sabato 30 aprile 2011

Gli ultimi tempi

Si salutano con un affetto di altri tempi. Etichetta. Un abbraccio ed una stretta di mano. Sembra una pubblicità del Glen Grant ambientata in un centro sociale di quello che vendono solo birra in lattina del discount.
“una vita che non ci si vede! Che mi racconti?”
“bè, guarda, le solite cose. Non è che sia successo molto, il solito avvicendarsi degli eventi che non posso mica starteli a raccontare tutti. Anche perché non è che siano così avvincenti. Cioè qualcosa di interessante ci sarebbe pure ma non saprei da dove cominciare”
“ci prendiamo da bere”
“sì, prendiamoci da bere”
Ed eccoli che passano dalla fila con i 2 euro in mano entrante alla fila con le lattine in mano uscente. Sembra una processione con lumini spenti.
Quindi Gennaro recupera un paio di sedie ed un tavolo di plastica da un angolo. Le sistema più centrali in modo da vedere chi passa, sperando di vedere una particolare persona che passa.
Si siedono.
Annusano l’aria sapida di birra calda e fango secco attaccato alle scarpe.
Battono le lattine col suono metallico dei robot feriti.
“negli ultimi tempi insomma non succede granché. È come se mi fossi stancato di cercare qualcosa di nuovo. Come un circolo vizioso verso la maturità e la dipendenza televisiva. A proposito hai visto quel programma su quella rete del digitale terrestre. Ah, è vero che tu non hai la televisione. Fai bene tu, lascia che te lo dica. Vorrei essere proprio come te ma purtroppo non posso mica decidere io, c’ho i coinquilini. E loro la televisione la vogliono. Sissignore, niente da fare. Siamo stati i primi del palazzo col decoder. Quando ancora si vedevano meglio i canali sull’analogico. Ma vabbè, lo sai con che elementi vivo. Almeno però cucinano bene, e Marco ha la macchina. E niente non è. Specie ora che con questo tempo andare da qualche parte è il massimo. Sì, per staccare un po’. Mah, la primavera. E tu che dici. Non ci siamo più visti da quella festa a casa di Caterina.”
“guarda, il solito. Sto scrivendo questi articoli che mi hanno chiesto che sono una noia pazzesca e non ho tempo per dedicarmi al mio. Ma devo pur mangiare e così mi svendo. Ancora per poco spero.”
“ma sì dai! Io ci credo. Da quella volta che ho letto quel racconto su quella rivista che ora nemmeno esiste più. Quello di quei due topi che cercano di uscire dalla gabbia.”
“trappola per topi”
“sì, proprio quello. Bellissimo. Non succedeva niente ed era proprio quello il punto. Incredibilmente attuale. Veh che ce la fai. E mi raccomando citami nei ringraziamenti. Scrivi grazie per l’impagabile supporto di Gennaro Cassidi”
“aspetta che prendo appunti”
“ecco bravo”
E guarda avanti, in direzione del bar. Prende un sorso dalla lattina e guarda l’amico che scrive su quel quadernino nero che ha sempre infilato in tasca. Si sente stringere da una urgenza espressiva senza avere i mezzi per esprimerla. O forse i concetti da esprimere. Ma è presto per queste digressioni. Prende un altro sorso di birra, di quelli profondi che sicuro entra in scena la Francesca di turno. Chiude gli occhi e la gente che entra è sempre la stessa e quella al bancone non è cambiata.
Stefano chiede scusa e rimette in tasca il quadernino nero. Lo infila nella tasca interna della giacca. Con un gesto che sembra fatto apposta.
“dicevi?”
“niente dicevo. Anche se l’altro giorno mentre ero in coda al supermercato c’era queste ragazze decisamente universitarie che chiacchieravano tra di loro. E non erano mica male. Peccato una avesse improbabili pantaloni rosa di tuta. Comunque era una coda così lunga che probabilmente non si sentivano nemmeno più in mezzo alla gente ed erano passate a chiacchierare da quello che avrebbero cucinato alle ultime cose che avevano sentito. Una aveva detto che aveva saputo da una sua amica questa cosa allucinante. Conosceva una infermiera che si era trovata a dover estrarre dal culo di un ragazzo un uovo sodo intero, col guscio. Cioè non ha detto culo, ha detto retto. Ha detto che il ragazzo era lì con la fidanzata. Pensa te. Avevano spiegato che stavano guardando un film dove facevano la stessa cosa e gli era venuta voglia di provarci pure loro. Poi era rimasto dentro”
“quasi se lo meritavano”
“si bè, il problema che per estrarre un uovo sodo dal culo, diceva questa, è un macello, non bisogna rompere il guscio sennò si può tagliare tutto dentro. Insomma un bel casino. Te lo immagini sto qua col culo per aria la fidanzata che gli tiene la mano e due infermiere che cercano di levargli l’uovo dal culo senza combinare una frittata?”
“dev’esser stata una bella scena”
“ho sbagliato tutto. Lo sapevo che mio padre aveva ragione quando mi diceva, Gennaro tu devi studiare medicina”
“lungimirante”
“eh sì bisogna ascoltarli i vecchi che col senno di poi c’hanno ragione”
Stefano prende un sorso e si guarda la punta consumata delle sue scarpe in pelle. Gli piacciono così, sono in quello stato di grazia che dura poche settimane. Dopo saranno da buttare o da usare solo per nostalgia.
Gennaro guardando l’ingresso chiede se Stefano ha più visto Francesca.
“hai più visto Francesca?”
“non di recente, l’ultima volta saranno state 3 settimane fa. Ad una inaugurazione. Mi sembra che fosse venuta con uno. Uno che aveva quella “r” tonda dei veneziani. Non ci siamo detti molto, io stavo andandomene e lei arrivava. Comunque sembrava a posto”
Gennaro finisce la sua lattina con un lungo sorso di quelli che però non scendono.
Rimangono in silenzio.
Stefano vorrebbe chiedere a Gennaro perché gli si sono incavati gli occhi nella faccia ed ora sembrano più scuri. Perché la sua pelle ora sembra più dura? E soprattutto cosa c’entra in tutto questo Francesca? Ma non dice niente. Si limita ad agitare la lattina e mandare giù un altro sorso. Provando a cullarsi con la musica martellante che esce da una sala carica di gente che si agita sotto luci che diventano ora rosse ed ora verdi. Tanto per confondere i daltonici.
Finalmente è Gennaro a parlare. Fissando sempre lo stesso punto di prima.
“ma che si crede quella? Sta diventando un po’ snob ultimamente non trovi? Sempre che non si fa trovare, sempre impegnata. Mica lo sa che la cacca la dobbiamo fare tutti.”
Non lo dice ma questa frase l’ha sentita il pomeriggio in televisione. L’aveva detta Filippo Timi. Quell’attore che balbettava.
Questa citazione lo fa sentire meglio.
Anche se ora non ha proprio nient’altro da dire.

