mercoledì 30 settembre 2009

Il soave canto dell'arpa

ATTENZIONE: questo racconto potrebbe turbare la vostra sensibilità. La parola "cazzo" compare per 13 volte.

Avevamo avuto un'altra idea geniale. Anche quella sera, dopo la quarta Harp Strong, Frenc era saltato su con: "cazzo ragazzi". Sì, parlava sempre al plurale anche quando eravamo solo io e lui e praticamente sempre eravamo solo io e lui. "Ci sono!" e vi assicuro che quando partiva con "ci sono!" era meglio allacciarsi le cinture di sicurezza, indossare il casco assicurandolo bene sotto il mento, stringersi forte allo sgabello del bancone e, schiarendosi la voce, tuonare: "Ludmilla ci suoni altre due arpe per favore?". Sì, le arpe ovviamente stavano a significare le medie mentre gli arpeggi avrebbero indicato le piccole ma, per ovvi motivi di convenienza e di sete, queste non sono mai state ordinate. La notte, quelle sere, era una striscia di asfalto scuro infinita, senza cartelli, indicazioni e traffico. Una lingua nera affascinante e coinvolgente, dritta e senza fine che ti spingeva a premere sempre più sull'acceleratore e sempre più a fondo. Era calda e rassicurante come l'utero materno. Poi, dopo aver tenuto a tavoletta per parecchio, quando arrivavi a tutta canna, a velocità tali che la vista rallentava sgranandosi ed i suoni si trascinavano cominciando a mischiarsi con i rumori, all'improvviso spuntava un cazzo di muro bianco, schifosamente candido ed angelico. L'asfalto veniva divorato furiosamente accorciandosi sempre più fino ad arrivare inevitabilmente a sbatterci contro la faccia. Qualche volta rischiando pure di perderci qualche dente o di farsi un occhio nero. Poi, il giorno dopo era faticoso come rinascere un'altra volta e nel giro di poche ore svezzarsi, imparare a camminare, a parlare e, insomma ci siamo intesi, no? Almeno una volta ciascuno di noi sarà nato e saprà quanto tempo ci è voluto e quanti sforzi ci è costato arrivare ad essere quello che siamo. Per qualcuno potrebbe non esserne valsa la pena ma questo è un altro discorso.
Poi Ludmilla ci ha spillato le due Harp Strong e Frenc è stato in grado di continuare: "per quale cazzo di motivo..." Già, anche "cazzo" era abbastanza frequente nelle sue dissertazioni. L'algoritmo che stava alla base della frequenza dei suoi "cazzo" era semplice. Bastava moltiplicare il numero di birre ingurgitate per il livello di infervorazione raggiunto lanciandosi in ragionamenti contorti come ulivi millenari, per il sudore secreto. Ecco fatto, infine bastava elevare il tutto al quadrato. Talvolta "cazzo" arrivava ad essere tanto frequente quanto un segno di punteggiatura. Diciamo ad esempio, quanto può esserlo una virgola in un tema.
"Per quale cazzo di motivo la maggior parte dei film che escono in queste sale del cazzo sono tratti da dei cazzo di libri mentre mai nessun cazzo di libro è mai stato tratto uno stamaledettissimo cazzo di film". Leggerlo, vi assicuro, che non rende nemmeno un quarto dell'effetto che un discorso di questa entità può avere se ascoltato in presa diretta. Vi avrebbe stregato, avrebbe potuto, alla fine, ipnotizzarvi e farvi firmare un assegno in bianco. Per rendere meglio l'idea dovete immaginare questo tizio, Frenc, alto quanto basta, magro un pò più del normale -il tutto sessantacinque chili coglioni compresi (come direbbe Hornby)-, con uno sguardo da spazzacamino ed i capelli da autista di tram mentre scampanella incazzato duro perchè qualche cazzo di automobilista ha parcheggiato l'auto sulle rotaie. Avete presente? Ochei, a tutto questo dovete aggiungere alcuni particolari: quando parla tende ad incurvare la schiena in avanti appropinquandosi sempre più a chi gli sta davanti (alcune volte talmente tanto da ritrovarsi sdraiato per terra), spesso nella concitazione del parlare lancia zampilli e meteore di saliva gesticolando come un invasato oratore nero cattolico del Bronx. Ecco questo è Frenc ma per dirla proprio tutta, Frenc non è il suo nome. Esatto, proprio come Giec non è affatto il nome del barista. O forse sì, non ricordo più bene.
Quella sera vi devo confessare che l'idea parve geniale anche a me. Provate ad immaginare di andare da Block Buster e trovarvi nello scaffale, accanto ai dvd, i libri che ne sono stati tratti. Trarre un libro da un film, ma ci pensate a Robocop tradotto in parole. O provate ad immaginare di leggere Terminator ed arrivare al punto in cui pronuncia la fatidica, memorabile, unica frase "I'll be back". Ovviamente io la lascerei in inglese, esatto, proprio come voi la state leggendo adesso. Non vi è venuta la pelle d'oca? Ribadisco, a me è sembrato geniale, quel qualcosa che ancora non c'è ma che tutti stanno aspettando. Sarete sorpresi da questa mia esternazione perchè magari avevate una certa reputazione di me ma, credetemi, rispetto a quello che spesso veniva definito geniale, questo lo era veramente. Giusto per allinearvi con quello che sto dicendo, dovete sapere che alcune genialate, termine col quale indicavamo a mente lucida, il giorno successivo, l'idea geniale del precedente, sono state:

