giovedì 31 dicembre 2009

I bei tempo andati (storiella altalenante non troppo impegnativa)

Qualcosa di poco impegnativo. Aspettando il pranzo. Rispettando una consecutio temporum che trascina la mattina nel pomeriggio. L’eco del caffè è il richiamo del pranzo. Il frigo minimalista di salse e surgelati per tutte le occasioni. Ciononostante non so bene cosa ho voglia di mangiare. Non è una questione esistenziale ma semplicemente congiunturale. Come un incontro più o meno fortuito. L’altra sera ad esempio ho rincontrato dopo un gran tempo Karl e subito sono venuti a galla nel mio stomaco vagamente allagato un sacco di ricordi sconvenienti. Sentimenti tipo invidia del pene. Nello specifico il suo che penetrava dentro Erica.
C’era l’odore di legno bagnato e freddo e ricordi di fumo.
Karl indossava una felpa Abercrombie arancio e teneva i gomiti appoggiati al tavolo.
A questo punto mi ha chiesto come andasse ed io ho risposi che stavo da Dio. Praticamente in paradiso. E lui sembrava anche ne fosse contento. Poi gli ho tirato una bicchierata in testa che lui tutto sommato ha accettato con magnanimità.
C’era un gran casino nel locale e solo pochi erano interessati a noi due anche perché c’erano un sacco di ragazze. E anche io avrei voluto avere quella distrazione anche se tutto sommato questa posizione scomoda ma malinconica non mi dispiaceva così tanto. Bevvi un sorso sublimando nicotina in ottemperanza al cartello vietato fumare. Certo ci sarebbero stati risvolti e sicuramente non propriamente porno.
Karl disse quindi eccheccazzo. Più per cortesia che per effettiva necessità. Non era incredulo, sofferente, sanguinante, devastato, morto. Era semplicemente lì. Bevve un sorso dal suo bicchiere e continuammo a parlare dei bei tempi andati.

giovedì 24 dicembre 2009

Neve

Negli ultimi tempi tutte le mail sono firmate Buon Natale o Buone Feste. Spesso con caratteri colorati e poco ortodossi. Alcuni estendono gli auguri alla mia famiglia, altri mi augurano anche un felice anno nuovo. Come se cambiasse qualcosa.

Fuori non nevica e nemmeno accenna a piovere un po’. Anzi. Fa piuttosto caldo e per strada c’è ancora più gente del solito. Si accalca nei negozi per comprare questo o quest’altro articolo. Ogni tanto qualche bambino piange. I mendicanti si danno battaglia, come ogni anno. Dal mio ufficio posso vedere 10 metri di questo moto continuo. Mi distrae.
Respiro l’aria depurata della stanza con un sapore vago di eucalipto e torno al mio schermo.
Una icona indica una nuova mail. La ignoro e torno alle mie fatture ripassando le persone nella mia vita che si aspettano un regalo e quelle che lo meriterebbero. Dopo circa 2 ore decido di aprire la casella della posta.

Da: francesca
Inviato: giovedì 17 dicembre 2009 15.09
A: dante
Oggetto: ...

ciao, torni anche quest'anno per natale?
come stai?
un bacio,
francesca

Silenzio.
Domande si domande che si accavallano a situazioni. Possibilità.
“Lascia perdere”
“Perché?”
Incongruenza di due blocchetti Lego che stranamente non si incastrano. Cubi di Rubik. Dizionario Latino-Italiano Castiglioni Mariotti. Musica concettuale. Acne. Esposizione di arte contemporanea alla Fiera di Bologna. Chilometri di niente da autostrada dell’entroterra spagnolo. Quiz televisivi troppo complessi. Decisioni posticipate, lasciate al caso. Destino perverso. Controsterzo in uno svincolo autostradale congelato. Sudore freddo e caldo alle tempie. Tutto bene.
“Caffé, prendo un caffé”
Seguono attimi di concentrazione flebile e falsa. Di facciata.
Scene di me e Francesca che facciamo l’amore si sovrappongono allo schermo piatto affollato di finestre e geroglifici che ho davanti. C’è quella sera di fine primavera in cui ci siamo lasciati senza sapere bene come che scorre al ritmo delle mie dita sul tastierino numerico. In una fattura di qualche compagnia aerea vedo le nostre facce sospese che masticano parole inconsistenti e subito dopo, saltando un buco temporale di anni agrodolci, io e Francesca che facciamo molto più sesso di prima.
La casella della posta da leggere ora è vuota.
L’ultima volta che vidi Francesca fu qualche anno fa quando disse di aver conosciuto una persona importante. Aveva un maglione a collo alto e cenavamo in una pizzeria arredata come un pub irlandese. La pizza non era il massimo e lei aveva questa ciocca castana luminosa che le si muoveva sopra l’orecchio destro. Parlava con una voce sottile ma di quel momento ricordo ogni parola. Mi era tutto chiaro forse anche da prima del maglione a collo alto e la pizza al tonno.
Scorro con la sedia lontano dalla scrivania.
Ripasso le facce degli amici di un tempo che vedo più adulte ogni Natale. C’e Marco con la giacca a vento lucida Monclaire ed i capelli corvini dritti in testa e Pippo con i suoi improbabili maglioni e gli occhiali da vista dalla montatura spessa. Poi contraggo qualche muscolo di cui non conosco il nome. E basta.
Decido.