giovedì 28 aprile 2011

Reina

C'è chi dice che l'appetito vien mangiando.
Spillo sostiene che l’appetito non è cosa per tutti, infatti lui ce l’ha quasi mai.
Totò invece diceva che l'appetito viene a star digiuni.
Io, nel dubbio, mi stappo diplomaticamente una birra.
A giudicare dal frigorifero penso che dovrei andare a far la spesa ma pioviggina. Scende una pioggerellina tanto sottile e leggera che quasi sembra foschia. Io odio la pioggerellina, la foschia e la pubblicità nella buchetta della posta il lunedì. Odio veramente a morte quando quelle goccioline infingarde mi si appiccicano alle lenti degli occhiali e sui capelli che poi si appesantiscono tutti e sembrano sporchi lerci. Penso avesse ragione Sergio: forse è colpa dell’inquinamento. O forse no, fatto sta che fino a che questa maledetta pioggerellina continua a scendere, io non ho la minima intenzione di uscire di casa. Perchè più la pioggerella è fine più è inevitabile che ti si impiastri sugli occhiali e sui capelli trasportata maleficamente dal vento. Non c’è ombrello che tenga.
Poi è aprile, il 27 aprile, forse a voi non dice niente questa data ma per me è importante. Molto importante ma non mi va di spiegarvi il perchè. Poi c’è che mi sono appena trasferito da una parte della città al suo antipodo -se si dice così- quello peggiore, è chiaro, ma sicuramente più economico. Devo risparmiare o di questo passo nemmeno in venticinque vite riuscirei a comprarmi la villa con piscina nell’aretino che fino a ieri sera promettevo a Reina. Non so che cazzo di nome sia Reina ma vi assicuro che basta guardarla bene un secondo e potrebbe pure dirvi di chiamarsi Sigismondo e voi non fareste una piega. Che creatura, ragazzi!
Cinquantasette chili di marmoreo e prelibato Angus argentino ben distribuiti in centosettantasette centimetri d’altezza. Trent’anni in pacca e nemmeno una ruga o un cedimento strutturale. Non una smagliatura, nemmeno nelle calze. E il culo? Ragazzi, quello non è un semplice culo latinoamericano che potete immaginare ma è una vera opera d’arte. Sembra dotato di vita propria quando lei cammina. Su a destra, giù a sinistra, su a destra e via che si allontana fedele alle spalle di Reina con un seguito di sguardi ammaliati e trasognanti. Solo al pensiero di averlo a portata di mano mi fa sudare freddo.
Pensate che l’ho conosciuta casualmente tre giorni fa dal Tabacchi sulla Ripa e poi l’ho rivista ieri sera. Da allora non penso ad altro. Continuo a rimandare anche la spesa ma so che prima o poi dovrò decidermi a trasportare il mio culo fuori da questo loculo fino alla Lidl di via Binda. Ma oggi no, vi prego, fatemi continuare a sognare.
E che cultura sconfinata ha Reina. Vogliamo parlarne? Conosce una quantità nomi di costellazioni e galassie e capitali del mondo che la metà me la sono già scordata e l'altra non l'ho mai nemmeno saputa. Poi sa leggere la mano e lo fa mentre ti snocciola il futuro in un italiano latino che è muy caliente e solo a sentire la melodia delle sue parole mi viene sete.
Un mojito per favore!
Neanche a farlo apposta, Reina balla divinamente il tango. Il tango, il sangue arterioso del mio corpo e secondo amore della mia vita. Mi ribollono le vene solo a ricordare la mirada di ieri quando Reina ha risposto al mio cabeceo: con il capo un pò inclinato in avanti, lo sguardo dannatamente malizioso e le mani schioccanti leggiadre sopra la testa, con il ginocchio che punta me, dritto avanti a sè, signori, a momenti morivo. Cristo sarebbe sceso dalla croce e avrebbe cominciato a ballare con i piedi bucati, Muzio Scevola avrebbe cominciato a battere le mani ustionate al ritmo e Gandhi avrebbe ucciso pur di fare due passi di tango con lei. Quando balla Reina si sprigiona una carica erotica che se fosse in mezzo al Pacifico affonderebbe definitivamente quel che resta del Giappone.
