveva abbassato la serranda a metà.
“Ora vado anche io” disse Cristina tenendo col dito il segno della pagina.
Aveva un maglione scuro sotto una sciarpa spessa e colorata. I capelli scuri raccolti in una piccola coda. Non portava lo smalto.
Franco scosse le spalle dissimulando disinteresse e si versò da bere. Sul tavolo sistemò i pochi avanzi dei panini del giorno tagliati a cubi ed un pacchetto di patatine fritte semitrasparenti. Da sottomarca generica.
Beveva appoggiato al tavolo in acciaio accanto alla macchina del caffè spenta.
Fuori un gran passare di gente che rincasava col passo pesante. Un esercito di sottili lemmings.
Le riempì ancora il bicchiere e lei smise di leggere.
Seguì conversazione standard.
Poi, a distanza di un paio di giorni stessa scena ma con più sesso fatto alla meno peggio su una poltrona accanto ai fusti pieni di birra.
In una settimana Stefano era a tutti gli effetti single e Franco aveva una passione da alternare al suo amore per il bar.

“Perché ami tanto questo posto da passarci l’estate?” chiede in un momento lei.
“Perchè si beve bene e costa poco” dice Franco in un sorriso.
“Offrimi qualcosa di fresco” dice lei buttando il tovagliolo scribacchiato.

sabato 22 agosto 2009

lasagne Coop

12.17: lo stomaco vuoto dà un sussurro violento. Vorace.
Veloce panoramica sulle alternative che offrono dispensa e frigorifero. Confezioni di pasta iniziate, riso, pomodoro in bric Tetrapak monodose, Tavernello bianco monodose, tonno, gouda, mozzarella, sottoli vari, crostini integrali comprati per errore, barattolo di pesto scaduto, burro, noccioline supersalate, maionese, ketchup, uova da allevamento a terra.
Indecisione.
Gomiti appoggiati ad un tavolo incastrano avambracci e testa.
Sudore.
Dante improvvisa una pentola di acqua sul fuoco.

Franco serve un caffè con l'orecchio teso verso il microonde. Una turista anglofona si è lasciata tentare dalle lasagne alla bolognese ed ora si guarda le unghie rosso anni '90 immersa in quell'improvvisato dehor estivo fatto di ventilatori incastrati in un indeciso pergolato in legno scadente. Ha un profumo sottile e tagliato di fiori nuovi che si mescola con la pessima qualità dell'aria. Afa. Con lei ci sono due bambini biondi che sembrano uno la riproduzione in scala dell'altro. Hanno il volto di quelle pubblicità dei biscotti con le famiglie felici. Tra gli altri tre tavoli vuoti c'è solo Diamante seduto inoffensivo nella sedia in plastica bianca con un sigaro in mano. Spento. L'interno cittadino del bar contrasta col pergolato estivo come i capelli scuri con gli occhi azzurri.

“anche oggi niente”
Dice l'avventore controllando i numeri del Superenalotto.
“e io che lavoro anche ad agosto. Un po' di fortuna me la sarei anche meritata. E invece niente. Nada. Mah. È proprio vero che piove sempre sul bagnato. Sa cosa le dico?”
“…”
“ancora una volta poi basta. Non ci gioco mica più a questa merdata. Che tutti quei milioni che si vincono poi ce li spendiamo noi scemi che ancora giochiamo. Va là che è una bella fregatura. Lo conosce lei qualcuno che ha vinto? No? Glielo dico io, si tengono tutto loro. Furbi loro!”
“Scemi noi!”
“Appunto”
“…”
“sa cosa le dico, mi dia ben una bella grappa morbida”
Il microonde continua col suo “whooo” circolare.
Il suono del tappo che lascia la bottiglia ricorda quello di un sasso buttato in acqua.
Poi: rumore liquido.
Fuori i bambini sudano attorno al tavolo. Irrequieti o festanti.
La donna considera il sigaro spento di Diamante.
Diamante recupera il bicchiere di bianco e beve sincronizzato con l'avventore.