Il 17 dicembre comunico al mio capo che dal 21 sarò in ferie e contestualmente informo mia madre del mio imminente arrivo.
Entrambi sono dapprima stupiti poi uno si incazza e l’altra si dichiara “felicissima”. Parole sue.

Questa sera cenerò con Carlo. Porterà a casa dal lavoro 3 grosse ceste cariche di prosecco, spumante, zampone, lenticchie, arance, mandarini e noci. Me lo anticipa con un SMS incomprensibile dove mi chiede anche di andare a comprare un po’ di puré solubile.
Carlo lavora nell’ufficio acquisti di una grossa azienda. Non ho ancora capito cosa produca. Ho visto il sito internet e nella pagina “prodotti” c’è scritto connettori. Carlo non è riuscito a darmi altri dettagli. E non è che poi ci interessi molto. Era per dire.

Quando rincaso trovo due buste di zampone che galleggiano nell’acqua fumante di una pentola troppo piccola. Carlo è sul divano, come sempre a quest’ora. Sul tavolo da 9 euro in truciolare una bottiglia di spumante immersa in una insalatiera in vetro piena di ghiaccio.
“Buonaseeera” dicono i suoi occhi fissi sullo schermo del computer.
Prendo un sorso dalla bottiglia e sistemo con cura la giacca su una sedia dalla seduta in paglia e struttura in legno scuro.
“Domenica parto” dico con la convinzione dei messaggi di servizio alla stazione di Bologna.
Carlo continua a visualizzare video su youtube.com. Non c’è poi molto da dire. In questo momento forse razionalizzo. La sensazione è chiara: dolorosa sconfitta e rassegnazione.
Nello schermo 15 pollici del portatile precario sulle ginocchia del mio coinquilino qualcuno perde la propria moto da cross in un salto a parecchi metri da terra. Una voce fuori campo dice “oh my god!”. Si interrompe il brusio del pubblico di sottofondo quasi tutti prendessero fiato allo stesso momento. L’omino, un casco bianco su tuta blu, guanti e stivali, pare guardare la telecamera per un secondo. Come nei cartoni animati. Poi rovina al suolo. Sordo.
Carlo si gira un secondo con un sorriso e torna al computer.
Prendo un altro sorso dalla bottiglia e vengo a patti con il mio orgoglio.
Carlo intanto ha trovato un nuovo video. Me lo comunica attraverso la porta del bagno.
Dice: “questo non te lo devi assolutamente perdere”
Intanto piscio. Sarà il freddo ma il mio pisello sembra più piccolo.