1. invadere il Vaticano mentre il papa si trovava in tournee in Medio Oriente, ma mica tutto. Ci saremmo accontentati di un'appartamentino, un buco di un centinaio di metri quadri su piazza San Pietro. Poi ci sarebbe bastato riuscire a resistere per una ventina d'anni agli sfratti in attesa che, per la fantomatica legge dell'usucapione, diventasse nostro. Ci sembrava anche abbastanza fattibile. Non ho mai letto sull'Osservatore Romano di guardie svizzere attuare uno sfratto. Sono sempre tutte così colorate e gioiose con gli spadini luccicanti, gli elmetti brillanti e le balestre intagliate a tentare in tutti modi di entrare nel nostro appartamento. No, decisamente no. Non possiamo mettere i vigli urbani o la polizia sullo stesso piano delle guardie svizzere. Tutta un'altra cosa. Per finire, non ho mai nemmeno sentito nessuno che si è preso una multa in Vaticano perchè non aveva il casco o guidava senza cinture. Secondo me manco ce l'hanno stè guardie il blocchetto delle contravvenzioni.
Maledetti voi, non lo ammetterete mai ma so che state pensando che è un'idea geniale... ma sappiate che l'idea è nostra quindi se ci doveste provare e magari riuscire pure, ricordatevi di noi.

2. Avevamo anche pensato che fosse geniale comprare tre televisioni, costruire interi quartieri di qualche città, acquistare qualche giornale, il tutto magari anche non troppo lecitamente ma poi diventando Presidenti del Consiglio avremmo sistemato tutto. Ma, cazzo, mi han detto che già qualcun altro l'ha ritenuta un'idea geniale. Poco male.

