domenica 30 ottobre 2011

Espressione standard


Era tutto sospeso. Quasi non fosse successo niente. Un silenzio da esame di maturità. E tutto era lento. Fuori pioveva, certo deve piovere sempre in questi momenti. Sembrava tutto preparato da arte come quegli scherzi in televisione che proprio non ci credi all’autenticità. Ed io ero lì che cercavo di collegare tutti i punti degli ultimi tempi. Che mi riuscivo solo a chiedere: “e adesso?”. E mi sentivo in colpa perché quel momento mi faceva male come aver finito l’università e trovarmi davanti ad un mondo inesplorato. Sarà che non ci credevo. Forse era successo troppo in fretta. Come quando dimentichi la pasta un minuto di troppo sul fuoco ed è da buttare. Insomma la mia faccia era incerta e non riuscivo a piangere. Ed ero convinto che tutti giudicassero. Volevo scomparissero in un istante ed invece continuavano ad arrivare e a darmi un colpo sulla spalla. Mi abbracciavano ed io dicevo: “grazie”. E quel vestito nero non era quello giusto per l’occasione. E credo nessuno ne abbia uno, a parte i dipendenti delle pompe funebri.
Tenevo il telefono spento e guardavo la sua faccia, lo specchio di me tra pochi anni ancora. Provavo a collocarlo nelle foto in bianco e nero che avevo in quei tre album rilegati in pelle nera. Non era rimasta una grande somiglianza. Solo i capelli portava pettinati ancora allo stesso modo che non sembrava nemmeno troppo fuori dal tempo. Il resto era una maschera con una espressione standard. Una espressione che provavo ad imitare nel mio aspettare in piedi irritato dalle voci troppo alte che sentivo parlavano di altro. Quell’espressione è tutto quello che mi è rimasto di quel giorno. In quella stanza fatta di divisori in plastica di pessimo gusto mi rassicurava che io non ero lì e che era tutto finto. Che aspettavamo tutti il lieto fine dopo la pubblicità.

lunedì 24 ottobre 2011

La boccia dei pesci

“non capisco quello che ci sta succedendo, è come se vivessimo in una palla per i pesci” “però non ci piove dall’alto il mangime” “cerca di essere serio, per una volta” A questo punto l’unica cosa da fare è pensare al Sudan e mettere una faccia grave che va bene con quel vestito nero che tengo pulito nell’armadio per matrimoni, funerali e per andare alle convention del lavoro. Quel vestito che avrà si e no una settimana di vita vissuta, appena sopra l’aspettativa di vita di un moscerino che gioca a cavallo dell’autostrada del Brennero. Lei mi guarda prima di continuare e prende un sorso dal bicchiere da pinta riempito di acqua del rubinetto. Quel bicchiere è mio, l’ho infilato nella tasca del mio capiente cappotto una sera fredda in cui mi sentivo incredibilmente solo. Di quelle sere in cui ci si accorge che tutti hanno trovato il proprio incastro perfetto e che l’unica lineetta del Tetris che non si completa per passare al prossimo schema è la tua. Serate in cui vorresti solo annusare l’aria delle caldarroste che si fanno e vedere tutto da una prospettiva lontana. Color seppia. Quella sera era qualche anno fa che ora sembrano secoli, faceva più o meno il freddo che anticipa le vacanze di Natale e la birra era una scusa per ridere di niente. Ed il progetto era aspettare ancora un altro giro e un altro ancora. C’era il tavolo di legno che rifletteva storta la luce di un lampadario recuperato ad un mercato dell’usato, il sapore delle noccioline che rotolavano in giro. Stefania parlava della sua casa in montagna ma io capivo solo il suo sorriso. Mentre la ascoltavo mi chiedevo se anche io ero capace di qualcosa di simile, se quell’espressione se l’era studiata o le veniva così. E perché colludeva così esplicitamente col suo profumo proprio mentre le stavo davanti? Ero tornato a sette anni quando passavo davanti ad una vetrina di giocattoli che esponeva il galeone dei Lego e non ci credevo esistesse un gioco così bello. Una sensazione che potrebbe centrarci qualcosa con la sindrome di Stendhal. Sì, quella sera Stefania era decisamente un’opera d’arte di quelle che non puoi toccare e nemmeno guardare per troppo tempo che ci hai la fila dietro. Che ti vorresti portare a casa e ti accontenteresti anche di una stampa economica o di un souvenir. Dev’essere per questo che mi ero infilato in tasca il bicchiere che ora Chiara appoggia sul nostro tavolo come non avesse niente di speciale. E non sorride come Stefania. “a te non sembra? Perché non dici mai niente? Cosa vuol dire che è solo una mia idea?” Prendo il bicchiere e lo rigiro nelle mani. Rivedo quella cazzo di lineetta del Tetris che non si completa e penso che i pesci in una boccia di vetro non se la passano poi male semplicemente perché non parlano.