A cena non guardiamo la televisione. Il nostro vecchio 21 pollici Samsung con videoregistratore incorporato ha dei problemi col tubo catodico. Ogni immagine ha dei colori improbabili, quasi lisergici. Comunque. C’è la radio accesa.
Carlo ha finito la prima bottiglia e l’ha lasciata affogata nel ghiaccio sciolto nell’insalatiera sul tavolino del soggiorno.
Ammetto che lo zampone non è venuto male ed il puré solubile ha un sapore vagamente genuino. Rustico. Come sulla confezione.
Scena conviviale, un po’ l’Appartamento Spagnolo un po’ Continuavano a Chiamarlo Trinità.
Brindisi.
Alla radio passa la pubblicità di una banca che si offre di sobbarcarsi un mio mutuo. Usa un tono umoristico molto anni novanta: cinico. Tra una battuta e l’altra definiscono la loro offerta. Prestiti su misura anche per lavoratori interinali, scemi di guerra, studenti fuoricorso, over 60 con un cancro alla prostata, decerebrati, ragazze madre, preti, ausiliari del traffico. Già, anche per gli ausiliari del traffico. Immagino grasse risate. Applausi.
Torno alla cena. Zampone e poi puré.
Il tavolo in cucina è bianco. Combatte con l’umidità come un vecchio con l’artrite. Alcune parti delle gambe sono scrostate e scoprono un legno vero con molli venature scure. Roba d’altri tempi: vecchia. Non so perché mi capita di distrarmi sui particolari. Probabilmente è la seconda bottiglia di spumante.
Carlo intanto racconta di un capodanno in campagna.
“Non so nemmeno dove avevamo rimediato tutta quella gente” dice.
Internet? Numeri di telefono nei bagni dell’autogrill? Flyers dai titoli allusivi stampati su carta colorata?
“Poi c’era Stefania, Michele, il Botta e Napalm. A proposto ti ho mai parlato di Napalm?”
Sì, me ne ha parlato. Aveva detto “Napalm: dove piscia lui non cresce più niente.”
Si ripete e prosegue col racconto.
“Bè insomma. Tornando alla festa. Ci siamo noi nel giardino davanti a questo casolare che inneschiamo botti più o meno legali. C’è anche chi tiene in mano quegli assurdi bastoncini che fanno le scintille, da festa giapponese. Poi di colpo PAM! Salta la luce. E tutti che ci guardiamo alle spalle verso il casolare improvvisamente silenzioso e scuro. Minaccioso. Qualcuno è basito, qualcuno dà fuoco a qualche fontana ed illumina qualche metro di scintille rosa. Altri disinteressati o ubriachi brindano stringendo gli occhi per abituarli al buio.
Il fatto è che eravamo persi in mezzo alla campagna senza l’idea di dove fosse la levetta del contatore. Forse poteva saperlo Gimmi che aveva affittato la casa ma se ne era andato da qualche parte con Iris. Un bello scherzo del cazzo!”
Rabbocca il bicchiere di spumante e segue dopo averlo svuotato per metà.
“Sai, Iris non era affatto male. Usciva in compagnia con noi anche se era di un’altra scuola. Aveva i capelli biondi alle spalle ed un sorriso allusivo. Forse anche per quello ero lì ed invece mi trovo io con Napalm e un altro numero indefinito di persone a incespicare alla ricerca del contatore di quel cazzo di casolare. E niente. Non si trovava. Qualcuno bestemmiava. Poi, non so chi, iniziò un coro tipo fuoco e fiamme. E tutti dietro. Una scena tra rito pagano e follia collettiva. La paglia si definiva sempre meglio con la luce bianca della luna. Arrivava alle prime finestre del fienile impilata in blocchi rettangolari. E noi a cantare. Contavo i botti che mi erano rimasti e gli accendini che avevo nelle tasche larghe dei pantaloni militari. Pensavo alla felpa nuova indossata inutilmente per l’occasione. L’avevo comprata con i soldi ricevuti a Natale. Devo avercela ancora da qualche parte. poi la cerco e te la faccio vedere. E poi mi dici se non è ancora bella. Alla moda!”
Mi guarda un attimo, incerto. Con la faccia di chi ha un nome sulla punta della lingua ma proprio non riesce a ricordarlo. Si scompone i capelli troppo lunghi e sbatte gli occhi. Io aspetto, mite. Recupero ancora qualche pezzo di cena dal piatto da portata affollato come una stazione di provincia il 17 ottobre. Cerco di immaginare Francesca oggi, chissà come porta i capelli e che maglione veste. Carlo prosegue riprendendo la parola basso ed incerto.
“Quindi. Tipo 10 minuti ed inizia ad alzarsi un fumo bianco e denso tipo panna montata. E noi continuavamo a scoppiare petardi verso il fienile. Napalm sparava dritto i suoi bengala dentro la finestra come nei film di guerra. Poi sono arrivate le fiamme e poi i pompieri. E noi lì fermi a guardare con la bocca aperta. Innocenti. Non saprei dire in quanti si davano da fare con estintori e manicotti. Urlavano ordini e nessuno di noi che diceva niente. Era molto Hollywood ma più caldo e sudato. Non ci volle molto a spegnere l’incendio. Dopo rimase un odore di paglia bagnata persistente che si attaccava ai vestiti sopra lo strato affumicato. Gimmi il butterato in tutto questo si era addormentato con Iris in una delle camere del casolare che, tra parentesi, era di un qualche amico di suo padre. Dovevi vedere che faccia aveva il giorno dopo.”
Carlo svuota il suo bicchiere con un sorso da ubriaco.
Sorrido e non capisco se ho ascoltato tutto il racconto. Continuano a galleggiarmi in mente quelle tre righe della mail di Francesca. Magari non volevano dire niente. Magari voleva solo sapere se esisto ancora dopo due anni che non ci si sente. Sapere come sto. Sarebbe anche normale. Non riesco a concentrarmi. È sicuramente la luce della cucina ad essere troppo chiara per qualsiasi riflessione. C’è il colore della stanza della poltrona del dentista. Anche per questo non abbiamo spesso ospiti.

Finita la cena usciamo lasciando i piatti sporchi nel lavandino bianco.
Non abbiamo ancora deciso la destinazione. Camminiamo dividendo una bottiglia di birra.
Carlo propone un locale dove non ho nessunissima voglia di andare. Dico che non lo so.
“Mah, non so…”
Continuando un passo dopo l’altro mi chiede dove possiamo andare allora.
“Mica ho voglia di congelarmi” dice.
Ho la stessa mente vuota di quando mi costringo ad indovinare il resto di un acquisto qualsiasi.
“Allora?”
Farfuglio per qualche passo. Prendo tempo ed ancora ripasso la risposta da inviare a Francesca. Cerco le parole giuste. Allusive. Mi lascio trasportare.
“Ok, andiamo al Corto”
Passeggio apatico, non mi esprimo che a monosillabi. Fortunatamente Carlo ha un sacco di cose da raccontare.