3. Beh, che dire di quella volta che avevamo organizzato, su consiglio del Giec (il barista che non si chiama così o forse sì), di portare in teatro quelli che erano spezzati vita vissuta, reali, veri al 100%. Avremmo iniziato una nuova corrente di neoneorealismo. Anzi neoverismo. Avremmo offerto ai ben pensanti borghesi di città, alle impagliate signore ingioiellate altolocate dei circoli del bridge, ai mummificati avvocati in pensione che non hanno mai pronunciato la parola culo nemmeno per chiederlo alla moglie in una vita intera, una sicura vetrina su quella che è la vita della gente normale, dei ragazzi sboccati e sbraitanti di oggi, di due universitari che un martedì sera si ritrovano al pub e discorrono del più e del meno mischiando perle di saggezza a birre doppio malto, pillole di filosofia a bestemmie originali ed a cazzate supersoniche e chi più ne ha più ne metta. Per l'allestimento del palco avevamo già pensato a tutto: l'avremmo allestito con il bancone di legno del bar del Giec (contentissimo di prestarcelo per l'intera tournee.Lui sarebbe stao il nostro tour manager) e due sgabelli, magari un pò buio rendendolo nostalgicamente fumoso. Noi ci saremmo limitati a tracannare Harp Strong come solitamente facevamo nel nostro locale ed essere il più naturali possibili. Che ne pensate?

4. Un'altra genialata era stata quella di creare una linea di abbigliamento da esporre in un negozio... un momento, questa scusate ma non posso proprio divulgarla, ci stiamo lavorando perchè effettivamente la riteniamo ancora geniale...

Ma, scusate un secondo, per quale strano motivo vi sto raccontando tutto questo? No, perchè divagando, schiacciando un tasto quà ed uno là mi sono perso nei meandri della memoria e non ricordo più da dove ero partito ma, ancor peggio, non so più dove volevo arrivare. Mettiamola così, forse volevo solo ricordare con un pò di malinconia e condividere con voi alcuni memorabili momenti trascorsi quando davvero Tutto (con la T maiuscola) poteva diventare unico e geniale grazie al magico tocco di qualche birra.
Già, proprio così!

martedì 29 settembre 2009

Esperienza di vita: l’happy hour

È stata l’estate di qualche tempo fa. Ripetevo qualche passaggio di On The Road senza una spalla a cui appoggiarmi. Lasciarmi trascinare. Avevo un punto fermo ed un cellulare che riceveva e telefonava anche all’estero. Era bianco e di mia sorella. Faceva anche i video che per quei tempi era il futuro. Oggi è passato prossimo.
Chiesi una birra e me ne portarono due. C’era l’happy hour ed in quel locale funzionava così.
“Paghi uno e prendi due” sorrise il barista in bilico tra un piede ed un trespolo artificiale che si infilava nei suoi tatuaggi sul polpaccio.
Mi sentii improvvisamente ancora più solo. Di quei momenti in cui vorresti rifugiarti in un bel libro dalla copertina rigida, in una ideologia, in un messaggio lasciato in segreteria. Sarebbe anche bastata una qualsiasi partita alla televisione.
Ringraziai aggrappandomi saldo al primo bicchiere.
Il bar era mezzo vuoto. C’era un gruppo di ragazzi con più o meno la mia età di allora poco lontano. Sedevano attorno ad una grossa botte su cui avevano appoggiato un secchiello pieno di birre in bottiglia. Ridevano.
Ripassavo le migliori battute ma era come masticare una seppia poco cotta.
Bevvi quindi ripassando i testi di gioventù: bibbie dell’autodistruzione. E volevo essere come Arturo Bandini. Mi crogiolavo nella mia dislessia comunicativa.
Presto finì la prima birra ma il cameriere non accennava a portare via il bicchiere vuoto. Rimaneva appoggiato ad uno sgabello ad ascoltare una radio tenuta troppo bassa per fungere da sottofondo.
Per scherno continuavo a fissargli la protesi che era un semplice tubo di ferro con attaccata una scarpa da skate tipo Vans. Lui se ne fregava ed anzi sembrava esserne orgoglioso come un militare di una ferita di guerra.
Considerai la mia cicatrice sul ginocchio costatami uno scooter poi riattaccai a bere. Il telefono che faceva anche i video era acceso ma non suonava almeno da due giorni. Ero partito perché nessuno mi trovasse e nessuno ancora mi aveva cercato.
La birra intanto si era scaldata ed i ragazzi avevano recuperato un altro secchiello di bottiglie.
La sola parola che mi veniva in mente era: colpo apoplettico.
È una parola che ho scoperto in rete e ci tenevo davvero ad usarla. In fondo ci vuole poco per sentirsi meglio.