E conosce pure un sacco di curiosità. Mi ha spiegato il significato del nome Lidl e perchè il bancone delle casse è così corto. Mi ha rivelato che il detto “è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” in realtà è il frutto di un errore di traduzione fatto da quel sempliciotto di San Gerolamo (in realtà il cammello non c'entra una beata minchia) e che le carote, prima che gli olandesi nel 1720 ci mettessero mano, erano semplicemente viola... Che spettacolo della natura, ragazzi. Intendo Reina, non le carote.
Sono certo che se tutte le donne fossero come lei vivremmo in un mondo migliore. In un mondo colorato senza guerre, senza brutture di ogni genere e senza ingiustizie. Ma purtroppo basta attendere una decina di minuti il bus o fare la fila alla cassa dell’Esselunga origliando distrattamente la conversazione tra due donne per capire il motivo della tristezza della realtà in cui viviamo. Le donne in realtà sono creature che, per quanto magnifiche sanno apparire, rimarranno sempre di gran lunga più disgustose degli uomini.
Odio le donne che parlano sul tram di mestruazioni, in metro di cicli mestruali, a Brera di fasi lunari e fattucchiere, alle poste di assorbenti dalle ali d'aquila e schifezze varie. Anche la biancheria sporca e la birra sgasata mi fanno schifo ma mai quanto alcune donne. Giuro che non resisto, solo l’idea mi fa venire il voltastomaco. Bleah.
Odio le donne che leggono la posta di Donna Fanalia su Donna Moderna e seguono i suoi consigli. Odio le donne infatuate dalla miseria della cucina macrobiotica, amanti dei brodini insipidi e delle verdure cotte al vapore che paradossalmente fanno fare peti nauseabondi. Odio le donne che parlano di politica, di calcio e di William e Kate. Odio le donne sotto i quarantacinque anni che si pitturano le dita dei piedi di rosso valentino. Ma ieri ho scoperto che anche Reina, nel suo universo splendente ha il suo neo. Sporco mondo ladro...
Ah, a proposito di dita dei piedi e donne stomachevoli, quasi mi scordavo di chiamare Pietro per dirgli che ieri sera, alla fine, ho vinto la scommessa.
Sentite qua: saranno state circa le due e mezza ed eravamo al solito Lurido lungo i viali per ammazzare la serata con il solito panino alla salsiccia e le preziosissime cipolle ammazzavermi. Eravamo belli, alticci e senza un soldo. Siamo riusciti a malapena a prendere quattro panini completi e tre morettone da sessantasei con lo sconto di settanta centesimi. Ma il fatto è che noi eravamo in quattro e ci spiaceva lasciare Strabucco senza birra. Tra l’altro aveva appena avuto una delusione amorosa proprio qualche ora prima. Aveva l'ormone appena risvegliato dal letargo e, credendo di fare il colpaccio, s’era invaghito di una vecchiarda aolcolizzata del Tabacchi. Ma quella, dopo averlo lasciato sbavare e soprattutto pagare per un paio d’ore, a un certo punto, dopo il quinto o sesto Negroni, prende e se ne va con lo Scuro. Conosceste lo Scuro ridereste pure voi. Quindi, grasse risate dispensate gratuitamente a destra e manca per tutto il locale. Dovevate vedere