Quando arriviamo per fortuna il locale è inspiegabilmente vuoto e troviamo il posto e la calma per due malinconiche birre servite in bicchieri da cocktail.
La barista ci guarda con la faccia di chi vuole solo tornare a casa mettersi comoda con un bicchiere di vino a nuclearizzarsi con qualche rivista superficiale e patinata. Io cerco di sembrare solidale e lei si sposta verso il lato opposto del bancone col cellulare in mano. Incomprensioni adolescenziali. Carlo continua a chiedermi dove andiamo dopo. Ormai ha il bicchiere vuoto ed il mio è ancora praticamente pieno. Ne ordina un altro che significa un altro anche per me.
La barista si trascina allo spillatore. Appoggia alle sue spalle il telefono e riempie altri due bicchieri. Mi sento in dovere di dirle qualcosa.
“Grazie”
Lei fa un cenno, raccoglie i soldi contati e torna al suo SMS.
Potevamo lasciare qualche euro di mancia, forse.
Parlo a Carlo di Francesca e lui mi guarda stranamente sobrio. Saranno gli occhi neri pennarello.
Gli dico che non so cosa aspettarmi.
“Non so cosa mi aspetto, so solo che ho fatto incazzare il capo quando gli ho chiesto le ferie”
“Vabbè, ma che ti importa? Tanto tu lo schifi quel lavoro. Lo dici sempre”
“Si, ma. Ok. Forse hai ragione”
Carlo dice che mi aiuta lui a rispondere alla mail.
“Tranquillo, ci penso io” e aggiunge, dopo un sorso veloce “il poeta maledetto”
Chiede alla annoiata e bionda cameriera un foglio ed una penna. Questa gli porta il tutto e rimane poco distante, curiosa. Quasi viva. Faccio considerazioni poco nobili che tengo per me. Carlo intanto sul foglio ha scritto con tratti veloci.

CIAO,
CERTO CHE VENGO, ASPETTAMI A GAMBE APERTE.
TUO,
DANTE

Mi allunga il biglietto e dice “fanne buon uso, buon Natale”.
Immagino imbarazzato la barista poi provo a distrarla ed ordino le ultime due birre.
“Poi basta” aggiungo.
La barista sorride nervosa e recupera due bicchieri puliti. Sono certo che ci odi.
Chiedo a Carlo che ha intenzione di fare a Natale.
Lui risponde prendendo un sorso e facendo una smorfia.
“Sarò a casa dai miei verso le 12 con una busta contenente un paio di pantofole per mio papà taglia 43 e una cornice per mia madre con una foto di me a 19 anni appoggiato alla mia prima auto. Una Y10 verde petrolio di seconda mano. Per mia sorella avrò quella macchina digitale da 8 megapixel rosa che ti ho fatto vedere l’altro giorno. Sul tavolo apparecchiato di antipasti ci sarà un centro tavola con pigne, agrifoglio e qualche fiocco rosso e oro o argento e blu. Ci saranno anche i miei nonni materni che mi domanderanno se ho fatto domanda per entrare in banca o in qualche ufficio comunale. Poi mangeremo con la televisione accesa. Un pranzo a 4 portate culminante col tradizionale panone bolognese preparato dalla nonna. Per le 17 sarò sicuramente a casa con qualche centinaio di euro in più in tasca. Magari ti manderò un messaggio in cui ti chiederò di salutarmi la tua amica”
“Francesca”
“Appunto”
Sorrido con la birra ormai a metà. Nervoso. Intanto è arrivato qualche altro avventore e nel locale ci saranno almeno 10 persone. Mentre ci alziamo incerti sono felice di lasciare la barista in compagnia.
Carlo la saluta e lei ricambia.
Io ho un conato di vomito che riesco a rimandare aggrappandomi a un vago concetto di contegno.