martedì 22 settembre 2009

Parlando svogliatamente di mio padre

Mi viene in mente mio padre che detta qualcosa alla sua segretaria. Tipo lettera. Passeggia con dei pantaloni grigio scuro quasi nero. Le pieghe decise del vestito rimandano a miti di navigazioni intercontinentali. E in quel momento mio padre è un uomo strutturato come un marinaio russo di sommergibili.
Dice: “fatta eccezione l’eventualità…”.
La segretaria è poco lontana e batte i tasti incastonati in un computer paleolitico. Saranno passati 15 anni ma ancora ricordo le grandinate delle lettere che si schiacciavano. Da quando ho una tastiera provo ad imitarla. Ho passato ora a digitare veloce il mio nome. Anche senza guardare. Ho imparato addirittura ad usare lo spazio col pollice: sforzandomi. Non sono mai stato così veloce. Dattilografia. Per scriverlo inciampo nelle lettere e mi faccio correggere dal correttore automatico del programma. Triste nella certezza che non avrò mai una segretaria ma al massimo una nuova versione del programma MS Word magari con riconoscimento vocale.
Comunque tornando a mio padre in quel giorno mi ritrovo annoiato ad ascoltare i suoi passi e la sua voce disegnare paragrafi. Trarre conclusioni. Poi ripete una frase. Poi dice di cambiarla.
“No, cancella” dice paziente e disteso.
E Stefania schiaccia ripetutamente qualche tasto per cancellare veloce. Poi rilegge l’ultimo periodo. Denso di parole rumorose da riempire la bocca.
Io sono seduto nella sedia girevole dal lato succube della scrivania scura di mio padre. Mi guardo attorno e la sola cosa familiare è una foto in cui siamo assieme: io, lui e mia madre. La cornice è in argento chiaro, quasi metallo anodizzato.

Mi alzo un attimo e faccio un giro nella mia stanza ingombra di vita trascinata.
Vedo una foto di Giulia e sorrido. Mi parla di quando avevamo affrontato un viaggio con solo una tenda bucata rammendata col mastice. Un’estate mica male. Strano mi venga in mente ora mentre cerco di fare altro. Tipo descrivere un momento più o meno importante della mia infanzia. Il fatto è che non sono mai riuscito a concentrarmi. Non mi ha mai interessato scrivere o far scrivere delle lettere interminabili e poi sono 5 minuti che sto qui davanti ed ho già voglia di andare nuovamente a controllare la mail. Sperando che a parlarne Giulia si sia ricordata di comunicarmi che mi ama ancora una follia.
Poi mi viene in mente mia madre che lascia mio padre in un bel giorno freddo di sole.
E di seguito la segretaria che dice: “non chiamarmi Signora Carlotti, chiamami pure Stefania”. Lo fa a cena con mio padre. Nella sua nuova casa.
Poi c’è un film di cui non ricordo il nome visto al cinema mangiando un hot dog di nascosto.
Poi c’è che domani devo svegliarmi ripetendomi che quello è il primo giorno del resto della mia vita. Che è come dire che questo è l’ultimo della mia vita attuale. Tipo che sto per morire.
C’è una strana interpretazione di questo momento che forse richiama la bibbia. O forse Pulp Fiction.
E anche questo non centra niente con quello che volevo dire.

