martedì 13 marzo 2012

Un ragazzo vestito tale quale a Jude Law


Non parlerò di David Foster Wallace, però ammettiamolo cazzo di non essere poi così giovani. Inutile che nascondiamo dietro felpe stile Abercrombie e jeans stretti. Non possiamo tenere per sempre il respiro. O meglio quando lo faremo poi non ci sarà altro. Nemmeno vestirsi come non si voleva apparire al liceo. E poi questa passione per il fitness, il bio ed i telefilm che una volta avremmo chiamato telenovele. Siamo solo la copia della copia della copia di quello che ci vomitano dalla rete col pollice alzato di Facebook.
Aspettate.
Prima che siate voi a dirlo lo ammetto: questa frase penso di averla copiata da qualche parte. Visto che qualcuno sicuramente controllerà su Wikipedia mi può cortesemente dire da dove l’ho presa che saranno 5 minuti buoni che ci penso e proprio non mi viene. Penso di averla rubata da un film perché mi suona come se qualcuno me la stesse dettando. Non voglio dire ora che sento le voci, tantomeno quella di David Foster Wallace. Anche perché con l’inglese non me la cavo oltre il porno.
A questo punto potrei anche iniziare con la storia che mi sentivo di raccontarvi con questo ragazzo di appena 35 anni come protagonista che passeggia con l’a stessa aria trasandata delle foto di Jude Law sulle pagine della repubblica.it. È convinto che qualcuno lo stia notando ed approvi fortemente da lontano. E questo lo fa stare bene. Ed è convinto di essere l’unico a leggere la repubblica.it dal suo smartphone. E si togliesse quelle cuffie gigantesche dalle orecchie che per ascoltare i Vampire Weekend bastano quelle scassate che regalavano sui treni in spagna quando si faceva l’interrail. Chissà se ora è di moda? Potrei avvicinarmi a questo ragazzo che cammina con l’aria schiva di chi è una star del cinema e chiederglielo. Oppure potrei collegarmi in rete e vedere le mode del momento su un social network e magari comprare anche qualcosa su Groupon. Perché no? Sarebbe bellissimo, se solo la mia rete 3g prendesse. Lo sapevo che dovevo comprarmi l’iPad.
L’avrebbe voluto anche David Foster Wallace. Se solo non fosse morto. Allora sì che ne potrei parlare male.

domenica 11 marzo 2012

de spiriti aëre - l'elibro

porta sestavocale sempre con te, scarica l'ebook!
finalmente potrai portarti i racconti da bagno anche sul tuo dispositivo mobile. questo vuol dire leggere de spiriti aëre anche nel bagno dell'ufficio, in quello dell'autogrill ed in quelli dei disco pub dove accanto a te si pratica sesso estremo di ogni genere.
lo sappiamo che aspettavi questo momento.
clicca quindi sul formato che preferisci e preparati a questa nuova incredibile esperienza: epub per praticamente tutti i telefonini, tavolette e lettori vari escluso il kindle che si legge solo questo file MOBI.

