mercoledì 21 settembre 2011

HD Ready

Sì, la questione è che anche stasera non c’è niente di interessante in televisione. Cioè proprio non mi interessa guardare la televisione. Nonostante i trentadue pollici e lo schermo piatto HD Ready. Che quando me l’ha detto il commesso con aria complice non sono riuscito a sostenere lo sguardo e mi sono limitato a sorridere.
“mmh” ho detto.
E lui mi ha guardato come se parlassimo la stessa lingua.
Ed io mi sono sentito una scimmia nel pianeta degli umani superlusso e pulito ad intervalli regolari da una impresa di pulizie professionista nell’outsourcing. In quel momento ho ripensato a quelle botteghe dove il titolare e la famiglia si dividevano i ruoli in un regime di pura autarchia.
Poi ho comprato la televisione che ora mi guarda come l’occhio accecato di Polifemo. Maestosa sul suo mobiletto in truciolare comprato all’Ikea. Talmente imponente che mi distrae continuamente e non riesco ad andare oltre, a scrivere o a leggere qualche riga di qualche libro che ho appoggiato svogliato in giro. Eccomi quindi a sforzarmi di fare una cosa per forzarmi a non farne un’altra più semplice ma senza nessuna traccia di carbonio. E la questione dell’immortalità per me è importante. Sì, quella storia di lasciare il segno. Roba indelebile tipo i disegni di caccia nella caverne preistoriche. O i video di Lady Gaga. Il fatto è che non sono biondo e non sono raccoglitore-pescatore-cacciatore. La mia filiera alimentare è un supermercato che vende prodotti a proprio marchio accanto ad altri uguali a marchio forte. E pompati dalla pubblicità e dai gadget che regalano. Robe avvenieristiche. Tipo la radio del Mulino Bianco che ho voluto assolutamente e a cui non ho mai nemmeno messo le pile. Perché la radio non mi interessava, era il mulino bianco che mi piaceva. Il ritratto della famiglia felice a cui fare riferimento quando leggi le favole pubblicate dalla collana Gli Istrici. Ed io la guardavo fissa quella casetta e ci immaginavo un mondo incredibile. Stupefacente per la sua normalità di altri tempi. E sì, a pensarci ora sembra che ero un po’ ritardato ma non è così. Al massimo non mi applicavo, ma le potenzialità le ho sempre avute. Ed oggi è lo stesso. Ho la testa che mi fa male delle cose che vorrei fare, ho i piani precisi. Roba tipo A-Team, per intenderci. Ma non me ne faccio niente. Mi ripeto che non ho tempo ma se sottraggo alla giornata il tempo che effettivamente vendo per pagarmi la vita me ne rimangono di ore. E mica poche ed io il massimo che faccio è sedermi sul divano e ostinarmi a non guardare la televisione. Ma mica per fare altro. Solo per ripetermi che è così. Non so, mi vengono in mente i circoli viziosi. Anzi meglio, quella storia del re seduto sul sofà che disse alla sua serva: “raccontami una favola” la favola incominciò: c’era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua serva: “raccontami una favola” la favola incominciò.
E così ad libitum sfumando.

