venerdì 30 marzo 2007

Rispetto

«Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale»
(E. A. Poe)


Nel palazzo di fronte al mio abita uno spacciatore.
Nessuno me lo ha mai detto, ma io lo so.
Dalla finestra della mia cucina entro in piccole parti della sua bieca vita quotidiana.

Non lavoro da due mesi. Ho perso un bell’impiego in una società di ****** ufficialmente per incompatibilità con l’ambiente di lavoro mentre in realtà per il rapporto con i colleghi. Erano troppo ossessivi e la loro vita gravitava intorno al lavoro; loro vivono per lavorare. Per otto ore al giorno avevo sempre qualcuno alle spalle che spiava quello che stavo facendo, sempre. Sono arrivati persino a controllarmi le chiamate. Non ne ho la certezza ma ne sono convinto. Infatti, un giorno, tornando prima dalla pausa pranzo, ho sorpreso il mio collega responsabile informatico vicino al mio telefono nel mio ufficio. Sono certo che stesse controllando i numeri chiamati nella mattinata. Fatto stà che appena mi ha visto alle sue spalle, ha cominciato a parlare di lavoro come fosse in linea con qualcuno. Ha finito salutando e ringraziando quel fantomatico interlocutore dopodichè si è voltato e mi ha farfugliato, fingendosi sorpreso di vedermi “oh, ciao Franco, scusa se ho usato il tuo telefono ma il mio non funziona oggi... ho avvertito il tecnico ma, sai quanto ci mettono quelli...!” e poi se ne è andato. Sono resistito tre mesi in quella situazione di “sorvegliato”, ma alla fine sono sbottato e mi sono dovuto licenziare.

Essendo in casa più di dieci ore al giorno, ho modo di vedere quello che succede intorno a casa mia. Da un mese circa ho la certezza che lo sguardo che spesso incrocio dalla finestra del palazzo di fronte appartenga ad uno spacciatore. Un lurido sporco figlio di puttana. I nostri occhi non si incrociano, si scontrano proprio, fissandosi per un breve tempo sino a che uno dei due è costretto a cedere alla forza dell’altro ed entrambe ricominciamo a fare quello che avevamo interrotto. Lui sa che io so della sua losca miserrima attività e per questo mi odia.

Fino a cinque mesi fa stavo con una ragazza, Carla. Mi ha lasciato perchè non mi fidavo più di lei. Siamo stati fidanzati per quattro anni, poi, tutto d’un tratto lei ha cominciato a controllare la mia vita. Quando mi assentavo da casa per recarmi al lavoro od anche solo per andare a fare la spesa, al mio ritorno mi accorgevo di alcuni cambiamenti, anche solo millimetrici, ma molto eloquenti. Premetto di essere una persona estremamente precisa e per questo ho sviluppato un incredibile senso della posizione e dell’ordine nello spazio. Per farvi un esempio, io saprei dire se, durante la mia assenza da casa o dal lavoro, qualcuno si sia intromesso nelle mie cose anche solo per qualche istante perchè, la disposizione degli oggetti dopo il passaggio di qualcuno è irrimediabilmente compromessa. Una matita fuori posto, un foglio spostato, il tappeto leggermente arricciato piuttosto che un cassetto del comodino non ermeticamente chiuso, sono per me tracce inconfutabili del passaggio di qualcuno. Quando, quindi, rincasavo, non potevo non notare che tra i miei effetti personali (dei quali sono estremamente geloso), qualcosa era variato. Cerco di spiegarmi meglio. A tutti sarà capitato almeno una volta di frugare, vuoi per curiosità piuttosto che per necessità, tra le cose altrui. Bene, quando mettiamo mano tra oggetti o comunque entriamo in un ambiente che non ci appartiene, utilizziamo come metro di paragone con l’ordine circostante unicamente il nostro senso dello spazio. Ovvero, se secondo noi un cassetto della scrivania è ordinato quando è chiuso sino in fondo, oppure le penne sulla scrivania sono allineate per colore piuttosto che per dimensione, quando entriamo in un ambiente nuovo e ci mettiamo mano, al momento di dover cancellare le tracce del nostro passaggio, ci premureremo di risistemare ogni oggetto seguendo i nostri personali schemi di ordine, spesso ignorando il loro stato precedente alla nostra incursione. Risultato: crediamo di aver risistemato tutto come era in precedenza mentre sicuramente qualcosa ha variato la sua posizione. Quindi avrete ben capito che quando tornavo a casa, alle volte anche un pò stanco e stressato dopo una pesante giornata di lavoro, mi trovavo dinnanzi all’inconfutabile prova dell’avvenuta ingerenza di Carla tra le mie cose personali. Io sono un ragazzo estremamente trasparente e questo non sempre mi ha facilitato la vita anche se, dal canto mio non ho nulla da rimproverarmi. Sforzandomi, le prime volte che mi sono accorto del suo controllo, credo di ricordare che fosse giugno o luglio, ho sempre fatto finta di niente con Carla ed a grandi sorsi mandavo giù quell’amaro senso di omertà che non mi apparteneva. Quando i fatti cominciarono a ripetersi più frequentemente, non sono più resistito e, con l’estrema calma che mi caratterizza, le ho chiesto spiegazioni. Come potevo immaginare, lei dapprima aveva cominciato a negare tutto fingendo di non capire di cosa stessi parlando, poi col tempo, probabilmente sentendosi smascherata, come tutte le donne, cominciò ad attribuire alla faccenda un significato sentimentale con frasi del tipo “ma perchè mai dovrei frugare tra le tue cose?” e poi “ma cos’è, non ti fidi di me... mi conosci da anni, sono la tua ragazza e nonostante questo credi che ti controlli?”, arrivando persino ad uscite del calibro di “no, ma tu sei uscito di senno, sei diverso... stai cambiando...”. Abbiamo sopravvissuto ad una situazione di mutui sospetti per qualche mese, dopodichè, un bel giorno, in seguito ad una bella litigata, al mio rientro a casa trovo appeso alla calamita del frigo solo un biglietto scritto a mano, probabilmente ancora umido per le sue ultime lacrime, che mi annuncia la sua partenza e blàblàblà... Piccola nota che perora la mia causa sta nel fatto che parecchie cosette mie personali (tra le quali un mio diario), da quel giorno sono sparite con lei.