come ci è rimasto e che faccia ha fatto il povero Strabucco. Comunque, dicevo che il Lurido proprio non ne voleva sapere di offrirci una quarta birra. Io, forse un pò più alticcio degli altri e quindi disposto anche a sdraiarmi in mezzo all'autostrada del Sole una domenica di maggio pur di bere un'altra birra, ho scommesso con Pietro che sarei riuscito a farmi dare un morettone gratis per Strabucco. Ho giurato che se non ci fossi riuscito avrei pagato pegno facendo il giro completo della Circolare destra, nudo in bicicletta. Ma se al contrario ci fossi riuscito, Pietro, il malfidente, sabato avrebbe pagato da bere a tutti quelli del Tabacchi e, il sabato sono veramente tanti. Poi lui, Pietro, è stato richiamato al dovere dalla sua nuova ragazza e se ne è andato da lei dieci centimetri più alto, da vincitore. Bè, caro il mio Pietro, sei un povero illuso perchè alla fine ci sono riuscito a farmi dare la morettona dal Lurido, e Strabucco, Sasso e Mistrà possono testimoniartelo. Hai perso la scommessa caro il mio Pietro e sabato ti tocca pagare da bere a tutti noi... che mi cascasse un piccione in testa se adesso non ti stai chiedendo come diavolo ho fatto. Bè, te lo dico: ho semplicemente riferito al Lurido che il mio morettone sapeva di tappo. Proprio così, niente di particolarmente elaborato. M'è venuto in mente questo. Poi quando lui m’ha detto con le sue vocali dure: “ehi amico, ma quella è una bottiglia di birra e ormai è mezza vuota...”, non ho fatto altro che accusarlo di nichilismo -senza lasciarlo ragionare sul significato del termine- per la sua visione della bottiglia mezza vuota e spiegargli che "ovviamente la birra è quasi finita perchè non mi sono fidato del mio palato ma ho dunque voluto avere il parere dei miei fidati amici". Ecco spiegato perchè più di metà birra era ormai sparita dalla bottiglia. Il Lurido peggio di San Tommaso ha voluto verificare chiedendo a Sasso, Mistrà e Strabucco che sapore avesse la birra. Loro hanno confermato un fastidioso retrogusto di tappo e il Lurido, accigliato e sbuffante, ha dovuto arrendersi davanti a cotanta evidenza. Tutto quì, caro il mio ingenuo Pietro...
Cristo, sto divagando.
Dov’ero rimasto? Ah sì, a Reina.
Bè, amici, c’è poco altro da dire. Vi stavo dicendo che anche Reina, sporco mondo ladro, ha il suo neo. Ieri, dopo aver ballato fino a tardi siamo usciti dal locale e, barcollando un pò, abbiamo imboccato un vicolo scuro e poco battuto sul retro. Le ha ceduto un tacco. E’ rovinata a terra leggera come un castello di carte e si è trascinata dietro anche me. Le sono caduto come un caco maturo addosso e la circostanza ha fatto sì che non gliela facessi passare liscia. Le ho srotolato in bocca una buona misura della mia lingua felpata da gatto e le ho frugato sotto la camicetta. Sono spuntate due tette sode e gonfie, perfette, in attesa di esplodere da un momento all’altro. E mentre mulinavo la lingua sempre più asciutta, lei ricambiava energicamente. Allora con una mano sono sceso a slacciarle i jeans per salutare la gatta. E’ saltato il bottone, è scesa la cerniera e, quando il sangue nelle mie vene stava finendo a furia di bollire, quando il mondo avrebbe potuto comodamente andarsene a fare in culo in un buco nero mangiatutto e le oche del Campidoglio invadere il Vaticano e cacciare a beccate il Pastore Tedesco, m'è arrivata una pugnalata al cuore. Oh cazzo!
Proprio così, sul più bello è spuntato un cazzo di troppo, il suo.