martedì 18 ottobre 2011

Il buco nero

Da un paio d’ore cerco disperatamente i miei occhiali da sole senza i quali la mattina mi sento nudo. La mia mattina inizia non prima delle due del pomeriggio ma per i miei occhi la luce non ha orario. E senza i miei occhiali con le lenti scure e la montatura di finta tartaruga non posso uscire di casa. Non so il perchè ma è così: sono schiavo di quegli occhiali da sole. Ma oggi sembrano spariti. Non li riesco a trovare da nessuna parte. Ho guardato anche nella cassetta della posta dove l’anno scorso si era cacciato per sbaglio anche il mio scoiattolino canadese; ma quella volta c’era di mezzo tanto, troppo vino.
Sembra incredibile come, in un appartamento minuscolo come quello in cui dormo, a volte mangio e faccio i miei bisogni, possano perdersi miliardi di oggetti: menete, ciabatte, cellulari, animaletti domestici, sedie e bottiglie.
Già, proprio qualche tempo fa per un mese intero ho cercato una boccia di birra che da un giorno all’altro era sparita, piena, dal frigorifero. Non l’ho più ritrovata. Come non ho più trovato le due tartarughine d’acqua che avevo vinto pescando un anatraccolo di plastica alla sagra del Re Gnocco. Non che mi sia dispiaciuto perdere le tartarughine d’acqua ma è la circostanza a farmi incazzare come un’ape.
Robe da ammattire. Magari la sera arrivi a casa con qualche bicchiere di troppo in testa e lasci le chiavi di casa sulla mensola all’ingresso. Poi vai a letto cercando di fermare la stanza che ti danza tutt’intorno e la mattina dopo, quando riacquisti un briciolo di lucidità, inevitabilmente non trovi più le chiavi sulla mensola all’ingresso dove le avevi lasciate la sera prima. Ma il fatto è che non le troverai mai più quelle maledettissime chiavi e quindi ti toccherà chiamare il fabbro che ti cambierà la serratura prendendosi solo ottanta euro perchè è già la terza volta che lo chiami da maggio.
Non ce la faccio più a continuare a vivere con la certezza di perdere qualcosa. E come se non bastasse, sto pure diventando povero. Non tanto per le cose in sè che perdo ma per tutto quello che la perdita implica. Per esempio, ho una macchina parcheggiata in divieto di sosta da tre mesi sotto casa davanti al bar semplicemente perchè non trovo più le chiavi. Ogni settimana mi fanno una multa di trentasei euro e come se non bastasse per muovermi in città ho dovuto fare l’abbonamento ai mezzi pubblici. Non ci voglio nemmeno pensare...
Oppure ancora quella volta che son riuscito a portarmi una tipa a casa dopo averle offerto un universo di birre doppio malto e abbiamo noleggiato un dvd: non è un paese per vecchi. L’abbiamo visto insieme toccandoci e sbaciucchiandoci in attesa che finisse. Poi è finito e a me è piaciuto un sacco. Ma veramente tanto. Il tizio con la bombola del gas che va ad ammazzare gente è geniale come trovo sia altrettanto geniale farlo finire in quel modo, con l’investimento del tizio. Spettacolo. A lei invece ha fatto cagare., sue testuali parole “mi semrba una stronzata modniale”. L’ha trovato triste e senza senso. Allora abbiamo discusso per un pò sul senso del film senza trovare quel momentaneo accordo che mi permettesse di portarla a letto e fotterla violentemente punendola per non aver capito il senso del film. Ma, a un certo punto, stizzita mi dice che si è fatto troppo tardi e deve andare altrimenti il cane le piscia in casa. Ma quale cazzo di cane? Fingo virilmente che non me ne freghi niente del fatto che non sia riuscito a fotterla e lei se ne va. Io finisco la serata a bere al bar sotto casa davanti alla mia macchina in divieto di sosta. Il giorno dopo mi sveglio, vedo la custodia del dvd e mi ricordo che lo devo restituire. Cerco tutto il giorno per tutta la casa quello stramaledetto dvd senza trovarlo. Ho anche chiamato la tipa per chiederle se magari, per sbaglio oppure deliberatamente per farmi un dispetto, l’avesse preso su lei. Ma niente, ho rimediato solo qualche altro insulto ma il dvd non salta fuori. Morale: ho dovuto pagare una super multa della madonna perchè il tizio del noleggio credeva facessi il furbo e me lo volessi tenere.
Sono anche arrivato a pensare che da qualche parte, dietro qualche pensile della cucina o dietro qualche battiscopa un pò scostato si nascondesse un buco nero inghiottitutto. Ma una volta riacquistata la lucidità necessaria, sono sempre tornato alla mia stanca rassegnazione quotidiana fatta di cibi scotti, birre in sconto e cose che non trovo.
Ora, dove tutta quella sacrosanta roba che continua a sparire in casa mia finisca, non mi è dato saperlo. ma sono convinto che quando me ne andrò da questo indemoniato buco merdoso e ladro, i nuovi inquilini troveranno un tesoretto fatto di orologi, chiavi, bottiglie di birra, calzini, tartarughe d’acqua e fottutissimi dvd.
Fatto sta che sono sette ore che sto cercando i miei occhiali da sole in finta tartaruga con le lenti scure e, ormai, fuori si è fatto buio e non mi servono più.
Fanculo casa del cazzo, tieniti anche quelli, io scendo al bar nudo.