Del giorno dopo è meglio non parlare. Mi sveglio troppo tardi per arrivare puntuale al lavoro e quando anche arrivo riesco solo a combinare casini. Confondo le valute nelle registrazioni, mi tremano le mani e non riesco a consultare gli archivi in ordine alfabetico. Immagino il capo, un uomo corretto e calvo con un handicap alla gamba destra, controllarmi dal suo ufficio alla fine della sala con le nostre postazioni monouso. Un monitor piatto, una tastiera ergonomica ed un mouse griffato Logitech. Il mio cestino contiene già il guscio di plastica marrone di 4 caffè. 11 e 17. È come se la notte scorsa avessero imbottito la mia austera sedia blu con le ruotine. Mi si chiudono continuamente gli occhi su una visione scura della stanza che sobbalza. Poi di nuovo la realtà illuminata fredda dello schermo piatto Dell.
Mi ripeto in mente un po’ di bestemmie nervose ripassando la serata precedente a tinte catastrofiche memore di altre serate ben più catastrofiche. Sudo e continuo a passarmi la mano tra i capelli. Guardo sottecchi i colleghi attaccati alla scrivania. Concentrati. Quanto vorrei essere come loro.
A pranzo, davanti all’ovvietà della nausea scappo a casa e recupero 15 o 20 minuti di sonno.
Nei miei occhi chiusi rivedo il neo impercettibile accanto al capezzolo destro di Francesca poi suona la sveglia del telefonino e mi sento completamente solo.
Il resto del pomeriggio al lavoro passa come un uovo sodo in gola.
Non faccio altro che salvare bozze di email. Insoddisfatto e remissivo. In bocca nicotina e caffeina: speedball.
Verso sera inizia la decompressione. L’aria di festa impazza con mail di auguri inviate da e verso tutti i contatti dell’azienda, filiali comprese. Ci sono quelle con Homer dei Simpson vestito da Babbo Natale, quelle con delle filastrocche cacofoniche e melense, quelle con le foto di Anne Geddes e quelle tradotte in una infinità di lingue. Le inoltro tutte all’indirizzo di Carlo che risponde con la foto di due zingari vestiti da scalcagnati Babbo Natale con fisarmonica e tamburello. In basso a destra una bottiglia mezza vuota di vodka con una etichetta verde.
Sotto l’immagine scrive:

natale ad Istanbul – prossimamente nei migliori cinema.

Carlo

Ps. Stasera cena da Gigi?

Segue l’informativa ai sensi del D.Lgs 196/'03 c. d . Privacy che non leggo ritornando al presente dell’ufficio.
Quando controllo l’orologio in basso a destra nello schermo è certamente il momento più felice della giornata, definitivo. Un’orchestra di computer si spegne e nel vuoto produttivo galleggiano pacche sulle spalle, buone vacanze e ci vediamo l’anno prossimo. Ci si bacia sulle guance e ci si stringono le mani. Sabrina mi augura buone vacanze e mi racconta di come si è organizzata per rientrare in città a capodanno.
“Ho sentito dire che in piazza ci sarà un concerto mica male” improvviso.
Lei sorride e risponde “infatti”. Mi racconta che si farà una cena da lei. Elenca il menù per intero come recitasse una poesia durante l’ora di italiano con tutti che la guardano. Altezzosa. Si interrompe sui dolci. È indecisa.
“Meglio il tradizionale pandoro farcito di crema fatta in casa o una torta allo yogurt?”
Ci penso. Sabrina indossa un abito nero sotto un cappotto bianco. Ha delle unghie curate con smalto rosso ma poco evidente. Dà l’idea di una persona affabile ma sofisticata.
Le dico che non lo so, entrambi i dolci per me andrebbero benone.
Devo scrivere assolutamente a Francesca.
“E tu che fai?” domanda.
Le possibilità si aprono e si chiudono come le fiacche che sento nello stomaco da questa mattina. Immagino la camera di Francesca a casa dai suoi. Con quella finestra piccola e quadrata da ultimo piano di un caseggiato anni 70. Con le pareti dipinte. Col letto disfatto e plausibilmente noi due sopra. Non vedo alternative. Vedo Tony e Marco con un coca a rum in mano vestiti da playboy di periferia. Firmati fino ai denti. Ripasso i locali esclusivi con brindisi a mezzanotte, musica tutta la notte e colazione alle 7 di mattina. Mi viene in mente l’animazione di un villaggio turistico in Sardegna.
Le dico che ancora non lo so.
“Torno a casa” dico senza aggiungere particolari.
La immagino delusa mentre mi saluta un paio di battute più tardi. Egocentrismo.
Mi accorgo di avere le unghie sporche.

A cena da Gigi Carlo ripete i suoi sketch da ufficio acquisti. Comicità sull’incrocio tra domanda ed offerta. Deformazione professionale. Con noi ci sono Eleonora e Francesco, ex compagni di studi ora colleghi di Carlo che sorridono e ridono rispettivamente. La sua compagnia ha praticamente assunto tutti i laureati nella sessione estiva del 12 luglio di Economia ed io, con la mia laurea anticipata a marzo, ero rimasto incastrato con un contratto di collaborazione sottopagato in una azienda che commerciava sistemi di chiusura. Serrature e rivetti diciamo. Comunque, questo succedeva 2 anni fa. Col tempo ho raggiunto una certa stabilità ed accettazione della maturità all’alba dei trent’anni. A volte la chiamo rassegnazione. Più spesso flessibilità.
Stefania si avvicina. Si annuncia con un buonasera mentre apre il blocchetto per le ordinazioni.
Usa una matita piccola. Di quelle che si trovano all’Ikea.
“Che vi porto?”
Quindi chiediamo le nostre pizze.
Per me una marinara ed una birra.
A Carlo una gorgonzola e salame piccante.
Eleonora decide per una margherita e Francesco, dopo qualche indugio, chiede il solito risotto.
Tradotto: Francesco è celiaco, Carlo affamato, Eleonora prudente ed io ho una inarrestabile dissenteria e non lo voglio ammettere.

