lunedì 21 febbraio 2011

Una vacanza di cui conservo qualche appunto

Mi interessai ai viaggi nelle città d’arte perché non sapevo dove andare in vacanza. Perché avevo una costituzione troppo incerta per le sfilate da spiaggia con boxer attillati Sundek. E poi non mi piaceva parlare di calcio e giocare a beach volley. Chiaramente questo succedeva parecchio tempo fa. Prima del beach tennis e degli aperitivi. Quando il massimo era un pallone mikasa di più colori ed una canzone da discoteca presentata al Festivalbar. E le serate a passeggiare avanti e indietro. Incrociando le stesse facce ancora ed ancora. Abbozzando sorrisi. Inventando sfumature della propria identità. Parlando concitatamente di discorsi fatti.
E quindi quell’estate partii. La destinazione era una Valencia che aveva ancora il sapore etnico della Spagna. Dove nessuno parlava inglese e dove tutti conoscevano Eros Ramazzotti. Era un posto dove mio padre aveva un fantomatico amico che mi poteva ospitare. Che mi era venuto a prendere con la sua Audi 80 che sapeva dei sigari toscani che non si stancava di accendere. Con quel suo mento quadrato e diretto che spuntava dal collo grasso ad esigere attenzione.
Avevo detto “hola” e lui mi aveva abbracciato. Avevo alla base del naso una colonia austera e grigia, venata di azzurro cielo. Un odore che ricordo ancora oggi senza riuscire a confinarlo in nessuna marca e modello di profumo.
Sarà che da Douglas non si respira.
Sarà che non compro profumi se non da donna a Natale. Quando so bene marca e formato.
Sarà che non è che mi interessi così tanto.
Quel giorno quindi, mentre immaginavo tutti i miei amici dentro le loro auto familiari bianche con un frigo Giostile seduto accanto sui sedili dietro, vedevo correre fuori dal finestrino i tori della pubblicità del Veterano Osborne. La radio cantava canzoni melodiche di cui capivo solo la parola “amor”. Josè si accendeva un altro toscano chiedendomi in italiano come stava mio padre.
Risposi: “bene”.
Lui mi corresse: “In Espagna se dice: bien”.
Provai a sorridere ma non era molto importante.
Mi rimisi a guardare gli edifici bassi passare.
La domanda che mi ripetevo per tutto il viaggio su quella strada incredibilmente dritta che avrebbe potuto atterrarci un aereo era cosa avrei raccontato al mio ritorno.
In quel momento capii che dovevo iniziare ad inventarmi una storia. In quell’appartamento al 3 piano che sapeva tanto di abuso edilizio tanto il sapore del mare entrava in camera iniziai a scrivere quel giorno stesso e passai quasi tutto il tempo ad appuntare particolari più o meno veri da raccontare al mio ritorno.
L’amico di mio padre mi guardava con il suo sigaro in bocca e parlava con la moglie. Aveva il tono complesso di chi non ha deciso se andare al cinema o noleggiare un dvd. Probabilmente parlavano di mia madre.
E quindi ho riempito blocchi a quadretti di particolari.
Un vaso di fiori che contiene gerani e sigari piegati.
Un piatto di riso condito con passata di pomodoro e banane fritte.
Un ascensore con degli specchi al posto delle pareti.
Un cameriere dall’aria triste che parla in italiano.
Un canale dove fanno dei film bellissimi la domenica pomeriggio.
Il significato delle parole: “cuídate cariño”. Che sanno di affetto e di capelli tinti di biondo.
Il sapore delle noccioline fritte in padella con il sale grosso.
L’amore per una strada che mi ricordava tanto casa.
E alla fine sono tornato ed a nessuno interessava sapere quello che avessi fatto.
Si parlava solo del calciomercato.
Per fortuna poi ho trovato il modo di riutilizzare tutti i miei appunti.

lunedì 14 febbraio 2011

Amiamoci

È una maglietta con un cuore disegnato che mi fa ripensare a te. A quel regalo di alcune taglie di troppo. Al tuo sorriso ed al tuo: “bè, la metterò per andare a dormire. Che è pure meglio così”. Non avresti mai cambiato un regalo allora. Specie un regalo del genere. Quel tipo di regali di cui ero così certo che non mi curavo nemmeno della tasca in cui avevo sepolto lo scontrino. Avevi un sorriso tra i denti che era allusivo come lo riesce ad essere una quindicenne che non perde una puntata di Sex and the City. Ed io mi sentivo fortunato in quella stanza all’ultimo piano. Con la finestra che dava su uno spazio di ruderi incontaminati. Lasciati alla loro naturale implosione, quasi Dio si fosse dimenticato di loro. Quelle costruzioni abbandonate mi piacevano, specie dopo una nevicata intensa. Mi sembra anche di avertelo detto una volta o l’altra. Mentre ascoltavo il tuo odore invece che i tuoi discorsi, quando parlavo solo per rendermi conto di esistere. E ci guardavamo i piedi seduti sul bordo del letto, con la porta chiusa a chiave. Una porta tanto sottile che lasciava passare il suono da pane che si fa dei programmi che tua mamma guardava in televisione mentre stirava nell’altra stanza. Ed io che sapevo che in fondo non mi piacevi, e tu che lo avevi sempre saputo.
Quel giorno mi ricordo di averti detto: “Amiamoci”
Tu avevi risposto orizzontale: “perché no?”
Ed è da allora che continuiamo a rovinarci la vita.
Ma per lo meno tu avevi delle tette davvero grosse.