C'è uno di quegli attimi di pausa utili per un flashback, per le inquadrature dall'alto della città, per cambiare argomento. Tutti sembrano cristallizzati nella loro essenza di personaggi bidimensionali fatti di obblighi più o meno eteroindotti che inevitabilmente si incrociano aggrovigliandosi in pensieri da sbronza estiva al vino rosso. Il mondo è fermo o distratto, il fuoco dell'attenzione è su concetti lontani e solari. Intangibili. Gli sguardi sono rassegnati ai rispettivi ruoli sociali ed alle aspettative supposte in base ad un percorso storico linearizzato per semplificazione. Per farne racconti fruibili a tutti.
Cosa siamo senza una storia da raccontare?
È una scena introspettiva da spaghetti western con meno sabbia e pistole. Qualcuno potrebbe sputare a terra ed invece finisce il ciclo di cottura delle lasagne griffate Coop. Pronte in appena 6 minuti.
Odore di besciamella e ragù.
Appetito.

12.32. Appunto.

martedì 18 agosto 2009

il culo di Dante parla col mondo

Mattina presto con la ressa dei vecchietti che discutono davanti agli annunci mortuari. Con i netturbini che cancellano le sbavature della notte lasciando una strada irreale. Postatomica. Franco dietro al solito bancone controlla nuovamente sul giornale l’estrazione del lotto. Il portico fuori ha il corpo molle di una biscia. Sudato freddo e fuggevole. Nessuno studente ancora, qualche turista spaesato si guarda attorno senza capire bene come divincolarsi da via delle Lame. E tornare a casa.
Dante aspetta che il sole alla finestra lo costringa ad alzarsi. Smuoverlo nel caldo record della seconda metà di agosto.
Il ventilatore sul soffitto gira a velocità doppia da tutta la notte. I pensieri sono rallentati assieme al corpo scomposto in una posizione poco pubblicitaria. Materasso coperto da un lenzuolo troppo piccolo e giallo, boxer lisi e peli irriverenti sull’ombelico.
Solitudine mista all’ansia da prestazioni che impone il tempo libero. Troppo spazio e troppe poche cose immediate da fare. Distrazioni azzerate da un monitor televisivo impotente da un paio di settimane.
Dante non riesce a tenere gli occhi chiusi, ma rifiuta di alzarsi per il confronto con la sua frenesia. Con i piatti perfettamente puliti ed ordinati nel loro scaffale e il pavimento sterile preservativo. Con una lettura interrotta per superbia. Invidia.
A lato del letto c’è un comodino ingombro di attrezzi di tortura mentale. Settimana enigmistica, blocco degli appunti, cubo di rubik, edizione di Moby Dick regalata da Repubblica. Nel primo cassetto socchiuso si intravede una sigaretta. È in un pacchetto etichettato: “ULTIMO DESIDERIO”. Arte contemporanea utile solo ad accompagnare una scatola triste di preservativi inutilizzata e qualche malinconica compilation in cassetta.
Dante si rigira lasciando una impressione al sudore del suo profilo sul cuscino. I capelli incollati in fronte.
“Oggi è mercoledì” si dice immaginando una agenda vuota fatta di obblighi immaginari. Morali.
Recupera il cellulare dai pantaloni corti abbandonati ai piedi del letto.
Un attimo dopo i convenevoli Nokia di rito TIM lo informa che il credito rimanente è di 0 euro e 33 centesimi. Aggiornato alle ore 3 e 45 di mercoledì 19/08/2009.
L’ultima chiamata è verso un numero sconosciuto.
Respira incerto. Ormai è chiara la pulsione all’alzarsi da letto.
Il piede destro tocca un pavimento già caldo.
Lo specchio rimanda l’immagine sfuocata di Dante che si infila gli occhiali dalla montatura nera e pesante. Alla moda.
Cammina verso la cucina col telefono in mano. Incerto come il sesso delle rane.
I piedi lasciano una veloce ombra bagnata sulle piastrelle bianche.
Frigorifero.
Latte da mezzo litro aperto da 2 giorni.
Cereali di una sottomarca. Sapore di biglietto per l’autobus.
Frutta prossima alla decomposizione.
Musica lenta di poche auto.
Volti e corpi conosciuti che sorridono sul muro nei loro formati fotografici standard.
Mattia, Cristina, Stefania, Dante. Francesca, Marco e Dante. Dante e un cane. Dante con un cappello di paglia, pezzi di corpo catturati da uno sguercio autoscatto, un piatto di salsiccia e fagioli. Un gruppo con alcoolici generici in mano e sorrisi grotteschi. Carla.
“Non si pensa con la bocca piena” galleggiano i cereali in un latte in tempesta.
Applausi da sit com.
Sul cellulare suona un numero sconosciuto.
Qualche secondo. Il tempo di svuotare la bocca e scaldare il cervello.
Difficoltà ad intonarsi con una melodia sorda.