Il giorno dopo quando vedo passare per la sala Eleonora con addosso una felpa di Carlo penso a Francesca.
“Buongiorno” mi dice con un sorriso composto. Molto inglese.
La immagino in abiti ottocenteschi sorseggiare un tè da una tazzina in porcellana dal manico placcato oro.
“Ehi” mi limito a dire immergendo un altro biscotto nella tazza di latte freddo. Rassegnato. Questa è quella tazza che mi regalò Francesca 5 anni fa mentre passeggiavamo in uno stanco sabato pomeriggio in uno di quei negozi con i prodotti al prezzo fisso di 99 centesimi. Nostalgia e malessere generico. Oggi devo comprare i regali. Recessione.
Eleonora esce dalla cucina con un cartone di succo d’arancia in bilico sopra ad una scatola di latta di biscotti danesi al burro assieme a due bicchieri in vetro.
“C’è un vassoio in cucina, te lo prendo”
“Non importa”
Lo sapevo.
Controllo ancora una volta la casella della mail. Nessun messaggio nuovo. Poi scrivo.

Hey,
quanto tempo.
Qui tutto alla grande, qualche novità dall’ultima volta c’è anche. Sarà passato un secolo, spero tu non sia invecchiata.
Comunque.
Comunque domani sono lì e se non hai niente di meglio da fare –e sono certo tu non l’abbia– ci vediamo.
Un bacio,
Dante.

Il mal di testa mi impone di premere invio dopo appena una lettura veloce. Mentre assisto irrimediabilmente al mio destino compiersi parafraso la risposta in un cacofonico tentativo di risultare interessante ed arguto. Come mi immagino le piacessi a suo tempo.
Mi sento un po’ patetico e non è una sensazione digestiva ma permanente. Mi domando se comprare un regalo anche per lei e quanti soldi ho in banca da buttare in regali sbagliati e scelti in base al gusto del commesso di turno.

Dico: “vorrei un profumo per mia mamma, sa, è una signora sui 55 ma molto giovanile. Tradizionale ma innovativa”
Ed una ragazza in divisa Douglas mi consiglia un profumo di Gucci. Prende un campione lo spruzza su un cartoncino, lo agita e me lo trovo sotto al naso prima di considerarne il prezzo.
Respiro i 50 euro del primo regalo.
“Un pacchetto regalo?” chiede con già una mano sulle forbici nel cassetto bianco sotto la cassa.
Ha delle sopracciglia sottilissime che, per contrappasso, mi ricordano quelle di Madonna negli anni ottanta.
“Certo” dico mordendomi il labbro.
Tutto il resto scorre da programma. Mi trovo, con 150 euro in meno rispetto a questa mattina, a passeggiare da Feltrinelli. Tra l’arredamento standard di tascabili impilati ed organizzati per autore, copertina e tema. Su qualche testo c’è un adesivo blu che comunica un allettante 20% di sconto. Penso a Carlo, Francesca e me stesso. A come si incastrino gli eventi e a come ce ne siano altri che non significano niente. Sia nel breve che nel lungo periodo. Penso alla bicicletta che mi hanno devastato lasciando intatto solo il lucchetto, ad Una Poltrona Per Due e ad altre ovvietà sul Natale, ai proverbi ed a mio nonno che non parla mai della guerra. Mi sento orfano di una casa ma non in senso architettonico. Senza ragione mi appoggio su una poltrona ed inizio a sfogliare un libro qualsiasi annoiato e tangenziale. Stanco, presumibilmente.
Carlo ed Eleonora probabilmente sono ancora a letto.
Mi sento solo.
Mia madre sarà impegnata a stendere la sfoglia o a comprare quegli odiosi tovaglioli di carta rossa che rimangono sempre appiccicati alle mie mani bagnate dal vino troppo freddo e gasato.
Francesca a quest’ora avrà letto la mia risposta e magari pure scritto qualcosa.
Il libro che ho in mano racconta di due coppie sedute ad un tavolo a discutere bevendo gin scadente. Vado ancora un po’ avanti a leggere poi mi alzo e lo lascio più o meno dove l’avevo preso.
Sono l’unico ad uscire senza una borsa in plastica griffata Feltrinelli. Ribellione.
Fuori mi si avvicina uno augurandomi buon Natale. Mi mostra dei libri sull’Africa e mi chiede un’offerta.
“Almeno un cappuccino” sorride mostrando i denti fino alle gengive.

La prima cosa che faccio tornato nell’appartamento è controllare la posta. Ho ancora addosso il cappotto grigio pesante quando leggo l’unico messaggio nuovo ricevuto. Proviene da un indirizzo sconosciuto e propone uno sconto del 70% su Viagra e Cialis. Lo leggo come un messaggio premonitore. Sorrido, chiamo Carlo ma non risponde nessuno.
Quindi decido di tornare fuori a completare il giro di acquisti.