Lui mi odia visceralmente almeno quanto io odio tutte le serpi e di conseguenza lui. Di tutto questo ho avuto la conferma qualche settimana fa, quando, scendendo per andare al lavoro, per la prima volta in sei mesi, lo ho visto entrare di persona nel portone del suo palazzo e, nel richiuderlo, voltandosi di tre quarti sono sicuro mi che mi abbia scorto salire in sella alla mia moto. Qualche giorno dopo il nostro solo sfiorato incontro, una mattina, mi sono trovato lo specchietto destro divelto e gettato sul marciapiede; un evidente segnale intimidatorio di quel bastardo, di quel cancro sociale. Lui se potesse mi ammazzerebbe.

Ultimamente soffro un pò di insonnia e la notte non riuscendo a dormire leggo oppure osservo quella parte di città che come me non dorme. Alle volte, quindi, mi accosto alla finestra per alcune ore, nel buio della notte e con la luce spenta per non farmi vedere, e scruto tutti i movimenti di quel delinquente, l’unico dell’intero palazzo che anche la notte non riposa. Lo vedo girare per casa, da una stanza all’altra, spesso a torso nudo portando in mano qualcosa che purtroppo non si distingue bene nella penombra, oppure lo scruto accendere la luce dell’atrio ed aprire la porta per fare entrare qualcuno in casa, sicuramente qualche povero disgraziato tossicodipendente che lo implorerà di dargli una dose per sopportare lo schifo di questo mondo sempre più ingombrante e zozzo. Oppure lo vedo affacciarsi alla finestra aperta e sporgersi per vedere sotto, il tutto sempre con una sigaretta appesa tra le labbra.

Come se non bastasse, da circa un mese ho dei condomini nuovi al piano superiore. Li ho incontrati solo una volta lungo le scale quando l’ascensore era stato fermato per il collaudo. A vederli, sembrano ragazzi perbene, vestiti puliti e capelli ordinati ma spesso la notte accendono lo stereo oppure fanno partire lavatrice o lavastoviglie senza curarsi dell’esigenza degli altri condomini di godersi il silenzio delle ore notturne. Inoltre, poco tempo fa, uscendo di casa ho sentito quei ragazzi parlare col custode (tipo strano anche quello) di me. Ho origliato un momento, nascosto dietro l’angolo della portineria, carpendo solo pochi frammenti di conversazione “ma il tizio del quarto piano... sempre riservato... esce poco...da quanto vive qui...”. Chiedevano informazioni al portiere sul mio conto!

Non sono nemmeno più libero di fare quello che voglio, di avere una mia sfera privata, un ritaglio di mia intimità che già la gente si insospettisce, drizza le antenne e comincia a fare domande, bisbigliare e spiare. Se non ti omologhi alla spazzatura che ti circonda, diventi tu il diverso, diventi tu il neo. Tutto si sta avviando rapidamente al declino. Non esiste più il rispetto per ninete e per nessuno. Un’etichetta ataccata alle spalle come un pesce d’aprile per tutto l’anno è l’unica cosa che si riesce a ricavare dalla società, dalla gente che ti vive accanto. Serve rispetto. Non abbiamo bisogno di inchini, copnvenevoli o di darci del lei quando ci incontriamo; questo non è rispetto. Rispetto è libertà di vivere.

Questa notte ho capito che la situazione è diventata insostenibile; ha raggiunto ormai il punto di non ritorno. Lo spacciatore ha ancora la luce accesa e dalla finestra lo vedo trafficare in cucina. In tutto il mio palazzo risuonano voci e rumori strani, porte sbattute e passi pesanti.

Sono sceso nelle decadenti tenebre delle vie rigurgitanti di drogati, prostitute, poliziotti conniventi, ladri, derelitti ed assassini. Mi sono sentito osservato da una miriade di occhi nascosti nel buio. Avevo l’impressione di essere attorniato da una strana aura che mi distingueva e mi dava risalto mentre mi aggiravo il più riservatamente possibile per le vie odoranti di piscio e sporco, di malattia e fine. Non ho faticato molto per trovare quello che stavo cercando. I soldi li avevo con me e mi è bastato chiedere ad un paio di tizi, meno loschi di certi che si aggirano per la stazione durante il giorno, per avere tutte le informazioni necessarie per trovare una pistola. Mi sono appartato in una via deserta e stretta a senso unico con uno di questi. Lo schifo che provavo per lui non mi ha concesso nemmeno di guardarlo negli occhi. Le sue parole alle mie orecchie risuonavano come filtrate dall’altoparlante di un megafono ed incredibilmente metalliche. Mi ha estratto un’automatica con la canna corta e scura con la disinvoltura di un crupier che distribuisce le carte. Mi ha chiesto per cosa mi servisse, ma credo sia una domanda di routine che per abitudine sono portati a fare senza prestare troppo interesse alla risposta, un pò come fanno i commercianti chiedendo “come va oggi signore?”. Per questo non gli ho risposto. Lui ha ottenuto quello che voleva ed io ho avuto quello che cercavo. Pistola e caricatore traboccante di piombo.