martedì 20 settembre 2011

Il primo giorno di scuola

Li guarda dalle sue mani dietro la schiena. Negli occhi la meraviglia di chi si sveglia da un coma. Sembra tutto uguale eppure non è proprio lo stesso ma i cambiamenti sembrano quelli di un fratello che ti cresce accanto che non ti rendi conto di quanto diventa grande, della barba che cresce e dei capelli che si ritirano. L’odore è quello delle possibilità incrostate nelle incisioni che rallegrano l’arredamento ministeriale. E l’ostentata maturità di overdose di Axe che lascia una scia che quasi si vede.
Sorride incerto se mostrare i denti o meno. Come a quei concorsi di bellezza al momento delle presentazioni. Nessuno sembra accorgersi di lui e questo lo mette a suo agio come accettato dal contesto. Perfettamente integrato sullo sfondo. La giacca con le toppe è una scelta vincente per il primo giorno di scuola. Ha qualcosa a che fare con una memoria subconscia fatta di film e racconti delle avventure di Pinocchio. E poi gli sta da Dio. Come gli diceva Sandra guardandolo con gli occhi lucidi che quasi facevano voglia di piangere. E poi passavano una domenica qualunque, in un posto qualsiasi, provando ad annoiarsi. E il bello è che era impossibile, non ci erano mai riusciti. Queste sono le parole che vorrebbe dirle stasera rincasando, potrebbe appuntarsele, ma è un po’ che non si porta più dietro il quaderno degli appunti. Da quando l’ha lasciato nel cassetto dei sogni assieme al passaporto, un dizionario di spagnolo consumato ed una rubrica ripiena di nomi dei tempi dell’università. E tutto è successo per caso, come il flusso di coscienza di un libro e si è ritrovato qui, in uno di quei momenti che hanno lo spessore di un anno nei ricordi. Quando ci si impone di vivere davvero ed allora si vede davvero, e ci si stupisce. Si schiarisce la voce e tutto continua a muoversi davanti con un mare di facce che non ci crede abbiano decenni meno di lui. Ritrova anche delle somiglianze, e si rivede con quell’improbabile taglio di capelli a massacrare il diario con le parole che ricordava delle canzoni. E disegni isterici ai margini del quaderno di matematica. Che si allargavano sul fondo della pagina quando ormai non c’era modo di prestare il minimo di attenzione. Se si sforza riesce pure a ritrovare in una ragazza qualcosa di Serena. E questo in lui riesce ancora a muovere qualcosa. Una sensazione chiara di disagio e di impellente bisogno di assoluzione totale e completa.
Quindi richiama l’attenzione della classe battendo il palmo aperto sulla cattedra che quasi gli fa male.
“Buongiorno ragazzi!” dice alla folla plasticamente scomposta.
“sedetevi e leggete le pagine dalla 5 alla 13, io torno tra 10 minuti”
Tutti tornano ai loro posti.
E lui esce trionfale verso i bagni.

lunedì 12 settembre 2011

La verità

Non ho mai detto a Sara di amarla perché non era vero. E le avevo promesso che non le avrei mai mentito. Ed io le promesse le mantengo. Tipo parola di scout. Per me queste cose sono importanti. Sarò fuori dal tempo come i tramonti al mare di inverno con -5 ma non riesco a cambiare. E lei diceva che questa cosa di essere sinceri le piaceva. E mi diceva davvero tutto quello che pensava.
Che non ero simpatico.
Che non ero affascinante.
Che mi trovava abbastanza ordinario e prevedibile.
Che a letto non ero il massimo.
Bè, io una così proprio non riuscivo ad amarla.
Le ho detto che era proprio una stronza.
Ed era la verità.