Il giorno successivo sono in treno. Mastico ancora gli avanzi di un dvd che mi sono autoinflitto più per noia che per necessità. Ha il retrogusto di una bottiglia di vino rosso avanzata in qualche occasione particolare nella credenza tra l’olio ed i biscotti. Non so che ha fatto Carlo. Mi ha scosso dal divano prima di andarsene a letto con Eleonora e in qualche modo mi ha augurato buon Natale. Ha lasciato un pacchetto sul tavolo Ikea. Spero tanto non sia una di quelle compilation con le canzoni di Natale che ha minacciato di regalarmi.
Tutto questo deve essere successo relativamente presto siccome stamattina ho trovato anche il tempo e l’intenzione di radermi e di caricare qualche nuova canzone sull’ipod.
A Carlo ho lasciato un biglietto sopra una raccolta di racconti di Hemingway in sconto a 9 euro e 90.
Il biglietto dice:

BUONGIORNO TESORO.

È firmato:

LA TUA GATTONA

Spero tanto lo veda Eleonora. Anche se non capisco bene perché. Immagino centri il cameratismo e la misoginia. Ma sono solo le prime parole che mi vengono in mente.
Provo a tornare alla musica che ho nelle orecchie. Intanto passo in mezzo al nulla di una pianura fatta al massimo di umidità condensata in nebbia. Tengo il ritmo con un dito che batte sul ginocchio destro. Poi seleziono un’altra canzone ed un’altra ancora ma rimane una claustrofobia da ripetizione. Fretta ed ansia. Passo dal folk al rock a qualcosa di più inatteso tipo Prodigy. Provo a sonnecchiare come tutti quanti ma non riesco. Quindi mi lascio trascinare in un viaggio dalla durata soggettiva doppia. Come gli ultimi 5 minuti di corsa per finire l’allenamento. Avanti, avanti. Poi una stazione di un paese che sono già pronto a dimenticare. Poi avanti. E daccapo con un nuovo nome per una omologa stazioncina deserta. Atomica.

Alla fine finalmente suona il telefono. Inatteso che quasi non riesco a rispondere in tempo.
Rispondo.
Mia madre mi domanda se va tutto bene.
“Certo” dico impermeabile.
Mi parla delle previsioni. Hanno fatto un servizio alla televisione.
Ha il solito tono lento ed accomodante. È come se mi rallentasse tutto e mi desse finalmente il tempo di ragionare. Razionalizzare.
Dice che potrebbe nevicare su un sottofondo della pubblicità.
“Sarebbe bello” continua “ti ricordi quella volta che avevi montato le catene sulla macchina? Eravamo andati in centro per passeggiare. C’eravamo Solo noi: io, te, papà e quella tua amica. Come si chiamava pure?”
“Francesca”
“Sì, sì. La Francesca. Appunto. Dì, sarebbe mica bello venisse a nevicare?”
“Sì, sarebbe niente male”