La testa mi sta scoppiando nel silenzio della città in cui nemmeno le civette cantano. Un cerchio alle tempie preme con insistenza e provo la sensazione che la mia testa abbia la stessa consistenza del corpo di un totano. Mi pulsano gli occhi al ritmo del sangue. A passi veloci mi sposto con la sicurezza di chi sa dove andare. So da dove cominciare. Sono le tre e mezza, la città sembra essersi ormai addormentata ma io, sotto la luce gialla delle lune artificiali, so che qualcuno è ancora sveglio.

mercoledì 28 marzo 2007

evoluzioni ergonomiche

nonostante l'apparenza questa posizione è comoda. inusuale forse. ma non lo fu la vista della prima persona sprofondata in un puff o su un materasso ad acqua? l'ergonomia continua a fare passi avanti superando qualsiasi fantasia, arrivando a disegnarmi in siffatto modo. certamente vincente: definitivo. sopra di me sguardi interessati di passanti più o meno casuali. ficcanaso o meglio: clienti. dev'essere così che ci si sente a lavorare per gli stand promozionali ai supermercati, "catalizzando la attenzione". qualcuno si sporge per vedere meglio. addirittura altri cercano di filtrare tra i corpi per una posizione migliore.

abbonato rai: un posto in prima fila

silenzio, mi calo nel personaggio come un consumato attore. il mio mantra è: “vivere il prodotto”. cerco di rilassare lo sguardo, dilato le pupille. inspiro ed espiro forte e l'aria mi si versa nei polmoni calda, come nei pomeriggi di inizio estate. giorni in cui, effettivamente, quei quattro o cinque euro elargiti alla bionda barista del bagno Fantini valgono una dissetante birra ghiacciata.

Heineken, sounds good

poi, mi si conceda il gioco di parole, è un mare di tempo che non vado al mare. al telegiornale un servizio ha mostrato i primi tuffi e fisici, ancora non perfettamente torniti e colorati, passeggiare tranquilli per il bagno asciuga. nessun venditore ambulante: tutti ancora occupati nei mercati invernali del centro città. i cinesi con gli ultimi dvd pirata a 5 euro, gli africani con nuovissime cinture e borse contraffatte. mentre in spiaggia domenica tutti indossavano costumi di moda l'anno passato. qualche Sundek ed un sacco di più economici Calzedonia.

fa parlare le tue gambe

non che abbia in antipatia i miei boxer a fiori hawaiani ma quest'anno opterò per una vacanza naturista. Filippo ha raccontato che non è solo un'orgia come si penserebbe.
"insomma”, ha detto, “c'è anche dell'altro".
“certamente meno interessante” abbiamo aggiunto io e Nicola pianificando una pausa senza poliestere misto ad elastene o lycra a coprirci il didietro, niente crema e tanta frutta di stagione.

mangia sano, torna alla natura

ma l'estate è ancora lontana e questi sono solo scherzi climatici utili a laccati capi redattori di telegiornali. oggi è il 7 marzo ed io vesto un maglione marca napapijri adagiato qui, a farmi osservare. la mia performance pare avere un esplosivo successo come le prime puntate di x-files. quando non era richiesta una laurea in psicologia aliena ed una costante e meticolosa attenzione a particolari insignificanti per la comprensione de facto dell'episodio. commentato poi al bar con le amiche il seguente giorno, dietro un rilassato caffè foriero di possibili risvolti relazionali. sesso.

il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?

ed in questa prospettiva potrei ora sfruttare la mia prominente posizione protagonistica fissando un appuntamento con una di quelle gemelle bionde in piedi alla mia destra. potrei fare un cenno significante: “ci vediamo dopo, quando tutto sarà finito”. potrei poi usare l’opzione viaggio nei sapori: agriturismo e passeggiata nella vegetazione circostante.

è bello camminare in una valleverde

è il piano collaudato con Lucia in un maggio ed ha soddisfatto le aspettative del consumatore: io. allora farò così: girerò il dito a dire di aspettare la fine della performance. tutto senza scompormi troppo, vanificando lo sforzo rappresentativo. in fondo ho un ruolo. me lo ricordano le due coppie di gemelli in abiti arancioni che minacciosi si avvicinano dicendo “non si muova”. devono avermi sondato il pensiero. non sono tuttavia preoccupato: i loro vestiti alieni mi ricordano vagamente quelli indossati nei cantieri stradali.

stiamo lavorando per voi

poi gli stessi dicono che me la caverò e devo solo stare tranquillo. lo stesso tono del dottor Mark Greene di E. R.. capisco quindi che sto morendo. conosco bene quella serie, meglio di x-files. e sicuramente la Dondi Salotti non sarebbe felice di avere sulla coscienza un bianco toronto liscio che schiaccia me medesimo scivolando dal portapacchi di una Seat.