venerdì 22 aprile 2011

La strada per il lavoro

C'è un chiosco sulla destra. Su un tavolo da campeggio un miliardo di volantini impilati dai colori sobri ed il taglio elegante del centrodestra. Scommetto che odorano ancora della tipografia. La carta plastificata riflette la luce del sole che rimbalza sulla montantura nera ed inespressiva dei miei occhiali da sole. C’è un vociare intenso che a fatica copro con la musica che mi tappa le orecchie. Una signora mi vede arrivare e giudica la mia andatura e la mia valigetta. Sorride poco convinta quindi stacca un volantino dalla risma che tiene schiacciata al petto. Indossa un tailleur appena uscito dalla tintoria ed impreziosito da bottoni dorati. Sul volto vittima degli anni il trucco convinto ed esperto di chi si controlla nello specchietto retrovisore della propria auto. In coda alla fine di via Sabotino.
Prima ancora di raggiungerla so che avrà quell’odore dolce di profumo francese misto cipria.
Studio la traiettoria ideale per evitarla senza risultare troppo scortese o arrendevole. Non voglio dare l’impressione di sfuggire ad un confronto ma non voglio nemmeno scambiare due parole. Spegnere la musica. Fare domande. E finire con un volantino in mano che non posso buttare nella raccolta della carta riciclabile.
Non voglio contribuire all’entropia.
Voglio solo arrivare in ufficio senza troppo ritardo. In tempo per accendere il computer e fare una pausa per un caffè.
Intanto le passo accanto.
Non posso fare a meno di sorridere alle sue gambe allargate tipo film western.
Immaginandole piene di vene varicose e peli incarniti.
Per un momento penso a lei vestita da Clint Eastwood.
E la sorpasso.
Non saprei dire se fingo non esista o lo spero.
Più avanti quattro universitari vendono gelosamente copie di Lotta Comunista. Ogni tanto lanciano un'occhiata al gazebo del centrodestra. Scuotono la testa e poi tornano a parlare tra loro. Tre hanno la barba, la quarta è una ragazza. Ed è piuttosto carina.
Gli occhi con cui guardano la signora che si affanna nella propaganda non sono quelli della rivoluzione. Non guardano lontano come in quelle stampe sulle magliette. Hanno l’espressione del nipote che va a pranzo dai nonni la domenica cercando di mascherare i segni della notte passata.
Non provano a vendermi il giornale anche se sono sicuro che mi vedono passare.
Non gli interesso.
E allora incrocio una ragazzina sovrappeso indossa una maglietta dei NoFx di quelle che vendono al mercato il venerdì. Che stingono al secondo lavaggio. In quella maglietta c’è un disegno caoitoco che non ho il tempo di registrare.
Più avanti finalmente arrivo in ufficio e quasi mi sento bene. Quasi mi sento di avere una identità. Come in quei telefilm giapponesi dei supereroi dove i ragazzi si realizzano trasformandosi in adulti con dei caschi strani al solo scopo di salvare il mondo. Solo che io di lavoro non faccio il Power Ranger.