venerdì 11 dicembre 2009

L'emisfero boreale

Probabilmente era una delle cene meno sane che consumavo negli ultimi due anni. Beh, certo, se non consideriamo anche le due volte da McDonald's, la cena al cinese e la vacanza negli Stati Uniti, possiamo tranquillamente affermare che si trattava senza dubbio della cena meno salutare degli ultimi quattro anni.
Tre wurstel di puro suino, un sugo riscaldato di pomodoro e cipolle preparato da non so chi (forse da Giuseppe), tre tomini nauseabondi ma squisiti, qualche fetta di salame Negroni e, per concludere, Puzzone di Moena portato direttamente da Pinzolo da Marco, che forse ignora che Pinzolo è il paese di origne della Spressa... ma poco male, il tutto innaffiato da una mezza dozzina di Hell's Beer. Già, proprio la birra più economica mai commercializzata da Lidl.
"Ciao vecchio, come va?
"Insomma..."
"Come insomma, se non va bene a te, caro mio... e Sara, dov'è? Credevo sarebbe venuta anche lei"
Già, dovevamo andare a sentire i "La ira de dios" al Cox, un gruppo peruviano nonchè il preferito di Sara.
""Mmm, ti devo dire una cosa"
"Su avanti sputa il rospo"
Chissà da cosa deriva il modo di dire "sputa il rospo". Magari nel Medio Evo (dato che tutti modi di dire hanno origine proprio in quel periodo) si era soliti mettere un rospo in bocca a chi non doveva parlare oppure era, che ne so, una punizione per chi parlava troppo o faceva gossip...
"Oggi ho lasciato Sara..."
Appena ho sentito quella frase un boccone di Wurstel di puro suino mi si ficca nel canale sbagliato ed a momenti non muoio soffocato. Ho cominciato a tossire come uno che si è scolato metà Mediterraneo e, per nulla preoccupato del mio stato di apnea, sottovalutando tutti i rischi che possono derivare da una prolungata assenza di ossigeno alle cellule del mio cervello, cercavo di dire
Ma dico, ti è dato di volta il cervello? Come cazzo ti è saltato in mente di lasciare Sara, l'unica ragazza che ha avuto il coraggio, non solo di farsi vedere con te, ma pure di andarci a letto!
Poi pianin pianino, quando gli spasmi da soffocamento avevano cominciato a passarmi e le cellule neuronali erano ormai al sicuro, col sudore che mi colava sulla fronte, sono riuscito a biascicare
"Ma sei un coglione!"
Sia chiaro, non è che Sara fosse tutto questo splendore ma, detto fra noi, voi non conoscete Silvano. Dio mio, Silvano è un incrocio tra un ritratto cubista di Picasso ed un cane Carlino venuto male. E' un mio grande amico e non parlerei mai male di lui in sua assenza ma, cazzo, è veramente strano. Ha un viso talmente asimmetrico che se gli guardi il profilo sinistro e poi si volta, beh, sembra un'altra persona... ma nessuna delle due decente. Almeno Sara, era sì brutta e culona ma era simpatica, o meglio, non rompeva i coglioni. Era la classica tipa soprammobile. Non fiatava mai, stava in disparte quando si parlava di sport, lasciava tutta la libertà che Silvano voleva e poi, questo bisogna riconoscerglielo, cucinava da dio, anzi da chef.
"Come sarebbe a dire -l'ho-lasciata? Forza chiamala subito e dille che ti sei sbagliato. Sì, inventati qualcosa, cazzo ne so, dille che avevi la febbre, che eri ubriaco... checcazzo, dille che era uno scherzo chiedile se c'è cascata"
"No, sa che non scherzo su questi argomenti. Poi, ho deciso..."
"Aspetta... aspetta un secondo capo. Come sarebbe a dire -ho-deciso?"
"Sì, stamattina quando mi sono svegliato ho guardato dalla finestra. C'era un sole bellissimo e tanta gente per strada. Mi sono fermato un attimo a fissare i passanti, i piccioni, le auto ed i tram poi mi sono chiesto se veramente mi piacesse Sara... e, beh, sono arrivato alla conclusione che forse non mi piace..."
"Ccccccccosa? Ma tu devi essere diventato scemo. Cazzo vuol dire -forse-non-mi-piace? Ma dico, in quattro anni che state assieme, solo ora te lo sei chiesto? Amico, fatti vedere... ma da uno bravo!"
Roba da matti. Non mi sembrava vero: Silvano, dopo quattro anni o forse tre o cinque, non so -mica ci stavo io con Sara, scopre che Sara non gli piace? Cioè, se voi sapeste di chi sto parlando, capireste. Mi sentivo, non so per quale motivo, investito da non so chi di compiere una missione importantissima: impedire che Silvano lasciasse Sara.
"Siediti. Anzi, prenditi un bicchiere dallo scolapiatti e una birra dal frigo. Poi siediti"
"Sì, mi rendo conto di aver fatto una cazzata, o qualcosa che si avvicina molto ad una cazzata, ma so che se non lo avessi fatto stamattina, non sarei più stato in grado di farlo. Questa mattina, guardando fuori dalla finestra ho visto una coppia. Avranno avuto più o meno sessant'anni ed andavano a braccetto. Avevano un cagnolino al guinzaglio e spingevano un passeggino. Forse il nipotino. Sembravano felici anche se era mattina presto e faceva freddo e lei... zoppicava. Mi sono immedesimato in quei due vecchi e... accanto a me non c'era Sara. Credimi, mi sono commosso. Questo vuol dire che..."
"Te lo dico io cosa vuol dire. Vuol dire che sei un coglione. Anzi no, sei un assassino. Hai spezzato il cuore di quella povera ragazza solo perchè sei un cazzone egoista, ecco cosa sei, altro che palle!"
Non mi rendevo conto di quello che stavo dicendo. Ero comandato da qualcun altro. Quando le parole mi uscivano dalla bocca era come se non solo le avesse pensate ma le avesse anche pronunciato un altro. Le ascoltavo per la prima volta. Vi giuro che non le pensavo io quelle stramaledette parole. Dovevo fare qualcosa. Assolutamente, dovevo riuscire a starmene zitto e tornarmene a fare i cazzi miei. A mangiare i miei wurstel ed il mio Puzzone. Pensa te che roba. Io, che non ho una donna da secoli, che sono uno stronzo, anzi, il classico stronzo in quanto a ragazze, che mi mettevo lì a fare il moralista col povero Silvano. Ma che cazzo stava succedendo? Mancava solo che l'acqua cominciasse a scendere negli scarichi in senso antiorario ed era la conferma che il mondo andava alla rovescia. Fatto sta che, l'unica cosa che sono riuscito a fare per tapparmi la bocca è stato riempirmela di birra. Mi sono attaccato al collo di una boccia Hell's Beer da 66cl e me la sono scolata tutta in un solo sorso. Poi, dopo un tanto sonoro quanto catartico rutto me ne sono stato un pò zitto. Anche Silvano se ne stava zitto zitto. E fuori dalla finestra non c'era il sole e nemmeno la luna ma c'era... sì, ne sono certo, un asino volante.