auto emoción

ma non riesco a provare rancore, né altre cose. avrei voluto provare il bunjee jumping e la cucina thai. le ragazze svedesi e le cozze di Bruxelles. la nuova Mini Cooper. però mi sento bene, importante e fuoco negli occhi da cui tutti bevono una tragedia in fondo sperata. come uno schianto in formula uno, un knock out al secondo round, lo sciatore che inforca e perde uno sci. sono la panacea alla noia dei giorni che si ripetono, uguali. che non lasciano memoria del loro passaggio. né belli, né brutti. insignificanti come la strada che si ripercorre tutte le mattine ed i pomeriggi per andare da e fino agli stessi posti. ancora ed ancora. rendo memorabile a tutti un istante che potranno raccontare, che uscirà dalla monotonia dei discorsi sul meteo, il calcio. in questo momento la mia vita si espande a colorare per un attimo solo quelle del copioso pubblico: tangenziali. sono il Davide con la testa di Golia di Caravaggio, sono Gesù sulla croce, il re sole. tutto mi gravita attorno come piccoli Pavesi Frollies. finalmente capisco che vuol dire: il mondo attorno a te.

poi muoio.

si dice che un attimo prima di morire ci passi il film della vita davanti ma io ho visto solo lo stacco pubblicitario.

martedì 27 marzo 2007

un muro, un mattino

quel giorno non ero particolarmente allegro. calmo e piatto mi sarei definito. come il mare quando batte bandiera bianca nel primo pomeriggio, quando la spiaggia è popolata solo dei silenziosi fanatici della tintarella. accompagnati dalle loro riviste: Men’s Heatlh o Grazia. o Donna Moderna. il cielo fuori era della stessa azzurra tinta dei giorni caldi passati appoggiato allo scooter guardando gli aerei decollare ed atterrare, dipingere parallele linee dai reattori delle ali od una sola pista bianca. fumando una canna coperta dal rumore dei loro motori. imitando espressioni intraviste nei film od in qualche fotografia di rockstar in posa. aspirando con le mani chiuse a pugno. facendo la “camera”. tossendo per incapacità polmonare. ed era facile rompersi i coglioni a quei tempi. non come in quel momento sospeso in cui guardavo il muro sognante quasi ad immaginare una identica parete bianca. solo per il piacere di immaginarla. fuori da qualsiasi discorso filosofico sulla presenza o meno della parete. della soggettività delle mie percezioni. senza niente da indurre. semplicemente gli occhi ad incrociarsi nel bianco immaginando altro bianco. più candido e senza quella zanzara sdraiata in un irregolare punto rosso bruno. una sporca e mal colorata bandiera del Giappone. l’odore della notte già scemato alle spalle nelle coperte ancora disordinate, la eco delle parole forti sussurrate sopraffatta dallo stesso monotono ritornello del fischiare silenzioso nelle orecchie. qualche rumore di sfondo da un piano parallelo, più in basso. il bagno, vapore acqueo che silenzioso aderisce al vetro rigandolo poi, quando gocce annoiate ne scendono. sottili cascate in una gravità lunare. la zanzara ferma: morta. prurito sul polpaccio destro. una peluria eccessivamente distribuita sopra l’ombelico. un fisico asciutto come quello di mio padre, solo venticinque anni più giovane e marchiato da un tatuaggio sulla spalla. insignificante ma senz’altro motivo per quattro chiacchiere. che inevitabilmente arrivano quando lei tornò sorridendo dal bagno dicendomi che era pronta. mi infilai i jeans ed una maglietta recuperata nella confusa ed informe massa a ricoprire lo schienale della sedia. uscimmo a piedi. le pagai la colazione e non la rividi più per quella settimana.

giovedì 22 marzo 2007

il telefono squillò

Il telefono cominciò a squillare poco dopo le tre. Non si prolungò oltre una decina di squilli dopodichè tornò a tacere. Ma non si rassegnò, e dopo una breve attesa, riprese nuovamente a squillare, quasi sapesse che la casa non era vuota. Nessuno rispose vanificando anche questo tentativo.
Il silenzio che tornò a regnare nella casa quando il telefono cessò di squillare conferì una sensazione di irrealtà alla situazione. Dopo essere state esposte per qualche minuto al trapanante rumore metallico della suoneria dei vecchi telefoni a disco, le sue orecchie parvero ritrovare una pace mai conosciuta prima. Gli unici rumori che ora riuscivano a percepire provenivano dall’attrito che l’aria aveva sull’interno delle sue narici ritmato, in sottofondo, dai tonfi del battito cardiaco, solo parzialmente attutiti dal maglione in lana che indossava.

Da un paio di giorni l’inverno era tornato per le strade della città come se avesse dimenticato qualcosa di importante. Era il secondo giorno di primavera. L’azzurro del cielo terso lasciava intravedere all’orizzonte i contorni delle cime innevate delle lontane montagne. I pruni selvatici ed i ciliegi tutti bianchi di fiori lungo i viali erano anacronisticamente accostati a signore nuovamente in pelliccia. Sulle impalcature i muratori sbuffavano nuvolette di condensa sfregandosi le mani nel vano tentativo di ammorbidirle. Di sera, alle sette cominciava a calare il sole lasciando sui muri dei palazzi della città colate di rosso e nelle finestre un caldo ed accecante riflesso.

Gnik... Gnik... Gnik... Gnik...
A passi lenti e pesanti fece scricchiolare il parquet malfermo e vuoto della camera. Nell’aria scura si respirava l’odore della notte precedente. Raggiunse in quattro passi la sua poltrona e ci sprofondò restando in attesa di recuperare fiato. Quando ci si sveglia di soprassalto, la notte, pochi movimenti richiedono grandi sforzi.
Gli occhi spalancati nell’ombra brillavano come ghiaccio nelle notte di luna piena. Un crampo gli stampò sul viso una smorfia di silenzioso ed intimo dolore.
Si sentì vivo.
Attese qualche istante, poi frugò nella tasca sinistra della poltrona certo di trovare quello che stava cercando. Ne estrasse un mezzo sigaro ancora umido ad un’estremità. Automaticamente lo avvicinò alle labbra che subito lo afferrarono con voracità. Lo lasciò penzolare al lato ma non lo accese.