lunedì 18 aprile 2011

Prodigy

Insomma è andato a finire che tutto quello che mi ricordo di lei è che spesso di pomeriggio andava a correre nel parco che aveva davanti a casa usando i Prodigy come colonna sonora. Per il resto ricordo quello che raccontano le fotografie che ogni tanto ritrovo. È una sensazione senza sapore come quei piatti in mensa che ci provi a riempire di formaggio ma anche quello sa di carta. È come se tutto quel tempo fosse passato solo nello specchio e nel sorriso che si appoggia sempre di più sulla mia faccia lasciando quei solchi da combattere con creme antietà che odorano della crema idratante che si mette ai bambini cambiando il pannolone. Pasta del Fissan credo si chiami.
E con questo non voglio intendere granchè.
Volevo solo controllare di essermi preparato bene.
Il footing non è uno sport così scontato come si crede, ci vuole metodo e la giusta predisposizione mentale. Un po’ come il sesso solo che uno è il mezzo e l’altro la finalità. Ma non ci soffermiamo su questa affermazione. Era per dire.
Andiamo avanti.
Andiamo a quelle scarpe Nike che conservo da quando erano di moda i jeans a vita alta. I tempi di Beverly Hills per intenderci. Arriviamo al parco che ho sotto casa. Ad una giornata di sole in cui è ancora ragionevolmente freddo per non sudare esageratamente. All’odore nostalgico dell’erba tagliata che si solleva sotto ai piedi. Al fatto che pensavo a Stefania ed ho provato a correre accompagnato dalle canzoni dei Prodigy.
Bè, ho scoperto che non è oggettivamente possibile correre ascoltando i Prodigy.
Stefania mentiva.
Quella troia.

giovedì 14 aprile 2011

Patognomico

È come essere rimasto il solo su una cazzo di barca diretta con ostinazione oltre le colonne d’Ercole. È come se Ulisse non si fosse fatto legare ma fosse finito in mezzo alle sirene col cazzo in mano gridando a squarciagola il jingle del tonno marchio Nostromo(1). È come se la testa non mi girasse ma fossero semplicemente gli occhi a spostarsi veloci da destra a sinistra. E poi da capo. È come se trovassi ancora un senso a trovarmi a questa festa in questa casa d’altri e con implicazioni di altri tempi. È come se questo sorriso che so di ostentare fosse qualcosa di più che una reazione nervosa ma un atto di cortesia per mettere tutti a loro agio. Quasi come quando si chiede come va incontrando qualcuno.

“come va”
“bene e a te?”
“bene, grazie”
Silenzio.
Ci si guarda freddi come in una partita poker di quelle che danno in TV a notte inoltrata. C’è da ammettere che Stefania non è cambiata molto, che è sempre un piacere inciamparci.
E si cerca sempre di evitare di guardarle tette e culo.
E si riavvolge la cassetta C90 in cui si spera di recuperare qualche argomento comune senza finire a parlare ancora del tempo. Si prova a rendersi interessati ripescando dalla scatola in cartone da trasloco lasciata aperta l’ultima volta che ci si è visti. Ci vuole una dannata memoria ci vuole. Di più che quella necessaria per memorizzare il Cinque Maggio o il nome vero di Lenin. È poi sempre una cazzo di questione politica che se tutto va bene finisce in uno splendido amplesso. Se va male ci si ripromette di non perdersi di vista.
“bè, a presto allora”
“certo, ora scappo”
E ci si allontana veloci, con i passi che fanno eco nel portico e sembrano piovere dall’alto. Ipocritamente impegnati con la propria autostima da rinvigorire a colpi di cocktail e Sudoku poco sfidanti.