“Pronto?”
“allooo?” risponde il Nokia con voce forte e sottile. Lontana e bionda.
“…”

Svezia, Finlandia, Polonia, Germania, Romania, Latvia?

“alezok? isabesiletznat!”
“Eh?”

Danimarca?

“You cal-led yes-ter-day? You o-k?”

Film anni ottanta non doppiati: Terminator 2, Die Hard, Nove Settimane e Mezzo.

“Yes”
“Co-ol! You know me?”

Rispondi, rispondi, rispondi!

“…no”
“Wh-y you cal-led?”
“I called you?”
“Yesterday night!”

Distacco.

“Ah, sorry. -Pausa. Respiro- Wrong number”
“Ok. No worries”
“Bye”
Click.

Dante guarda ancora un attimo il telefono come una bomba disinnescata.
La schiena ancora più imperlata di sudore ora asciuga fredda.
Ancora una volta deve essersi seduto sul cellulare mettendo in comunicazione il suo culo con qualche anfratto di mondo.

“il mio culo ha più vita sociale di me!” raccontano gli occhi stretti e casalinghi di Dante al paesaggio dissoluto della colazione.

mercoledì 29 luglio 2009

Racconto di uno che aspetta la fine del ciclo di lavaggio della propria lavatrice

Questo è il racconto di uno che legge un libro che narra la mirabolante vicenda di un altro che ha scritto il libro. In arte: l'autore. Sottofondo di ventilatore, sudore sulla schiena appiccicata alla copertura indiana del divano, digestione di carne aromatizzata all'aceto balsamico.
Quando in frigorifero c'è un'incredibile puzza di merda basta tagliare un limone a metà e buttarcelo dentro. Quando succede con un libro non si può fare altro che riporlo secondo un ordine cromoalfabetico nella libreria e ricordarsi di non ripescarlo.
Comunque. Il discorso è che c'è questo tizio seduto sul divano, crogiolato nella propria digestione e in un libro che odora di nuovo e di edizione esclusiva ed esente dagli sconti del caso. La lavatrice scandisce un ritmo sincopato e la strada fuori dalla porta finestra fa il coro. Sara è lontana da abbastanza perché ci si domandi che stia facendo, il futuro ormai sembra appartenere ad un passato che di giorno in giorno sembra più glorioso, il pavimento è sporco ma senza polvere. I piatti sono ordinati nel loro armadio.
Sono le 22 e 35.
Gira la pagina numero diciannove con l'interesse che si può avere per le trasmissioni televisive del primo pomeriggio. O per la digeribilità delle uova sode.
Succedesse qualcosa andrebbe anche bene ma sembra molto una sera uguale ad un'altra in cui si rimandano le cose a domani per poi aspettare di rimandarle nuovamente. Quasi all'infinito se non fosse che le bollette ed i generi alimentari scadono.
Poi finalmente la lavatrice finisce il ciclo di lavaggio economico.
La novità è che si sente quasi sollevato ad interrompere quella lettura.

