sabato 15 febbraio 2014

Bruce Willis sbronzo prende a pugni un nano da giardino: denunciato

Stanne lontano tu che puoi. Ormai non è più la nostra Londra. Non sono più le serate insieme a bere. I nostri progetti si sono dissolti come la brina al primo sole. Anche Londra è capitolata. Anche Londra è diventata come tutte le altre. Era tutta una menzogna. S’è bruciata via come una cometa di zolfo. Credimi… è successo tutto così velocemente che non riesco ancora a crederci ma è così. E’ tutto un disastro. C’è l’arsenico nell’acqua e l’aria è piena di fosforo e particelle blu. Le notti il cielo s’incendia e la luna brucia come un fuoco d’artificio infinito. E non si riesce più a dormire, mai. Siamo sempre in giro insonni a cercare riposo, un rifugio, un alibi per giustificarci. Viviamo come banditi braccati dal tempo. Cerchiamo di difenderci l’uno dall’altro. Stanne lontano, lontano anni luce. Quì si muore ogni giorno un pò di più, ci sia annienta. Quì ci si dissolve come le nuvole, si svanisce come i sogni. Salvati, non fare come me.

Era una settimana fa quando ho sentito Laura l’ultima volta. Mi ha svegliato alle cinque del mattino con questo monologo. Non ha nemmeno sentito la mia voce. Tra singhiozzi isterici e sospiri, ha sparato questa raffica di parole per poi riattaccare e non farsi più viva. Oggi avrei dovuto essere con lei.
Invece mi giro tra le dita il biglietto aereo trasformato in carta straccia non riciclabile. Dalla finestra vedo un cielo inutile di un colore inconsistente. Mi butto per strada cercando di arearmi i pensieri. Sono stordito. Cerco di pensare a un qualcos’altro che non trovo. Appartengo ad un magico mondo lillipuziano dove anche i pensieri che ingombrano la mia testa diventano enormi dirigibili pieni di elio che impiegano secoli prima di passare senza lasciare scia. La città è un intero continente e la strada per scappare da casa, interminabile. Le luci dei fari delle macchine che incontro sono immensi soli roventi che devo schermare con le mani se non voglio trafiggermi le retine e le pozzanghere diventano vasti laghi americani impossibili da evitare in cui finisco per annegare le scarpe. Anche le tette delle mignotte scazzate che di solito mi fermo a spiare, perdono tutta la loro sensualità confondendosi tra gli arredi urbani e i giganteschi cazzi disegnati sui muri. Gli odori della notte tarda si confondono tra loro in un minestrone stantio al sapore di asfalto bagnato e foglie marce, gas di scarico, piscio e pane appena fatto. I rumori si capovolgono in una danza macabra che finisce per infrangerli come vecchi vetri industriali e ridurli a frammenti quasi inafferrabili: una pseudosirena, uno stridio di gomma, le urla di un ubriaco, il vento sui manifesti strappati, una bottiglia rotta e un aereo lontano. Poi il camion verde dell’Amsa che avanza col fare minaccioso di un mostro dalle sembianze di un coleottero obeso ma atletico. Sembra la versione metropolitana del nonno metallico di Pacman fagocitante sacchi neri del rusco. Un vero spettacolo d’avanguardia.
Cammino da secoli lontano dal ricordo della voce e dai singhiozzi di Laura poi mi volto indietro dove, oltre la piazza, vedo ancora stagliarsi nel buio la figura del mio malconcio palazzo, scrostato e assonnato che non mi molla.
Ha tentacoli invisibili che mi trattengono a lui. Agli anni trascorsi con Laura murati tra quelle quattro spoglie pareti ammuffite a rincorrere il sogno di non crescere. Anni buttati sul letto per interi giorni mangiando radioattivo cibo cinese d’asporto e bevendo l’universo, alzandosi solo quando il portacenere era troppo pieno o la bottiglia ormai vuota. Anni di parole su parole, canzoni, progetti senza tempo, deserti artici nel frigorifero e bollette senza data di scadenza, un pò come il sale. Mattinate con il mal di stomaco come copertura del mal di vivere. Nausea per tutto e vomito facile. La bicicletta rubata nell’atrio d’ingresso con tutte le finestre chiuse per respirare appieno i fumi acidi della vernice densa. Quattro passi per strada deridendo e maledicendo i vecchi nonni della patria che scuotevano la testa guardandoci avanzare così maledettamente giovani e già terribilmente malandati. Interi anni scanditi da felicità artificiale, amore incerto, cazzo duro ed edonismo puro, idee di rivolta e di libertà obbligatoria, inni anarchici, panteismo, urla dalla finestra, sangue dal naso, filosofia spicciola, lacrime di gioia, molotov scolate, risate a crepapelle, libri letti, libri scritti che nessuno ha mai letto e cicatrici sul cuore. Anni interminabili di energie inesauribili certi di avere scoperto il segreto per l’immortalità.
Poi d’un tratto qualcosa cambia. Un’eclissi che non intriga e non affascina più ma inquieta. L’universo che si restringe come un pallone da basket mille metri sotto il mare. L’aria che diventa pesante, densa e il fiato che si fa corto. Un macigno che ti opprime il petto e le tempie che iniziano a pulsare e pulsare. Bumm bumm bumm bumm bumm bumm. All’improvviso avverti il rumore del tuo cuore che per più di ventanni ha battuto in solitudine e in silenzio ma che ora, inspiegabilmente, dici che diventa insopportabilmente assordante. Dici che non ti fa nemmeno più dormire la notte e ti rende nervosa. Ti perseguita ogni maledetto secondo. E poi la paura di morire ti toglie il sorriso dalle labbra. Ti rapisce la luce dagli occhi. Non vuoi più uscire e piangi quasi tutto il giorno. Quando non piangi aspetti solo di piangere. Mi guardi senza vedermi e le mie parole ti scivolano addosso come gocce di pioggia acida. Siamo un negozio in liquidazione totale prossimo alla chiusura. Abbiamo rassegnato dimissioni irrevocabili dal nostro “noi”, tornando ad essere semplicemente tu ed io. L’inverno nel frattempo sbiadisce quello che è stato il nostro mondo psichedelico.
Il tuo trasloco silenzioso, le foto sorridenti staccate dalle pareti e l’eco che si è fatto assordante tra quei muri vuoti rimasti miei. Mai più una parola, una birra insieme, mai più tue notizie.
Tutto è svanito all’improvviso come un sogno, come il vapore di una doccia o l’odore di bucato. Tra le mie giornate trovo solo scadenze da rispettare, timbrare quattro volte tra le nove e le diciotto, fare la coda all’Esselunga per prendere pizze surgelate, caffè e vaschette di salumi, lavatrici da fare, panni da stendere, camicie da stirare una sega ogni tanto e la sveglia da puntare. La vita pian piano perde quella quarta dimensione che era data dalla capacità di sentirci un “noi”. Così gli anni passano a due a due come gli aerei alti nel cielo fino a quando per posta arriva una lettera. Una tua lettera da Londra con scritto solo “ti aspetto, corri da me” e un biglietto aereo.
Poi, tutto il resto ormai non conta.