Si era svegliato nel cuore della notte più silenziosa dell’anno. Anche Bologna, che sembra non dormire mai, quella notte si era assopita con gli occhi semiaperti. Le luci gialle di ponte San Donato si spengono solo per una sera al mese creando un’atmosfera quasi onirica. Solo ombre incerte e deboli si intravedono sui marciapiedi abbagliati dai fari delle sporadiche auto. Quella notte il ponte era buio e deserto.

Dopo qualche istante raccolse da terra, scostando il bicchiere che gli poggiava sopra, un blocco di carta di cui solo si distingueva, nel buio della notte, il candore delle pagine bianche. Lo adagiò sulle gambe ed abbandonò il capo sullo schienale socchiudendo gli occhi. Con una mano ripassò lentamente la superficie della prima pagina seguendo i piacevoli solchi lasciati dalla sfera della penna articolarsi sotto i suoi polpastrelli incalliti. Nella testa aveva una dolce melodia che non gli giungeva dalle orecchie. Prese il sigaro tra l’indice ed il pollice con la delicatezza con cui si regge un fiore e lo allontanò dalla bocca. La lingua passò sulle sue labbra inumidendole, poi si separarono e fecero entrare una boccata di aria greve e cattiva. Trattenne il respiro per pochi istanti poi poche parole si trascinarono stancamente fuori dalla sua bocca
.
“Oggi ti ho regalato un fiore. Probabilmente una rosa rossa oppure un tulipano od ancora una margheritona, semplice e profumata proprio come te; sì, ti ho regalato una margheritona gialla... o forse era solo un sogno”.

Il buio è per gli occhi quello che il silenzio è per i timpani. In questa assenza percettiva la proiezione della mente è assimilabile al sogno e...

Il silenzio che, per pochi istanti, quelle parole interruppero tornò prepotentemente nella stanza. Il sigaro scivolò dalle sue dita e senza fretta cadde a terra, rimbalzò tre volte roteando compostamente nell’aria e si fermò sul parquet.

...tra affondare e precipatare varia solo la velocità con cui ci si avvicina alla stessa fine

lunedì 19 marzo 2007

grandine

era un’alba storta, troppo gialla, calda: irreale. il sedile reclinato a guardare la tappezzeria beige coprire il tetto, il retrovisore interno autoanabbagliante. il silenzio rotto da qualche macchina che passava a chiudergli le orecchie. troppo veloce. tuffi continui in una piscina asciutta. avrebbe potuto svegliare Lara ma sicuramente gli sarebbero mancate le parole poi, in fondo, non aveva niente da dire. solo il bisogno di comunicare. qualcuno con cui condividere l’ultima alba dell’umanità. un’alba postatomica dai siluri che scuotevano l’abitacolo spostando chili d’aria calda. quasi afosa. come lo può essere il tuorlo di un uovo sodo, senza maionese.
se avesse fumato sarebbe stato sicuramente il momento più adatto per una sigaretta. una passeggiata riempita di un odore di vuoto spinto e fumo a contemplare il verde precario e la strada che strappava le colline in due. la A1 che apriva apocalittica un mare di pietra, bmw che correvano sbavando neon blu e ruttando musica troppo alta. forse qualche bottiglia vuota di plastica che rimbalzava. poetica come i numeri di telefono incrostati nei bagni degli autogrill accanto alla scritta “io ingoio”.
ma Maicol, oltre ad avere un orribile nome, non fumava. e quindi decise di non arrischiarsi a uscire. sapendo di non poterla proteggere non voleva svegliarla, turbarla. perché amare è scopare un sacco per poi annoiarsi e cercare di fare il meno male possibile all’altro. l’inevitabile idillio si schianta con un tempo scandito in ventiquattro ore, ultime produzioni hollywoodiane in uscita il venerdì sera nei multisala, cibo messicano e l’immancabile ambivalenza umana. e non importa quanto gonfie sono le tue tette o grosso il tuo cazzo: un giorno semplicemente passeranno di moda assieme a te. e magari non è così ma a Maicol non importa. si è finalmente addormentato mentre il cielo si fa ancora più giallo gridando improvviso e lanciando impietoso munizioni forgiate nell’aria.
“merda, grandina” lo sveglia Lara.
fortunatamente la assicurazione di Maicol copre anche i danni naturali.

sabato 17 marzo 2007

picco di ascolti per l’ultima serata del festival, sfiorata tragedia per fuga di gas nel triestino

anche quel mattino si era svegliato presto. il “click” della ciotola del gatto che ruotava automaticamente alle sette preparando la colazione. la televisione accesa a ripetere le stesse notizie: “picco di ascolti per l’ultima serata del festival, sfiorata tragedia per fuga di gas nel triestino”. i calzini dimenticati ai piedi la notte precedente. una bottiglia di acqua accanto al letto, naufraga nel disordine diffuso. vestiti ammassati in un angolo, scogliere striate di alghe di felpa verde. nel monitor del computer era ancora aperta la casella email. odore precario di niente presto da sostituirsi col caffè.

Francesca ama il verde, ha 23 anni ed ancora non sa che fare della sua vita. i suoi sogni si sovrappongono a ripetute proiezioni di Pretty Woman.