giovedì 16 luglio 2009

Vent'anni

Penso ancora a quando si dormiva fino alle tre del pomeriggio perchè non avevamo voglia di caricare la sveglia. Era una bella scusa alla quale fingevamo di credere tutti e due. Saltare la lezione di diritto perchè il docente prendeva le firme ed a noi questa cosa è sempre stata sulle palle. Siamo maggiorenni e vaccinati al punto da poter decidere se andare a lezione o saltarla, ci decevamo con le vene del collo gonfie di rivoluzione. Eravamo talmente anarchicamente maturi da optare, alla fine, per saltarle tutte. O la maggior parte. Senza dire niente ai genitori. Poi con le lumache nello stomaco, e la notte appesa alle palpebre, alle tre ti sfioravo una spalla. Allora seppellivi la testa sotto il cuscino e mugugnavi qualcosa allargando le gambe. A me piaceva. Fingevi di voler dormire ancora quando era chiaro che anche tu volevi fare l'amore. E lo facevamo. Delicato, assonnato ed a lungo per ricadere, sudati ed estasiati, nuovamente uno accanto all'altro a rimirare il soffitto bianco godendoci gli ultimi brividi. Poi sì che era un piacere cominciare la giornata. Fare la doccia insieme e magari rifare un'altra volta l'amore abbracciati sotto l'acqua fumante od attaccati alla tenda di plastica a fiori chiusi in silenzio in bagno. Il mondo fuori poteva aspettare, non eravamo ancora pronti. Poi la colazione giù al bar dell'angolo dove, sfogliando il giornale quasi vecchio, oltre al cappuccino ed alla brioche potevi prenderti un deca di fumo o, se andava di lusso, dell'erba oppure ascoltare qualche pensionato lamentarsi di questo e di quello. C'è sempre qualcosa che non va. E poi buttarsi di petto col sole del tramonto a baciarci la fronte verso il centro.Gli uccelli in cielo e noi abbracciati impegnati a camminare fissandoci negli occhi. E poi a ridere specchiando nelle vetrine le nostre facce poco cinematografiche, entrare nei negozi di abbigliamento e provare qualunque cosa per poi uscire rigorosamente a mani vuote. Eravamo felici e contenti, spensierati nullatenenti ventenni padroni del mondo. Non avevamo l'auto, i soldi per i concerti ed una benché minima idea sul futuro. Programmare un fine settimana in giro da qualche parte o le ferie al mare in agosto con la mia super tenda e la macchina fotografica sempre appresso con cui abbiamo scattato migliaia di foto. E poi le abbiamo riviste centinaia di volte distesi sul letto con lo stesso entusiasmo di quando le abbiamo vissute. Era fantastico pensare al futuro in termini di viaggi, scogliere, cene in rive al mare, amore ad ogni ora ed in ogni dove e falò sulla spiaggia. E finire sdraiati sull'erba fresca del parco a guardare i bambini rincorrere i cani ed i cani rincorrere i frisbee, gli aquiloni perdersi nell'ultimo sole e le chitarre cantare canzoni americane, bottiglie di birra abbandonate sotto gli alberi secolari e ragazzi fumare a torso nudo studiando per gli ultimi esami prima di tornarsene a casa per le vacanze. E noi a berci addosso migliaia di parole, lasciandoci dolcemente incantare dalla bellezza della natura, dalle farfalle e dalle nuvole, dal tuo ombelico scoperto e dalle margherite tra le dita dei tuoi piedi. E mangiarti di baci senza mai saziarmi per finire con la bocca secca ed il cielo bruno. Alla fine, tornare a casa la sera tardi era bellissimo. Sapevamo già come sarebbe finita una volta aperta la porta. Era tutto chiaro come il giorno, quasi ripetuto a memoria e nonostante questo non ci stancavamo mai. E attraversare il ponte buio ululando poesie d'amore alla luna ubriaca con le macchine come saette accanto a noi e gli Eurostar sfrecciare sotto rincorrendo Roma, Ancona, Firenze o Milano...
Era fantastico ignorare che un giorno sarei passato anch'io sotto quel ponte con un Eurostar.

lunedì 13 luglio 2009

Pausa: lavoro.