"è incredibilmente figo avere questo ebook" - Gaetano Barbischi

mercoledì 7 marzo 2012

Catacrési

Ho le palpebre che mi pesano come borse della spesa piene. Ho sonno. Ma è un sonno strano. Un sonno che la metà basterebbe per farmi dormire una settimana. E invece niente, dormo quasi niente. Non capisco perchè ma nelle ultime settimane non sono mai riuscito a dormire, non dico bene -troppa grazia-, ma almeno decentemente. Non sono mai riuscito a fare una sola notte tutta una tirata: sette ore filate di sonno come dio comanda, quello in cui cadi stremato appena appoggi la testa al cuscino e dal quale ti riprendi solo al mattino, con la prima luce del giorno che ti accarezza la fronte. Quel sonno ristoratore che uno sbadiglio basta per smaterializzare e restituirti la forza necessaria per riprendere il ruolo che ti appartiene nella vita. Invece, cazzo, no. Continuo a svegliarmi la notte. Ogni mezzora, ogni ora mi sveglio, vuoi per pisciare, per trovare una posizione più comoda, per il caldo, per i rumori, per qualsiasi dannata scusa. E anche in quei pochi momenti in cui riesco a prender sonno, il sonno si mantiene fragile, leggero. E' un sonno sottile come una foglia secca che ad ogni colpo di vento viene spinta via e volteggia per ore nell'aria prima di riposarsi.
E la mattina? Meglio non parlarne. La mattina sono in uno stato catatonico dal qualle non riesco a riprendermi. Confido inutilmente prima in una boccata d'aria frizzante poi nel caffè scuro e forte. Niente. Il torpore mi rimane addosso come un'ombra per tutto il giorno. Un sacco che mi porto cucito addosso. Una zavorra che mi rende più faticoso ogni passo, ogni attesa, ogni ragionamento, qualsiasi cosa abbia da fare. Il mio livello di attenzione, la mattina, è assimilabile a quello di una goccia d'acqua che distratta finisce per perdersi in mare. L'unica cosa in cui mi sento di confidare è che la sera arrivi galoppante e mi conduca in groppa fino al sonno più profondo. Ma la mattina è lunga.
La sera, finito il lavoro, arriva lenta e con passo pesante mi accompagna al treno. In stazione, in mezzo alla gente piena di un'energia a me sconosciuta mi sento emarginato. Per tutto il viaggio appartengo alla tappezzeria del vagone. Bene mi mimetizzo con l'arredo spoglio e triste della carrozza. Non conosco nessuno di quelli che mi circondano ma so con precisione la stazione in cui ciascuno di loro è salito e quella in cui a breve scenderà. So con certezza come ognuno di loro vestiva ieri e quali progetti aveva per la serata passata. Provo a chiudere gli occhi ma in quella notte artificiale il sonno non arriva. Non mi sfiora nemmeno. Le stazioni intanto passano, i compagni di viaggio si alternano: salgono, parlano, si salutano e scendono. Io, da dietro gli occhi chiusi, vigilo su tutto e tutti come un dio ficcanaso che c'è anche se non se ne percepisce la presenza. La mia fermata arriva solo quando la carrozza si è ormai vuotata. Scendo stancamente portandomi appresso stanchezza e malumore maturati in una giornata intera di desideri inappagati.
Nel tragitto verso casa le luci delle auto mi abbagliano i pensieri, i cani delle signore avvertono il mio disappunto e mi girano alla larga. Le persone che incontro mi leggono negli occhi la stanchezza tramutarsi in rabbia e distolgono lo sguardo. Sento che qualcosa sta succedendo. Ad ogni passo la stanchezza lascia il posto ad un sentimento strano, ad una sorta di insofferenza indifferenziata verso tutto quello che mi circonda. Il palazzo dove abito si materializza dietro l'angolo, oltre il semaforo, quello che non diventa mai verde.
Le chiavi del portone faticano a girare nella serratura. La buchetta della posta trabocca di pubblicità. Rigurgita carta nuova che finirà dritta nel bidone della differenziata senza essere stata degnata di un solo sguardo. Carta che mi indispone anzichè lasciarmi indifferente. Carta che senza resitenza si arrende alla forza della mia mano e si lascia appallottolare lasciandosi dietro solo un flebile lamento che non mi soddisfa. Salgo le scale con in testa un ronzio insopportabile. Varco la soglia chiudendomi veloce alle spalle il mondo con i suoi colori, le sue luci, i suoi rumori, ritmi e odori. Bum.
Un sorriso dolce mi accoglie nella penombra. Due braccia leggere mi cingono il collo e alle orecchie mi arriva un delicato bentornato. Gesti inaspettati che prendono forma in una sostanza che sa di sogno. Il suo profumo, le sue parole, la sua presenza mi confortano e il tutto che d’un tratto si concentra, sovrasta e riempie il niente. Forse una preghiera ascoltata o un desiderio esaudito? Non fa differenza. Tutto inaspettatamente comincia a recuperare un senso, a riconquistare un significato.
Un silenzio leggero e voluto ci circonda come una melodia opportunamente creata per l'occasione.
Dimmi che non andrai più via da me.
Quando me ne andrò, tu sarai con me.