Dante rientrò nel campo visivo accompagnando con la zampa un foglio di alluminio appallottolato. recuperato chissàdove. la cucina era relativamente pulita. i piatti ordinati ed ormai asciutti accanto al secchiaio, il pavimento piastrellato in freddi quadrati bianchi. l’orologio alla parete anonimamente tondo batteva, con un flebile e rassegnato “tic”, i secondi dopo le sette e otto minuti. la caffettiera ancora taceva.

presi quel treno senza controllare la destinazione. dal primo binario alle 19 e 16 parte sempre un eurostar per Milano.

recuperò un libro dimenticato aperto per una ragione che non ricordava. probabilmente introdotto tra dialoghi con Marco poche sere prima e poi dimenticato. avanzato assieme alla mezza bottiglia di chardonnay in frigorifero, presto destinata ad un arrosto. conosceva quelle pagine vissute di angoli ripiegati a tenere il segno. a ricordare qualcosa: impegnative digressioni mediche, frasi a cui sarebbe ricorso in qualche conversazione. adatte ad una specifica situazione, persona. non sottolineava, con la matita che pur apparecchiava la tavola, per non creare aspettative su periodi che a volte, in seconda analisi, non erano poi così brillanti. definitivi.

vivere non è facile quando respirare dev’essere un atto volontario. quando l’aria viene da una mascherina plastica attaccata ad un tubo plastico e trasparente che termina in una bombola più alta e sottile di quella del gas. probabilmente una miscela di ossigeno.

il gorgogliare sui fornelli lo distrasse. il caffè l’aveva sempre bevuto senza zucchero e non fece diversamente quella mattina. il sapore forte lo teneva sveglio, attivo pur senza senza mettergli le ali. il liquido scendendo bruciava piacevolmente la gola lasciando un retrogusto che non poteva che suggerire una sigaretta. la prima della giornata. fumata in mutande, come nei film. e non è importante ciò che pensasse in quel preciso frangente, l’inutile accavallarsi di realtà e fantasia che non riusciva a linearizzare. l’ossessivo domandarsi “come?” e “cosa?”. la punta della Marlboro si illuminò accorciando visibilmente la distanza con la bocca gonfiata di fumo, con la sua fine. respirò. anche quel giorno non riuscì a scrivere niente di sensato.

dalla camera la televisione ripeteva atona: “picco di ascolti per l’ultima serata del festival, sfiorata tragedia per fuga di gas nel triestino”.

venerdì 16 marzo 2007

ciclotimia

mi ripeto che non è successo niente, cerco di convincermene con una ostinazione degna dell'Alfieri. inspiro forte ed espiro un flebile “niente”. ma non funziona. sono un pessimo bugiardo oltre ad un inguaribile romantico. perchè sì: io sono uno di quelli che suona il campanello con una rosa in mano, uno di quelli che apprezza la vostra nuova acconciatura, uno di quelli che vi apre la portiera della macchina per poi zompettare al lato del conducente. veloce ed elegante come una camicia a righe, marca Ralph Lauren, dentro ad un paio di jeans. io pago il conto al ristorante mentre siete in bagno a passarvi il rossetto e ad incipriarvi dopo la cena, io salgo per un caffè arrampicando svariati piani di scale dietro di voi senza mai posare lo sguardo sul vostro tornito didietro. io dico che è stata una serata meravigliosa e che il vostro caffè è davvero delizioso. io mi alzo e vado via lasciandovi con un bacio ed una lettera nella tasca esterna della borsetta Louis Vuitton.
voi aspettate sulla porta ascoltando i miei passi allontanarsi, farsi piccoli come i centesimi di euro, come un batterio di pochi micron. fingete di sperare in un colpo di scena. siete felici come i delfini, gli aquiloni. vi domandate se Rita sia ancora sveglia. se è il caso di raccontarle quanto perfette sono passate quelle ore.
“probabilmente dorme” vi stupisce irriflessa la vostra voce. morbida come quando ripetevate con trasporto quella poesia di Baudelaire, sedicenni. andata a memoria poi schiacciata dalla chimica, l’anatomia ed il vostro gatto tigrato. vi riscoprite a vocalizzarla ed il vostro francese è semplicemente perfetto. vi interrompete per recuperare il cellulare e toccate la busta di carta bianca contenente un cartoncino riempito dell’inchiostro di un pennarello sottile con una calligrafia tagliata, tendente a destra. quasi il pennello definito dei Carracci. leggete.
TI AMO.
dopo poco morite. ancora bellissime e con gli orecchini. si chiudono semplicemente i vostri occhi lucidi come bisturi anallergici. capite che quello è il momento più bello della vostra vita.
e questa macchia di vino sulla camicia rischia di rovinare tutto. rendere la serata imperfetta, reale. il cameriere è costernato. “non fa niente” ripeto a mezza voce. il sorriso bianco, smaltato come le unghie, mi guarda. nel piatto di Laura il veleno si mescola a cibi organici, e ricercati accostamenti. aspetto che il cameriere si allontani.
le domando “scusa”.
“non è colpa tua” mi sfiora la punta delle dita.
non è colpa mia.

lunedì 12 marzo 2007

tettonica delle placche

la televisione ha sempre avuto un ruolo importante nella mia vita. fino al 2 maggio 2005.
conobbi Francesca il 10 giugno 2005. ad una lezione di diritto del lavoro.
Lara mi lasciò il 25 settembre 2005. non mi amava più.
quella notte cenai solo al ristorante messicano conosciuto come Cafè Caracol, dietro Piazza Maggiore. mangiai quesadilla e burritos accompagnandomi con la pesante sangria allungata di tequila. poi ordinai un caffè e un paio di cicchetti. rincasai che era già il 26 settembre 2005 da qualche ora.
il 27 settembre 2005 seduto sul divano mi domandai se mi mancasse più Lara o la televisione. telefonai a Francesca. parlammo di cucina giapponese e della tettonica delle placche.