giovedì 8 settembre 2011

Apocalisse permanente

E’ finito un altro millennio da ormai undici anni e non è successo ancora nulla: miliardi di tramonti insipidi hanno seguito miliardi di albe fedifraghe, autunni polari hanno scacciato estati asettiche e l’uomo è ancora segregato su questa terra sempre più affollata e malmessa. Doveva finire il mondo invece sono finiti solo i soldi e forse è stato peggio. Torri sono cadute lasciando crateri e polvere davanti a muri armati che sono stati alzati. Tonnellate di sangue hanno intriso terre secche e malate rese aride da soli radioattivi. Governi sono collassati sotto il peso di milioni di risate mentre dittatori sono morti impiccati sotto lo sguardo di lune commosse e la sabbia del deserto è stata soffiata negli occhi e nelle bocche di persone in cerca di un briciolo di dignità. Gli amici di ieri si sono dimezzati della metà. Di alcuni si sono perse le tracce di altri il ricordo. Amici si sono sposati, altri si sono sparati, per alcuni essersi sposati è stato come essersi sparati e sono spariti senza lasciare odore di cordite, silenziosamente e con discrezione ora spingono il carrello all'Ipercoop il sabato. Facce si sono dissolte nell’acido, altre si sono scolorite come polaroid dimenticate al sole per decenni. I poster lucidi di ieri si sono scrostati dai muri del centro e si sono accartocciati in periferie morte sepolti in laghi di piscio infetto. Agli stessi nomi di ieri si sono sovrapposti titoli diversi più o meno altisonanti ma al supermercato i bambini continuano a perdersi tra i surgelati del capitan Findus e gli altoparlanti scandiscono gelidi i loro nomi come un bollettino di guerra.
I calendari sono come alberi intrappolati in un eterno autunno. Continuano a spogliarsi di mesi e mesi e mesi fino a scomparire lasciando definitivamente solo una cornice nera sulla parete bianca.
Noi che vivevamo di notte, amavamo il cielo buio e nero perchè sapevamo che sarebbe finito da lì a poco. Abbiamo sempre amato la rassicurante fugacità del tempo e la fragranza delle patatine fritte. Abbiamo adorato l’effimero e le farfalle. Abbiamo rincorso strafatti i nostri progetti imperfetti, abbiamo sfasciato i nostri orologi per rinchiuderci ore ed ore negli scantinati ammuffiti per fare un amore sporco e sudato. Abbiamo rubato piume d’uccello per ornarci la testa e far volare lontano i nostri pensieri sopra i tetti rossi e le nuvole gonfie di lacrime. Ma adesso l’abisso ci ha inghiottiti come un mare di pesante petrolio e la notte si è fatta sempre più tetra e scura lasciandoci morire di paura. Siamo omnifobici. Psicosi generalizzate e incontrollate condite con stress metropolitano quotidiano fanno scoppiare le facce dei giovani e marcire i cervelli schiavi di pillole della felicità fuori mercato. Si stringe intorno al collo dei filosofi il cappio della razionalità. La luce fioca delle lampade a risparmio energetico ci indebolisce la ragione e pensare ci fa sentire facili prede di lupi mannari e esattori delle tasse senza scrupoli. Sul campanello nascondiamo il cognome con un numero e quando il telefono squilla sobbalziamo sulla sedia temendo che dall’altra parte della cornetta ci possa essere il nostro peggior nemico che sappiamo esistere ma non conosciamo. Alcuni strappano via il cavo telefonico e smurano il campanello di casa per scongiurare quel timore. Altri tengono le ante di casa sempre chiuse rischiando di morire soffocati ma dentro di loro pensano che sia un modo migliore per morire. L'unicità ha perso la guerra e ora giace in una fosse comune dimenticata da tutti e senza nome. Per strada relitti umani nascosti dai baveri alzati e sotto cappelli larghi si confondono tra loro. Uno apre la portiera dell’auto e vomita su un’aiuola malata la bile che non riesce più a contenere, un altro si gonfia la vena alla ricerca di un paradiso mai esistito e mai perduto. C’è chi entra in un forno con un sacco di yuta gonfio d’oro annunciando che se ne va e c'è chi esce da un’edicola con un titolo al collo pronto per regalarsi alla corrente del fiume. Il gas costa troppo denaro per soffocarsi mentre un colpo di pistola troppo coraggio per ammazzarsi. Taxi spenti si rincorrono sui viali come gatti in amore mentre sirene conferiscono un’altra dimensione alla notte. Un pastore obeso e assuefatto all’ozio, sta svaccato sulla poltrona e mangia popcorn avariati e ingolla litri di bibite dietetiche mentre il suo gregge cieco va verso l’apocalisse attraversando di notte un’autostrada. Viadotti chilometrici e tralicci transcontinentali cercano invano di cucire lembi di terra malconci e deboli.
Sfinito cerco un sonno foderato di stelle comete e giardini pensili con un letto a baldacchino dove parcheggiare i miei pensieri in attesa dell’aurora del nuovo mondo.