Aspettando il Santo Natale

Lui ha trascorso una vita -se vent'anni possono essere definiti tali- in solitudine. Lui non è mai stato invitato ad una festa. Lui ha sempre cercato di schivare le pedate nel culo sferrate dai suoi pochi fidati amici. Lui è arrivato a preferire, tra tutti, l'insulto meno offensivo. Lui è sempre stato condiserato meno degli altri; meno di chiunque altro.
Lui era triste. Lui era brutto. Lui era chiuso. Lui era zoppo. Lui era schivo. Lui era inutile.
Lui stamattina si è buttato sotto la metrò rossa bloccando tutta la viabilità della linea per cinque ore.
Lui era anche una persona sensibile. Lui era una persona buona. Lui era una persona silenziosa. Lui era una persona rispettosa ma nel suo gesto non ha tenuto conto dell’angoscia e del trauma psicologico causato al conducente del metro che l'ha investito. Lui non ha pensato all'inspiegabile senso di colpa che per parecchio tempo quel povero conducente si sarbbe portato dentro pur essendo consapevole che in nessun modo avrebbe potuto cambiare il suo destino. Lui non ha calcolato lo shock arrecato alle centinaia di persone che hanno assistito alla scena.
Lui è morto.
Lui non è stato tranciato a metà od in tre pezzi come ci si aspetterebbe da un buon film splatter. Lui è morto semplicemente fracassato contro il muso del locomotore. Lui è morto spiaccicato come muoiono quotidianamente centinaia di migliaia di insetti. Lui non ha urlato niente per annunciare il suo gesto. Lui, discretamente, ha schizzato una decina di persone che si accalcavano, in ora di punta, sulla banchina. Lui non ha lasciato biglietti. Lui non ha lasciato lettere. Lui non ha detto nulla a nessuno. Lui non ha spiegato il suo gesto a nessuno.
La sua morte ha irritato migliaia di persone. La sua morte ha rovinato migliaia di giornate. La sua morte ha incasinato e complicato la vita di migliaia di persone.
Non si sa niente sul suo conto. Non si sa proprio nulla se non che Lui era il suo nome.

domenica 20 settembre 2009

Una serata speciale

Ho seguito Carla. Per questo sono qui. Le mie scarpe sono in tinta con la cintura ma chi lo potrebbe dire con queste luci che vanno e vengono? Tipo sirene dell’ambulanza, tipo faro metropolitano.
Quando Carla ha detto che era una serata speciale non ho indugiato molto. Ho risposto: “ok”. Ed ora cerco di seguire i passi di Carla in questo vedo non vedo. Con questa musica da cartoni del latte che esplodono su un pavimento di lamiera. Vedo un momento i capelli lisci volarle sopra le spalle. La considero nuda come l’ho già vista poche settimane prima. Seguo il tempo muovendo quasi unicamente le gambe mentre tutti in questo momento alzano le braccia.
Immagino un rito satanico celebrato dal capitano Kirk.
Il dj aumenta i bpm. Partono le luci stroboscopiche. Aumentano gli alti. Quello che dovrebbe essere un rullante suona come il frinire delle cicale. Tutti guardano su affamati. Mi si secca la bocca. Gli scatti delle luci diventano sempre più violenti. Il dj si mette in piedi sulla consolle urlando: “eeeeeeeeee”.
Poi cade.
È sempre bello uscire con Carla.

venerdì 18 settembre 2009

Incontro una ragazza che conoscevo al liceo

È proprio il momento per dirlo. La vedo poco avanti. Non ci incontriamo dal tempo in cui ascoltavo ostinatamente musica di nicchia cercando di trarne qualche spunto per la quotidianità. Una frase originale. Filosofia spicciola.
Lei è sempre la stessa, fedele alla foto della carta di identità. Ha anche lo stesso sorriso troppo amichevole per sottendere qualcosa. I capelli biondi portati con una astuta coda di cavallo tra lo sportivo e l'elegante. Quasi da camicia jeans.

Il dj ripete le stesse canzoni di sempre. Incastrato nel clichè del classico intramontabile. Sì, succede anche nei locali alternativi come questi. La luce è quella che serve per guardare nel buio senza sentirsi troppo osservati. Con abbondanti tonalità blu e rosse a scontrarsi.
Un'altra canzoni indie rock con quelle basi vicino alla musica elettronica.
Non ci sono le luci stroboscopiche. Noto con disappunto.