Un sacco di tempo, un sacco di acqua sotto ai ponti quasi da affogarci. Sapore di caffè bruciato aderisce al palato. Traffico davanti e sole che scalda le spalle. Il vantaggio dell'open space è che faccio fatica a leggere le parole sul computer con tutta questa luce. Tutta questa luce mista di sole e neon. Ibrida. Aria condizionata e l'orologio digitale sul cellulare sincronizzato con quello dello schermo davanti. 14 e 35. Muovo il mouse in circolo disegnando un filo inutile di pensieri. Sul tavolo delle cose da fare e l'intenzione di farle. Diciamo buona volontà. Certo sarebbe più piacevole che le cose si facessero da sole. Sfruttando l'inerzia. Come quando gli argomenti si tirano fuori da soli barricati dietro un genocidio di lattine di Birra Moretti da 33. Domani è l'anniversario della rivoluzione francese. Tanto per contestualizzare. Per ancorare alla realtà questo pomeriggio etereo cullato dalle auto che passano. Rallentano e ripartono.
Poi suona il telefono e lo guardo agitarsi come un insetto sulla schiena lotta per la sopravvivenza. Gira in senso antiorario. E con lui il nome di Carlo. E con lui un rumore noioso. Rispondo con un entusiasmo da Giro di Italia in televisione. Con una verve da Acqua di Giò. Per nulla spontanea.
Segue una conversazione che mi distoglie parzialmente dai miei pensieri.
Riaggancio consapevole del mal di testa che mi accompagnerà domani con gli immancabili compagni: alitosi e mani incerte. Guardo le fatture da codificare. Considero che più o meno 3 metri sopra la mia testa c'è la macchinetta del caffè. Una valida alternativa. Se solo avessi voglia di alzarmi. Muovermi. Scuotermi.
Alla fine preferisco lavorare. Forse anche perché il lavoro nobilita l'uomo ed io ho bisogno di attaccarmi a qualcosa. In fin dei conti.

sabato 27 giugno 2009

Claustrofobia

Ogni tanto ci ripenso. Passeggiavo in Firth street e cercavo di non perdermi un'altra volta. Tenevo bene a mente il percorso fatto dalla stazione della metro ma inevitabilmente mi disperdevo in pensieri e vie parallele. La domanda più frequente era: “che ci faccio qui?”. Cercavo la risposta nel cellulare ma anche i messaggi di Mara si erano fatti via via più rari. Inesistenti. Il resto del mio mondo perdeva interesse verso di me. Voltava pagina quando ero stato io a volerla girare. E mi sentivo ormai alle note di terza copertina, indeciso. Nell'aria c'era un misto di odori da grande città, ovattato e compresso. All'angolo un locale gay sovraffollato. Chiacchiere, bicchieri e coda per il bagno. Più avanti una ragazza in piedi sotto la tettoia di un negozio di libri lasciava dei volantini. Pioveva un po'. Per rendere tutto più surreale. Fotografico.
Mi affrettai con le mani nelle tasche dei jeans. La maglietta bianca vagamente bagnata. Ero già vicino alla libreria e la porta che si apriva rimandava l'odore di mobili nuovi. A pochi passi da me c'era la ragazza dei volantini coperta da un cappuccio scuro. Quasi conosciuto. Comune. Passai veloce e non vidi che gli occhi freddi e il naso deciso. Avrebbe potuto essere Carla. Avrei voluto lo fosse. C'era nello stomaco quella sensazione di digestione spastica e noia. Mi bloccai e qualche passante passò scuotendo la testa. Qualcuno mi colpì di proposito con una spalla. Avrei fatto lo stesso fossi stato in loro. E magari avrei saputo dove andare. Ondeggiai incerto. Attorno nuotavano veloci troppe persone. Ero fermo in mezzo ai coglioni. Quindi mi girai, tornai indietro di pochi passi e constatai che in effetti la ragazza con i volantini non poteva essere Carla. Mi passò una delle sue pubblicità. Un ingresso omaggio per un qualche locale che non conoscevo, dove non volevo andare.
“Cos'è?” chiese la mia faccia trascurata.
“Styldorm” mi rispose il suo sguardo catatonico. Lontano.
Già, lo stesso nome stampato sul volantino. Lo guardai veloce, non c'era molto altro da leggere, un indirizzo, un'ora e il nome di qualche dj che avrebbe dovuto dirmi qualcosa. Allettarmi. Però rimasi lì. In attesa.
Lei continuava a spargere pubblicità guardando avanti. Mi fissava incidentalmente. Inespressiva. Automatica.
“Carla” dissero i miei occhi pallidi alla luce delle mie scarpe bagnate “come va?”.
Mi rispose la pioggia e il pestare ripetitivo dei piedi che mi superavano.