lunedì 17 ottobre 2011

Street Fighter

Non ho mai finito Street Fighter, non importa quello che ho detto. Ho giocato pochissime volte per un paio di schemi al massimo. Ogni partita era un colpo alla mia virilità. Ancora oggi non riesco a capire le funzioni di tutti e 6 i tasti. Per non parlare della mezzaluna disegnata col joystick. Era tutta apparenza, passavo i pomeriggi estivi in sala giochi a guardare giocare gli altri, dispensando consigli per sentito dire. Ero il veicolo delle leggende metropolitane. Sono io che ho inventato quelle combo che ti facevano vincere automaticamente l’avversario. Quelle che nemmeno se cerchi su internet le trovi. Roba da coccodrilli nelle fogne come canta Bersani, Samuele. Ed era più o meno in quel periodo che mi si formava il carattere secondo i libri di psicologia spicciola che mia mamma leggeva dopo cena seduta lontana dalla tivù che distorceva le esplosioni anni novanta dei film di Bruce Willis. Mi guardava accondiscendente crescere cercando di intervenire il meno possibile, seguiva una corrente new age che doveva portarmi a riscoprire la natura. E così non mi ha mai spinto a socializzare o ad uscire di casa. Ero l’unico dei miei amici che si poteva fare una nottata intera davanti alla televisione. Che poi finivo ad addormentarmi davanti alle pubblicità delle hot line come un vecchio arrapato. Mia mamma non capiva ma la cosa che volevo di più al mondo era diventare Ryu e col suo lassismo diventavo sempre più come Honda. Non so se mi spiego. Avevo questa pancia spropositata e capelli sporchi che rimanevano davvero dove volevo io. E andavo a scuola insicuro, con tutti che dicevano qualcosa mentre passavo ma che non mi rivolgevano più di tanto la parola. Mi chiedevano solo qualche consiglio su Street Fighter. Poi è uscito Tekken e nessuno mi si cagava più nemmeno di striscio. C’erano combo che non si potevano descrivere tanto erano complesse ed un numero indecoroso di tasti. La sala giochi sembrava sempre di più l’Enterprise con tutti quei tasti inutili che si illuminavano. Ed i giochi iniziavano a costare 2 gettoni invece che uno. Ed io mi sono messo a dieta ed ho fatto quello che ritenevo di dover fare. Che poi se era giusto o sbagliato non mi importava. È finita che ho uno schermo piatto e tutti i film d’azione anni ’90 e un kimono da Ryu comprato su internet.
Poi sono arrivati i Nationals e prima ancora i Fratellis ed i Franz Ferdinand e con la loro pessima musica il mondo che mi ha rovinato l’infanzia. Ora inizio ad avere qualche amico spostato con la metà dei miei anni e con lo stesso zaino Invicta Jolly che avevo io. E mi chiedono come si fa quella combo che non trovano nemmeno in internet per vincere automaticamente l’avversario. Ed io gli rispondo: “smamma sbarbo”.
Mia mamma sarebbe orgogliosa di me.

sabato 15 ottobre 2011

La piazza sotto casa

Questa mattina in città c’è quasi l’eco. Sarà che mi sono svegliato presto, sarà che quando la temperatura crolla sotto i dieci gradi sembra rendere tutto più rigido ed eterno. Quasi fosse tutto un bassorilievo o una foto in bianco e nero.
Sotto casa mia c’è questa piazza storica. Ogni volta che la guardo sembra interrogarmi sulla mia strada per l’eternità. Come quando incontri qualche amico che è andato a lavorare all’estero e fa anche una barca di soldi e ti chiede come va. E tu non sai che rispondere. E l’immagine che ti viene è quella del villano che spala merda tutto il giorno. E provi a sorridere ma sai di non essere credibile. Si capisce quindi che è un po’ di tempo che evito di soffermarmi sulla piazza. Ho interposto rigogliose fioriere che si interpongono rendendo i toni più pacati, accondiscendenti. Le mie piante sul terrazzo contrappongono la vita all’eternità. O almeno credo sia per questo. E per il fatto che c’era una offerta alla coop questa primavera in primavera e mi sono comprato il necessario per un giardino pensile.
Questa mattina però mi sono svegliato che le piante avevano ancora quell’aria assonnata che le fa sembrare in coma ed ho guardato oltre. Mi sono ritrovato davanti alla storia della mia città con pochi racconti da fare e con l’impressione che gli ultimi 7 anni non siano passati per davvero. Mi sono preparato un caffè ed ho aspettato cinque minuti guardando il fumo che mi saliva davanti agli occhi senza nessuna pretesa. E mi sono detto, certo che questa piazza è proprio bella. E quasi mi commuovevo. Poi ho scritto queste righe, perché non volevo dimenticarmele.