Ritorno all'humus del mio palato. Alle spalle di Sabrina, chiamiamola così. Lei parla con un ragazzo che conosco e che mi riconosce. Ci ignoriamo a vicenda in una tacita tregua nella battaglia di ricordare l'uno il nome dell'altro. Io mi guardo attorno aspettando il mio turno, simulando una conversazione. Mi sento in fila al banco dei salumi Coop col mio biglietto numerato in carta rosa in mano.

Andrea mi racconta dell'ultima bicicletta che gli hanno rubato. Mi descrive nei minimi particolari il telaio verde. Dice che c'era una marcia che non si inseriva. L'aveva comprata ad un mercatino dell'usato.
“non ci avevo dato molto” aggiunge.
Sembra concretamente dispiaciuto ed io mi rendo conto che nella mia autarchia nemmeno sapevo possedesse una bicicletta. Il che ora è anche corretto.
Decidiamo quindi di infilarci in coda per un'altra birra. Mentre ci allontaniamo mastico i particolari di Sabrina.
- Legge poco.
- Ha paura a parcheggiare la macchina sola nel garage a pochi passi da casa sua.
- Non esce mai da sola.
- Immagino beva poco.
- L'ultima volta che mi ha incontrato ha domandato “come va con l'amore?”. Ci teneva a dirmi che per lei andava malissimo.
- Odia le discussioni di politica.
- Ha un culo quantomai eloquente. Lo ricordo in un paio di pantaloni attillati grigio chiari. Stavamo tornando da scuola.

Pago le birre e passo lo scontrino a Marco per andarle a ritirare. Burocrazia.
Noto che questo locale è affollato inspiegabilmente da zanzare e che le mie scarpe stanno perdendo inutili pezzi di suola diventando fuori moda.
Marco torna con i due bicchieri di Chiara. Cerco Sabrina ma non la trovo più, spero tanto non si sia sentita tradita.

lunedì 14 settembre 2009

una occasione speciale

Era un’occasione speciale, per quello avevo comprato i fiori che agonizzavano sul sedile accanto al mio. Sotto il sole in una macchina con l’aria condizionata troppo diplomatica per essere di qualche sollievo. Indecisa. La radio ripeteva più o meno la stessa musica del giorno prima e mi si attaccava ai vestiti puliti assieme alle prime gocce di sudore. Dovevo guidare fino alla rotonda di via Togliatti, poi prendere a sinistra verso il centro. In quel momento attraversò la strada una ragazza che non riuscii ad evitare di guardare. Sollevai il piede dall’acceleratore poi lo rimisi giù. Ai 75 km all’ora.

Stefania aspettava davanti alla gradinata di una scuola. Le passai davanti con l’auto ma lei non mi riconobbe. Guardava dritta nel vuoto con la sua uniforme attillata completata da scarpe col tacco e occhiali da sole Ray Ban.
Decisi di proseguire dritto per un po’. Chiamiamola paura riservandoci il diritto di rettifica in seguito.
Mandai giù un sorso secco di saliva e mi venne di pensare che magari avevo mangiato un po’ pesante. Vedevo la scatola di mentine sul tavolo da 4 sedie a riposo nella mia cucina, le mie tasche vuote e la strada che si apriva deserta come un autodromo dismesso. Possibilità da partita a scacchi.
Guardai i fiori che minacciavano la morte imminente. E mi trovai nello stomaco quella sensazione di quando in gelateria mi chiedevano se volevo un cono o una focaccia con panna rimediando una imbarazzante scena muta. Di solito per me parlava mia madre.
“Oggi Dante prende un bel cono gelato” diceva accomodante ed autoritaria.
Io solitamente uscendo protestavo. Una volta ho detto anche “vaffanculo” nel modo sgangherato che hanno i bambini di fare il verso alla televisione. Ne ho ricavato una fastidiosa pedata in culo. Da allora giro a largo dalle gelaterie e a cena salto sempre il dolce.
Quel giorno quindi proseguivo incerto vedendo Stefania sbiadirsi nello specchietto retrovisore. Quando scomparve decisi di trovare un bar. In fondo ero ancora ragionevolmente in orario.
Alla radio una canzone ripeteva un ritornello orecchiabile.