martedì 23 giugno 2009

Milano a giugno, semplicemente

Giorni strani trascorsi a riflettere sull'importanza della simmetria nella vita delle persone e del senso di sicurezza che questa infonde in me. La metafora della mela tagliata a metà ed il pensiero che corre sulle rive dell'Hudson perdendosi tra le strade della downtown prima di risalire per l'ottava Avenue fino a Central Park e poi avanti ancora e ancora, fino alla fine, fino a ritrovarsi a correre ai giardini di Porta Venezia senza alcun motivo due volte alla settimana ed arrivare a chiedersi, una volta tornati a casa, sotto la doccia, il perchè di quella corsa, di quel fiato greve e della schiena sudata senza riuscire a darsi una risposta, ormai rassegnati al fatto che, in ogni caso, il giorno dopo ci si ritroverà comunque a correre così come ci siamo ritrovati anche la settimana prima, e ci ritroveremo la successiva e quella dopo ancora fino ad entrare in un circolo vizioso senza tempo e senza fine ancora quì. Poi imbracciare la bicicletta come una carabina e lanciarsi a perdifiato giù lungo il Corso, girare in Galleria, schivare i passanti rintronati dall'eleganza del duomo, dalla magnificenza dell'opera umana e prendere velocità sulla graniglia lucida che riflette i sontuosi soffitti per arrivare a tutto gas a perdersi nelle vie anonime del centro, quelle finte fatte di plastica e talmente artefatte al punto che le vetrine prima o poi prenderanno vita, i manichini si alzeranno, si allenteranno le cravatte e si rimboccheranno le maniche delle camicie lanciando quei cazzo di gemelli d'oro contro il vetro infrangibile e calpesteranno gli occhiali a specchio griffati e poi si fermeranno d'un tratto a guardare, ad osservare, a volte attoniti altre con rabbia, i passanti che ignari continueranno a scambiarsi le stesse effusioni amorose davanti a mendicanti con la casa sulle spalle invocanti, in nome d'iddio, qualche spicciolo, con le foto dei figli malati e dei mariti morti o smarriti in bella mostra e poi verso i grassi banchieri dalle tasche piene di carte di credito, i polsi appesantiti da etti di acciaio marchiato Rolex e la bocca piena d'oro (come il mattino per mio nonno) assuefatti all'agiatezza ed ancora ai giovani artisti consacrati dalle televisioni alla celebrità, all'eccesso coatto, con i loro visi perfettamente abbronzati, le sopracciglie pettinate, i capelli sparati come atomi impazziti e le barbe dal perimetro disegnato da coiffeur laureati allo IED in omosessualità ad ogni costo, anche simulata ed infine, alle rampanti modelle tristemente destinate all'anoressia oppure a riempirsi le bocche dei cazzi gelatinosi di vecchi milionari per cercare di diventare qualcuno e magari riuscire pure a vedere la propria foto alloggiare per qualche effimero numero su qualche rivista più o meno patinata e poi il giorno dopo basta, non ci sarà più nessuno, o forse solo un Toscani finché non si sarà rotto le palle pure lui, disposto a fotografare un pezzo di pelle gettato su un'impalcatura ossea minuta e fragile ed allora, tutte queste giovani resteranno sole con le loro narici incrostate di sangue e cocaina senza più mestruazioni e troppo lontane dagli amorevoli genitori e non potranno fare altro che morire in anonime stanze polverose di hotel con le finestre che si affacciano su strade sconosciute dove i preti dal collarino bianco e gli abiti scuri toccano furtivi i bambini del quartiere mentre compiacenti genitori aspettano di vedere i propri figli cresimati dal vescovo in persona. Le scritte spray