A questo punto Francesca mi guarda. E la musica ripete ancora “I know you like it” sopra i decibel che sono disposto a sopportare. Con questo sguardo espressivo mi sembra un omino della lego corretto col fondotinta. Le dico che è veramente una bella festa.
“già, non male” dice sollevando il bicchiere pieno di colore.
Butta giù quello scolo di piatti tutto d’un colpo con lo sguardo che non si leva dalla mia stempiatura.
Io considero il vestito bianco che la trattiene e quel neo tra la base del collo e la spalla destra.
Le musica continua ritmicamente a darmi di gomito come un noioso amico troppo avanti con i cocktail.
Devo trovare qualcosa di intelligente da dire quanto basta per allontanarla o avvicinarla.
Dico: “patognomico”.
E lei non si muove. Sembra uno di quei manichini in posizione ammiccante che popolano i sexy shop e Pimkie.
Sorride, suggerendomi una marea di implicazioni.
Faccio allora seguito a quelli che sono i cazzi miei parlando di fondotinta. E di quanto l’ostentazione del trucco finisca per rispecchiare in modo veritiero il più profondo io della persona che lo interpreta. Penso a Carla che copre i solchi dell’acne con un correttore dalle tinte accese che quasi mi distraggono dalla contemplazione del suo fisico perfetto. Strati spessi di tinta che vogliono attirare e difenderla dal mondo. Un trucco che collude con i suoi modi affettuosi prefigurando chissà quali incredibili risvolti puramente sessuali. Forse è questo che cerco nella faccia di Francesca: un invito a letto senza passare dalla pomiciata scomoda tra la gente che balla avviluppata con l’angolo di una colonna che mi taglia la schiena in due.
Con quei denti troppo bianchi per dimostrare i loro 27 anni Francesca ha iniziato ad esporre la sua teoria sulla cosmetica. Lo fa muovendosi appena a ritmo da spostare la composizione di capelli biondi che le baciano la guancia sinistra.
“Il problema” sussurra guardando in basso che quasi nota lo sporco sulle mie scarpe “è che anche la Collistar ha iniziato a testare i prodotti sugli animali(2) ”
Usando il suo tono dimesso dichiaro apertamente il mio sprezzante utilizzo della schiuma da barba Coop.
“Dici che va bene o la usano per rasarci la lana merinox delle trapunte Eminflex?” le faccio con l’unico sorriso orizzontale di cui sono capace.
Lei mi guarda un attimo seria e poi scoppia a ridere come Barbie Malibù tra le sue allegre amiche. Lo fa chiaramente tirando indietro la testa e con una mano sulle tette che spinge infuori.
Rispondo con un sorriso postorgasmico. Di quelli che abbracciano il mondo. Roba da San Francesco di Assisi.
Ora mi sento in quel momento in cui nei film la musica di sottofondo diventa dominante, dove non si capisce il dialogo ma si intuisce sia divertente(3). Dannatamente divertente. Quelle percezioni dovute al non verbale. Il fenomeno del copying tanto caro ai consulenti che tengono quei corsi di formazioni in asettiche sale conferenze di hotel a 4 stelle o giù di lì. Molti convenzionati con l’Accor Service, quello dei buoni pasto.
Allora parlo liberamente convinto che non mi stia proprio ascoltando, che senta quello che vuole sentire.
Ed infatti allegra si fa più vicina che quasi le sfioro il vestito con le nocche della mano che reggono in bicchiere da cocktail pieno di birra.
Francesca dice che sono proprio simpatico.
Io le rispondo che è lei ad essere veramente ricettiva.
Lei mi risponde: “eh?”
Lo fa venendomi così vicino che quasi ci baciamo. Sento il suo profumo appena fruttato. Diverso da quell’odore intenso che portano le signore concentrate nella scelta del pomodoro perfetto nel banco frutta dei supermercati. Un profumo che sicuramente ha una descrizione che ti vien voglia di un maglione bianco e caldo e di biancheria sexy Victoria’s Secret.
Io la sento così vicina che quasi ci spero in un futuro assieme fino al caffè di domani mattina.
Eccoci quindi al dunque. Quando inizio a raccontarle la barzelletta di questo malato terminale di cancro e lei si allontana lasciandomi la sensazione di aver detto qualcosa che non avrei dovuto.
A questo punto direi che la musica può anche scemare.
Titoli di coda.

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(1) Qui ci si riferisce allo spot Nostromo realizzato nel 1994 in cui una improbabile casalinga veniva convinta dal Capitan Nostromo in persona all’acquisto della sua scatoletta di tonno. La canzone veniva facilmente ricordata più che per la melodia in stile lirico, per le prime parole del testo: “se lei sapesse com’è questo, vorrebbe il mio…”.
Ad oggi tale performance risulta quasi completamente cancellata dalla memoria collettiva. Unico documento rintracciabile online è all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=4PoATvwjk7U
(2) Questa affermazione rispecchia unicamente l’opinione di Francesca e non rappresenta in alcun modo la mia convinzione o la verità delle cose poiché è un problema che non mi sono mai posto e non ho nessuna intenzione di approfondire.
(3) Vorrei precisare che questi particolari momenti nei film hanno il sapore realistico delle caramelle alla frutta che vendono al discount.