“il giappone è costantemente minacciato da terremoti, eruzioni vulcaniche e maremoti.”

il 28 settembre 2005 iniziai la lettura di Chiedi Alla Polvere. dopo poche pagine l’introduzione mi aveva narrato il finale e tutto quello che mi potevo aspettare. non avevo più aspettative. finii il libro alle 22 e 51.
il 29 settembre 2005 invitai Francesca a bere qualcosa.
il 30 settembre 2005 mi svegliai alle 11 con la nausea.
il 15 ottobre 2005 Lara aveva un nuovo fidanzato. andai ancora a cena al ristorante messicano. la cameriera mi riconobbe, mi chiese come stavo. risposi che non c’era male. il suo italiano era più zoppicante del mio spagnolo. proposi di andare da un ortopedico. lei non rise.
il 17 ottobre 2005 era un lunedì.
il 25 ottobre 2005 sentivo una incolmabile mancanza di Lara così chiamai Francesca.
il 26 ottobre 2005 mi svegliai alle 12 con Francesca accanto. nuda. scesi a fare colazione, quando tornai lei era vestita.
il 3 novembre 2005 mi sentivo solo.
il 4 novembre 2005 cambiai un fusibile e la televisione riprese vita.
Lara non tornò mai più da me.
col tempo mi sono specializzato nella cucina di piatti messicani. Francesca dice che il mio chili è migliore che abbia mai assaggiato.

il giappone rimane minacciato da terremoti, eruzioni vulcaniche e maremoti

giovedì 8 marzo 2007

la suonata alla luna

La guardai negli occhi dopo averle accarezzato il seno con lo sguardo. Il petto le si gonfiava e, ritmicamente, subito dopo, si svuotava. Il suo profumo dolce mi toglieva il fiato.
Voleva spiegazioni. Come se io non avessi già abbastanza di me stesso cui dare spiegazioni.
La testa mi duoleva ancora. La notte era stata breve ed intensa, sempre con un filo di luce soffusa a disegnare le forme dei nostri corpi sulle pareti. Nella’aria si diffondevano le tristi note di tromba che continuavano ininterrottamente senza che nessuno di noi si fosse accorto di quando fossero iniziate. Il disordine regnava su ogni cosa rendendo il tutto molto più vero di quanto in realtà potesse sembrarci. Sul comodino, avanzi scomposti di una cena da asporto conferivano alla situazione quella fugacità che prima era nascosta solo all’interno della nostre menti. L’incontro degli sguardi di due persone è uno dei soggetti più ritratti in pittura. Con i colori tenui e caldi della stanza, quella sera si era compiuta la più grande opera d’arte al mondo che nessun pittore sarebbe più stato in grado di ricreare. Seduti sul letto, in posizione che in altre circostanze sarebbe da meditazione, uno di fronte all’altro respiravamo il profumo delle nostre parole.
“Cosa è successo? Perchè?” suonarono come dolci note le sue parole nella mia testa.
Il silenzio si impossessò delle nostre menti come la luna della notte. Quella sera nessuno si incaricò di controllare la luna. Nessuno di noi due sapeva se oltre le persiane chiuse e scrostate della finestra ci fosse la pioggia od il sereno, se per strada qualcuno stesse camminando sul marciapiede od attraversando sulle strisce pedonali. Nessun rumore esterno si affacciò, per tutta la notte, alla nostra vita in stallo; solo quel sottile suono di tromba, ormai naturalizzato, faceva parte di noi. Faceva parte della situazione con la stessa importanza che in quel momento aveva lo specchio alla parete od il tappeto sotto la sedia oppure la bottiglia rovesciata accanto al letto. Tutto quello che ci circondava riempiendo la nostra vita, in quel preciso istante, apparteneva, come il sette di quadri od il fante di fiori, al fragile castello di carte che, delicatamente e pazientemente, avevamo man mano costruito nel corso di quella notte. Se qualcuno avesse voluto, inspiegabilmente, raccogliere i nostri vestiti dal freddo pavimento oppure spostare, seppur di poco, la sedia dal muro, ecco che tutto sarebbe scomparso. Tutto quello che stavamo vivendo sarebbe svanito in un baleno come il sogno interrotto dal suono della sveglia o dal cinguettare degli uccelli in una mattina di aprile. Tutto si sarebbe consumato alla stessa velocità di una meteora o di un battito di ciglia lasciandosi alle spalle, nel migliore dei casi, un vago fumoso ricordo frantumato in statici fotogrammi.
“Mi puoi dire solo il perchè?” furono le altre parole che vellutatamente fuoriuscirono dalla sua bocca e delicatamente si sovrapposero alle note della triste suonata ininterrotta. Dopodichè ancora una armonica ed inverosimile staticità ricominciò a cullare le nostre anime.
I nostri corpi, ancora nudi, godevano del calore accumulato nei lunghi momenti trascorsi, permettendo di mantenerci immobili l’uno di fronte all’altra.
Nella stanza risuonò il mio respiro che, fattosi più greve, creò la circostanza per le mie poche parole “perchè sprecare questo momento?”.
E nella stanza tutto tornò come prima. Le tristi note della tromba si rimpossessarono del silenzio. Il disordine regnava ancora indiscusso su ogni cosa appartenente alla stanza. Noi due ancora immobili e silenziosi sul letto. Dai suoi occhi, due diamanti luccicarono scendendo sino alle labbra senza che il viso le si scomponesse. L’unico moto che potesse mantenere integra l’armonia all’interno di quella stanza si era appena consumato senza nemmeno sapere se fuori la luna fosse affacciata sulla città.