domenica 4 marzo 2012

Birra, poesia e sigarette

Io non me ne intendo molto di poesia e nemmeno di donne però sia la poesia che le donne mi piacciono e mi commuovono. E parecchio. Anche la birra a dire il vero mi appassiona ma, per fortuna, questa mi conforta.
Stasera Viola se ne è tornata in camera presto, molto prima del solito chiudendo tutte le porte ad ogni mio desiderio. E se la bocca può tacere, lo sguardo non può nascondere. Ho capito ma cerco di fare come se niente fosse. Non so perchè ma è come se non volessi accelerare i tempi. Ho salutato e me ne sono stato tutta la notte a contare le stelle filtrate dal vetro del bicchiere improvvisando poesie. Roba adolescenziale a cui, certe volte, non so resistere ma che mi guardo bene dal fare agli occhi della gente. Non tanto per una reputazione da difendere quanto piuttosto per il mio forte senso del pudore. Intendo dire che potrei tranquillamente girare nudo per la città ma non potrei mai pisciare per strada.
Butto giù l’ultimo sorso di calda birra sgasata aspettando che l’alba stanca mi bussi alla finestra per mettermi a letto ma, come tutte le donne che si rispettino, anche lei ama farsi desiderare e io francamente mi sono rotto le palle.
Le attese mi snervano, mi lasciano troppo tempo per pensare. E quando penso, il più delle volte lo faccio cercando di capire cosa avrei potuto fare di meglio e che invece puntualmente non ho fatto. Ecco: l’attesa mi genera senso di colpa che è forse l’unica cosa che non mi serve ora come ora. Ho già un sacco di problemi molto più concreti su cui sbattere la testa.
Il silenzio della città alle cinque del mattino è surreale, ha un che di giapponese. Niente sushi, sashimi o tempura. Parlo di quel genere di silenzio totalizzante, quel silenzio anestetizzato che mi fa pensare al Giappone. All’alba di Fukushima il 12 marzo, di Hiroshima il 7 agosto, Nagasaki due giorni dopo o comunque di un negozio di Muji a Milano nel giorno di chiusura. Fatto sta che alle cinque del mattino la città sembra un presepe evacuato. Ha un suo fascino, un suo perchè.
Mi asciugo le labbra lasciando una scia scura sul polso del maglione e mi soffermo cercando il più possibile di non pensare. Alla fine non ci riesco del tutto e quello che rimedio è una riflessione: il silenzio è un ottimo compagno di bevute anche se non ti dice mai quando è ora di smettere.
Schiaccio e la fiamma mi accende la faccia. Un brivido alla schiena accompagna il primo tiro mentre mi svuoto i polmoni di grigio denso fumo attraverso il quale cerco le luci del mattino. Sono sul balcone e domino la strada deserta. Mi aspetto odore di pane fresco appena sfornato, il primo tram, un vecchio che alza la tapparella o una mignotta che se ne torna a casa sfinita. Invece niente, nulla di tutto questo. Sono immerso in un acquario vuoto Sono in vacanza in un campeggio abbandonato. Presidio disarmato l’avamposto dismesso reduce della mia guerra fredda.
Sotto di me l’insegna incerta del finto ristorante giapponese lancia lampi intermittenti sul palazzo di fronte. Io so distinguere i cinesi dai giapponesi come so anche riconoscere un norvegese da uno svedese guardandogli solo i polsi. E so per certo che quelli sotto di me non hanno un solo atomo di giapponese. Un pò di cenere si stacca dalla brace e un alito di vento la fa volteggiare leggera verso l’alto. La seguo per un pò fino a che non si perde svanendo nell’aria e mi ritrovo con lo sguardo perso nel cielo. Un cielo pieno di stelle.
Non è vero che in città non si vedono le stelle. E’ una stronzata da Baci Perugina per improvvisati romantici o per latin lover da due soldi fuori stagione. Roba da Celentano che cerca di intortarsi le tipe raccontando che ora gli hanno asfaltato il prato dove è cresciuto. Basta buttare gli occhi in alto e soffermarsi qualche secondo persi nel buio per accorgersi che pian piano, come lampadine a risparmio energetico, anche le stelle si accendono fioche, delicate.
C’è chi nelle stelle ci vede il destino, chi le usa come confessore o chi ci legge le previsioni del tempo, chi ci disegna leoni, tori o arieti. Io non ho fantasia e nelle stelle non ci vedo niente di speciale, solo illuminarie non soggette ad alcuna stagionalità. A dirla tutta, non mi ci sforzo nemmeno troppo per trovarci qualcosa ma mi limito a guardarle e questo mi basta.
Poi finisco la sigaretta e con il fumo svanisce anche il mio interesse per il firmamento. Tutta la mia poesia d’un tratto implode come un vecchio palazzetto dello sport lasciando dentro la mia testa solo macerie e rimpianti. L’unica cosa che stoicamente persiste come una macchia di unto è la voglia di stapparmi un’altra birra mentre Viola, composta e discreta anche nel sonno, continua a percorrere la sua strada alla ricerca del modo migliore per non farmi soffrire.