campeggiano stanche sui muri di quei quartieri che furono proletari e che oggi sono semplicemente pericolosi e tristi, dove l'eroina ed il comunismo hanno parimente perso la guerra mentre in centro, al circolo del bridge, il cerone di fondotinta sui volti delle sessantenni altolocate dal seno rifatto e dal sorriso falso comincia a colare tra una Muratti Ambassador ed una battuta razzista quando si guasta l'aria condizionata. La stazione centrale resiste al cielo pesante e plumbeo di questi giorni come Vittorio Emanuele, da vero uomo, sopporta il guano dei piccioni su tutto il corpo senza fare una piega.
"Vivo come un cammello in una grondaia in questa illustre e onorata società..."
Le casse lanciano contro le persone e le pareti, il bancone del bar, gli alberi e le stelle la voce di Battiato sotto un firmamento incendiato di una metà giugno triste-lombarda. Poi, ad un tratto lei, calata dall'alto come nelle peggiori rappresentazioni teatrali natalizie all'oratorio, di fronte a me in mezzo a migliaia di ragazzi, cani, vecchi, bambini, transessuali, malati terminali e donne gravide; i suoi occhi, due, luminosi e scintillanti che mi sussurrano parole bellissime con una voce suadente proveniente da una sirena in mezzo al mare. E poi, due birre, ancora due birre e poche parole, solo gesti, movimenti e sguardi. Non c'è sabbia sotto i miei piedi, non c'è acqua più in là, e nemmeno il fuoco acceso in piena notte alla penombra del quale fare il bagno, ma è come se tutto questo fosse dentro di me. Fuochi artificiali, neuroni che ballano nudi ebbri di vita nel parco della mia mente. Coney Island stasera è solo nella mia testa e lei è lì, accanto a me, a godersi lo spettacolo. Una strana alchimia al sapore di Menabrea e Negroni sbagliato ovatta i suoni delle parole e smussa gli spigoli delle figure, le luci si accentuano e le sfumature dei colori si sciolgono in miriadi di tonalità intermedie a me sconosciute. La mia mano le sfiora il viso, le scende lungo il collo e risale verso il suo orecchio, sinistro, splendidamente nudo. Poi la voce riprende
"E ancora, sto aspettando, un'ottima occasione per acquistare un paio d'ali, e abbandonare il pianeta..."
Niente esiste più ora. In balìa di un flusso d'incoscenza che regna sovrano sui movimenti del mio corpo, mi lascio traspostare leggero come l'elio verso di lei. Mi chino. Lei reclina dolcemente il capo lasciando che una cascata di capelli le scenda dalla nuca sulle spalle e, disegnando una plastica figura klimtiana, le mie labbra si posano sulle sue. I sentimenti e le emozioni conquistano una terza dimensione. Ora si sviluppano anche in profondità. Un brivido innocente mi percorre la schiena mentre la luna avvolge i nostri corpi inconsistenti. Chiudo gli occhi, stacco i timpani e mi perdo.
La voce continua e continua a cantare un lamento che non colgo, che non mi serve più.
"...E cosa devono vedere ancora gli occhi e sopportare?
I demoni feroci della guerra, che fingono di pregare!
Eppure, lo so bene che dietro a ogni violenza esiste
il male... se fossi un po' più furbo, non mi lascerei tentare.
Come piombo pesa il cielo questa notte.
Quante pene e inutili dolori."

Penso a tutto questo, alle guerre più o meno giuste, alle elezioni perse ed alla crisi, alle pandemie ed ai milioni in Svizzera, al cioccolato ed agli orologi, faccio associazioni logiche irrazionali, ci ragiono sopra e giungo alla conclusione che non me ne frega nulla, adesso non più...

La notte non è mai abbastanza lunga e buia quando vorresti non svegliarti più.