lunedì 5 marzo 2007

l'era glaciale

quando mi annoio pulisco la mia tastiera dell. ho uno spray speciale di aria compressa con una punta di plastica allungata a mo' di cannuccia che riesce ad infilarsi tra un pulsante e l’altro. col tempo ho accumulato una certa esperienza: infilo l’erogatore in un angolo della tasitera poi la sollevo capovolta a circa 45 gradi dal tavolo bianco e sparo aria compressa fino a che non mi si gela la mano attaccata alla bomboletta. una reazione chimica di cui probabilmente conoscerei la definizione scientifica se avessi approfondito studi in materia. io la chiamo era glaciale. durante questi pochi secondi culminanti nell’insensibilità dei miei polpastrelli vedo cadere sul tavolo e prendere vita graffette, capelli, polvere ed avanzi dei miei pasti. un giorno è uscito anche un brandello di prosciutto. era del panino del lunedì precedente con rucola, mozzarella ed il, già ricordato, prosciutto crudo. la tastiera conserva le memorie dei miei giorni e l’era glaciale prova a cancellarle. proprio come successe ai dinosauri, almeno una volta alla settimana una ventata fredda fa tabula rasa nella mia postazione di lavoro ottimizzando le prestazioni della tastiera. a volte penso che se non mi annoiassi la mia tastiera sarebbe piena di schifezze e, probabilmente, rotta.

venerdì 2 marzo 2007

le patate al selenio dell'uomo radioattivo

probabilmente vi hanno parlato di me come l’uomo radioattivo. probabilmente vi siete sempre domandati dove vivessi e chi frequentassi. ero il classico amico del cugino. una leggenda metropolitana ingigantita dai disegni nei bagni dei licei e della paresse. qualche colonna di via del pratello parlava di me, figuratamente. invero c’era qualche linea scritta che riportava più o meno fedelmente fatti miei. sorpassavo quelle prove della mia esistenza col passo veloce per paura di essere riconosciuto. ma pochi conoscevano la mia faccia. solo quelli che avevano seminato come erbacce le prove inconfutabili del mio passaggio. e queste erano cresciute come le radici delle patate che io consiglio di tenere in un posto buio ed asciutto e comunque consumare al più presto. magari farne una purea, friggerle o infilarle nel forno con aglio in camicia (precedentemente perforato con forchetta), olio ed un po’ di rosmarino e sale aggiunti a metà cottura. e non stupitevi, lo so che è la stessa ricetta di quell’amico di vostro cugino. quello che vi parlava dell’uomo radioattivo.

giovedì 1 marzo 2007

tartarughe e vibratori (ed altri oggetti e situazioni futili e di poco conto)

il timbro sul tavolo va dal 1998 al 2009. il 13 parte da via Normandia ed arriva a Ponte Savena. poi compie il tragitto inverso. Valentina osserva Marco davanti ad una pagina riempita solo di un cursore lampeggiante alla fine della frase “amo i supermercati”. una parte della sua collezione di tartarughe le pascola tra il monitor nero ed il telefono. c’è anche quella piccola di giada regalatale da Pat. Pat l’aveva usata per testare i preservativi max pleasure, una serie di vibratori ed una maschera per il bondage comprata a Parigi. poi se ne era andato con la scusa della morte falciato da una punto. le era rimasto solo qualche vibratore. dopo Pat, c’era stato Franco che faticava a competere col di lei campionario di incursori colorati. però era simpatico e bello. andavano spesso a cena fuori e facevano sesso regolarmente una volta alla settimana. il sabato sera. passato franco c’erano stati Mirko, Matteo e Stefano. ma non le avevano lasciato nessuna tartaruga, tantomeno un vibratore. Valentina avvicina la tartaruga di giada allo schermo. davanti alle altre. il Guess Lady codice 10547L1 al polso le racconta che alle ore 14 e 54 si aggiunge un secondo, poi un altro poi un altro. Marco rimane immobile davanti allo schermo. dorme.

spesso capita che a bologna gli autobus arrivino in ritardo

ho copiato questo racconto da una raccolta che sfogliavo annoiato a casa di matteo. certo sarebbe stato più facile fotocopiarlo o ritagliarlo da una pagina internet cliccando il tasto destro del mouse o premendo ctrl ed x contemporaneamente. avrei risparmiato sicuramente tempo e cristina non si sarebbe spazientita chiamandoci alle tre e quarantasette, quando avevamo già accumulato diciassette minuti di ritardo. aspettammo di accumularne venti prima di uscire.

l’aria di aprile era composta del solito azoto, ossigeno, argon, diossido di carbonio e qualche altro additivo cancerogeno. in pieno centro storico avevano recentemente aperto l’ennesima pizzeria da asporto. in periferia passava una auto targata AC 919 DT, non catalitica. poi una punto. cristina davanti a feltrinelli ripassava le vetrine cercando di ricordare la differenza tra leucoplachia e l'eritroplachia.

consci del fatto che quando si ha bisogno un taxi non lo si trova mai, io e matteo non ci stupimmo tanto dei numerosi taxi incrociati quanto della mancanza di autobus. poi passò il 13 mentre proseguivamo a piedi per via rizzoli. qualcuno si lamentava col conducente per l’interminabile attesa e noi, simpatizzando con l’autista, accelerammo il passo. raggiungemmo cristina con un ritardo complessivo di 35 minuti.