Al barista chiesi un’opinione. Erano meglio le gomme da masticare o le mentine piccole ad effetto immediato ma non necessariamente duraturo?
Lui mi guardò. Aveva una camicia bianca indossata per almeno due giorni. I polsini avevano delle gocce di caffè pulite alla meno peggio, il colletto era molliccio e sulla schiena c’era una striscia più scura come si fosse appoggiato ad un muro sporco di polvere. Aveva gli occhi sudati di chi non ha voglia di discutere.
“Scusi, sono un po’ nervoso” mi giustificai optando per entrambe le soluzioni.
Battè sulla cassa 2 euro e 50. Pagai con una banconota da venti per metterlo in difficoltà. Subdola vendetta.

Quindi ero di nuovo in auto. Considerai che i fiori dopotutto erano ancora ragionevolmente composti ed i capelli mi stavano abbastanza bene in testa. Mi rimisi velocemente in auto. Mangiai una mentina con un sospiro di sollievo e rischiai di soffocare. Iniziai a tossire diventando in un attimo un sudato pellerossa con un soprannome tipo Toro Sudato.
La mia auto sbandava perdendo velocità. Sterzava al ritmo dei miei conati. Qualcuno sorpassava suonando il clacson, altri sollevando il dito medio fuori dal finestrino, un mi mandò a cagare.
“Va a cagher!” disse alla mia faccia paonazza.
Vedevo strisce di realtà dipanarsi nelle retrovie e sentivo una bestemmia asciugarmisi in bocca.
Accostai per istinto di autoconservazione.
Scesi battendomi sul petto e finalmente fui libero dalla caramella. Ero sudato e con lo stomaco ribaltato dallo sforzo. Mi concessi il tempo necessario per riabituarmi alla prospettiva di essere ancora vivo, solo un po’ in ritardo.
Quindi recuperai la via con la prudenza di chi si riprende dopo un colpo di sonno in autostrada.
Alla radio passava una pubblicità delle assicurazioni.

Calcolai che per raggiungere Stefania mancavano appena 5 minuti. Il mio ritardo era poco più che insignificante. Mi calmai quindi cercando di riassorbire il sudore con un vago aiuto dell’aria condizionata. Con la cautela di un disinnescatore di mine iniziai a succhiare una nuova mentina pronto a qualsiasi eventualità. Riposi la mano sul pomello del cambio e l’altra sul volante. Mi venne in mente quanto mi aveva fatto star male Claudia e dopo di lei Carla che era tornata col suo ex. Ripensai a quei messaggi sconclusionati fatti di alcool, ormoni e frustrazione. Al ripetuto rastrellamento ad occhi aperti dei locali che frequentavo con loro. Alle battute pronte che diventavano obsolete ed inutilizzabili. Stronzate.

Ci sarebbe stata una sera in cui, per caso, Claudia avrebbe finito per aspettare che Fabrizio tornasse dal bagno. Con lei quel vestito sottile grigio con una scollatura ovale sul davanti. Mi avrebbe sorriso sulle difensive.
Una canzone ricercatamente popolare tipo Coldplay avrebbe accompagnato il mio ingresso in scena.
“Ciao” avrei detto con finto imbarazzo da mani in tasca.
“Ciao” avrebbe risposto da una realtà parallela.
“Mi piace il tuo ragazzo, fa molto paginone centrale di Gaymaster. Sicura non sia l’alter ego di Vladimir Luxuria?” avrei proseguito.
E l’avrei lasciata lì.

Svoltai a destra a 3 minuti da Stefania.

Poi magari, in un posto che frequentavamo assieme riempito di arredo in legno pesante tipo tavoloni in ciliegio, avrei visto Carla al tavolo col suo ragazzo. Lo stesso con cui stava prima di me. Un tipo un po’ schivo da braccia incrociate ad un concerto. Con una serie di magliette che additano al suo arguto e sottile senso dell’umorismo. Supposto chiaramente.
Comunque sarei andato al tavolo con un sorriso diplomatico. Di quelli da foto di gruppo dei capi di governo che riportano i giornali. Meno abiti formali e scarpe lucide.
“Carla, ho l’ADIS” avrei annunciato un attimo dopo avere cortesemente salutato.
E poi mi sarei allontanato lasciando le loro bocche spalancate molto visita dentistica.
Non sarebbe stato male.
Comunque a quel punto ormai vedevo Stefania. Alzai ed abbassai la musica concentrato sulle parole da dire. Rallentai ai 40 km/ora. Qualcuno mi sorpassò con una Croma grigia ammaccata e scrostata che rifletteva degli scintillii strani. Accusatori ed incerti. I fiori sul sedile mi fecero coraggio in un ultimo slancio vitale. La mia maglietta sembrava finalmente vestirmi bene. La mentina era quasi completamente sciolta e non avrebbe ostacolato la comunicazione.
Finalmente vidi Sabrina. Si era fatta un po’ più sulla strada e si guardava attorno col telefonino in mano. Auto indifferenti di macchiette uguali dirette verso casa. Stanche.
Strinsi forte il volante. Saldo e sicuro col logo FIAT incollato al centro. Imperativo.
Pronto ad una nuova relazione placcata amore. Con abbondanti prospettive sessuali.
Mi fermai e lei finalmente mi riconobbe.
Sorrise. La maglietta aderente aveva un senso mentre camminava tranquilla verso di me. Prendendosi la sua rivincita sul tempo.
Ero in ritardo di 35 minuti ma comunque riuscii a non farmi preoccupare il volto.
Aspettai determinatamente calmo quei pochi misteriosi secondi che ci separavano.
Guardai un attimo i fiori ormai trapassati nella loro composizione raccolta da una rete arancione ed un fiocco giallo. Poi la sua faccia era lì. Dove per giorni l’avevo immaginata.
“Ciao Stefania”.
Sorriso, pausa, indifferenza: corteggiamento.
Respiro profondo ghiacciato menta.
“Stefania? Guarda che io sono Chiara…” pugnalò il mio cervelletto.
Accellerai e lei rimase lì a guardarmi andare.

giovedì 3 settembre 2009

Playstation

Dante è seduto alla scrivania, tapparelle abbassate e ventilatore che lo sorprende ritmico alle spalle.
Occhi stanchi violentati dall’esuberante schermo piatto. Mente acuta ad anticipare curve e pendenze del circuito. Guida un macchina che nella realtà non potrà mai permettersi: spinge il pedale a fondo e poi improvvisamente scala tre marce e frena con i denti stretti. L’auto dal lungo cofano rosso risponde fedele ai comandi. L’impianto sourround lo avvolge con rumori generici da abitacolo ed improbabile colonna sonora rock. Ogni volta che passa il traguardo si dice “ancora un giro, poi stacco”.
Passa alla destra un villaggio di montagna. Un podere delimitato da una staccionata marrone ciliegio. Vicino una coppia di grossi cani bianchi è congelata in un balzo. Ai bordi della strada un pubblico bidimensionale festante. Sempre lo stesso ad ogni passaggio. I cani si ripetono qualche centinaio di fotogrammi più avanti. Quando il villaggio di montagna si trova alla sinistra, appena superato il tornante. E poi veloce per la discesa. Col pubblico che si fa irriconoscibile, generico. Assenza di odori e forze che spingono sul corpo. La strada torna a stringersi e a farsi dissestata. Si definisce rallentando.
Curva a destra.
Rumore di ruote che strisciano sull’asfalto.
Controsterzo ed acceleratore giù a tavoletta.
Esperienza.
“ancora un giro, poi stacco”.