lunedì 21 luglio 2008

Aspettando l'ora di pranzo

Il muro decrepito che circonda il cantiere, tra brandelli di manifesti sopravvissuti alle atrocità del tempo ed alla caduta dei calcinacci, recita, con una stanchezza degna d’un pomeriggio afoso di luglio, alcune parole che non ricordo dove ho già letto: la differenza tra un intellettuale e un operaio? L'operaio si lava le mani prima di pisciare e l'intellettuale dopo.
Penso a chi potrebbe aver riportato quelle parole sul muro e mi sforzo inutilmente di ricordare chi le avesse rese note. Non ho più voglia di bere, è tardi, ma il sapore dolciastro di carne avariata che mi alberga la bocca spesso arriva fino al naso e mi da fastidio. Mi fa schifo. Sputo ma non serve a nulla. Aspiro ampie boccate di aria tiepida che del glicine o del sambuco ha poco ma ristora ugualmente un poco i miei polmoni.
Penso ad una birra fresca e gocciolante. Aumenta la salivazione. L’insegna del bar dall’altro lato della strada deserta ha un neon blù intermittente. Annuncia la sua fine a breve. Sono tentato di scommettere con me stesso sul momento esatto in cui accennerà per l’ultima volta ad un breve lampeggio. Mi concentro e mi dico che, per dieci a uno, quel neon non durerà più di due giorni. Soddisfatto, quasi come se due giorni dopo fossi ancora là sotto ad aspettare, ed il neon improvvisamente, non per me, avesse smesso per sempre. Avrei intascato la mia vincita e mi sarei rimesso in cammino. Ma al momento non ho a disposizione due giorni da dedicare al neon e soprattutto la porta del locale sembra chiusa da un bel pò di tempo.
Penso, se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Non mi degno di darmi una risposta e riprendo la mia strada. In lontananza percepisco lo stridìo metallico delle ruote di un treno sulle giunture delle rotaie scandire la notte come le stelle ordinano l’universo. Unisco, tracciando con il pensiero brevi segni, alcune centinaia di stelle cercando sempre di leggerci qualcosa di nuovo, spesso alla ricerca di un buon auspicio. Ringrazio una nuvola che passando cancella tutte le mie geometrie celesti e con questa svaniscono i miei sogni di gloria. La ferrovia corre poco distante ma il vento probabilmente spira verso est allontanando ed attenuandone il rumore.
Penso ai viaggi fatti e soprattutto a quelli che farò, non so quando, forse domani, forse mai. Vorrei incontrare qualcuno, meglio se un animale, qualche essere che si limiti a starmi vicino e guardarmi con occhi pieni di compassione e misericordia, gli occhi di un cane randagio o di un gatto di periferia, di un gufo metropolitano. Invece nessuno. Lunghe ed alte file di lampioni in un rapporto di uno sano tre fulminati mi anticipano, mi seguono ed accompagnano fedeli al mio fianco come un cane zoppo portato al guinzaglio.
Penso a Don Chisciotte, Robert Jordan, Winston Smith, Jackson Pollok e Michael Jackson. Realizzo che i primi tre non sono mai esistiti. Due di loro sono morti pur non essendo mai esistiti. Alcuni pazzi ritenevano che il quarto fosse matto mentre l’ultimo potrebbe non essere mai esistito o morire da un momento all’altro e la mia vita sono certo che non si sposterebbe di un centimetro. Evito una traccia di presenza umana nella sua forma più ancestrale e per questo ben riconoscibile. Avverto la presenza dell’uomo ed allungo il passo. La sconfinata periferia non sembra accennare nemmeno per un momento ad una smorfia di stanchezza. Metallica e cementata, dai lineamenti tirati e severi, acciaccata nei vetri, nei muri e nelle recinzioni, la periferia industriale ha tutta l’aria di una salma imbalsamata, di un Lenin transurbano, dimenticato e scomodo da non esibire ma al contrario nascondere, sotterrare. Due macchine buttate lì, addosso ad una muraglia di mattoni un tempo rossi, con i finestrini infranti, le gomme a terra e la vernice slavata han ciuffi d’erba selvatica che spuntano da ogni anfratto. Calcio una lattina di birra lontano come fosse la mia vita ed il suono metallico rimbomba nella via alzandosi al cielo e disperdendosi troppo velocemente. Ne rimane solo un vago ricordo nella mia mente, archivio umano vivente di emozioni, fino all’attimo successivo in cui una sirena, con il suo grido liquido, rompe la notte. La ascolto e mi convinco.
Penso che devo partire, devo decidermi a partire. Ho maturato delle certezze, ho delle convinzioni sulla vita che mi spetta se dovessi rimanere qui, in questo non luogo a vivere questa non vita, ad aspettare le nebbie ad offuscare un pò la realtà rendendola meno terribile.
Penso al fumo di Londra, al marmo di Berlino e Vienna, alla erre moscia di Parigi, alla San Francisco beat, al Mare Mediterraneo, ai geyser islandesi, agli immigrati di Nuova York, alle ostriche della Normandia, alla Nike di Samotracia, ai leoni africani ed alle tigri di Mompracem, ai treni dell’Orient Express, all’Oceano Indiano, ai canguri di Camberra, all’aurora boreale in Alaska, al Malecon all’Avana, ai fenicotteri rosa, alla Nieva ghiacciata di San Pietroburgo, agli elefanti ed alle vacche indiane, alla Roma dei sette re, ai giardini zen in Giappone, ai clacson di Città del Messico, alle isole di totora del lago Titicaca, alle falde del Kilimangiaro ed alle cataratte del Nilo, alle due Santiago, all’elevatore di Lisbona, alle cicogne di Salamanca, alla Polinesia di Gauguin, ad Hagia Sophia ed ai mille nomi di Istanbul, alla Guinness irlandese, ai laghi canadesi, alla Terra del Fuoco ed alle isole Svalbard...
Penso a me e mi chiedo quanto manchi all’alba. Sono ore che vago per questa periferia incontaminata da ogni forma di vita. Mi convinco che sia iniziata una nuova era postatomica in cui dovrò abituarmi all’idea di essere l’unico superstite. L’unico essere umano sopravvissuto alla morte del pianeta Terra. Arrivo alla conclusione che probabilmente sono semplicemente morto anch’io insieme a tutta la Terra. Non mi preoccupa più di tanto questo pensiero. Anzi, mi alleggerisce le gambe stanche dalle lunghe ore di cammino e la testa dai troppi pensieri, mi allenta la pesantezza sulle palpebre e mi attenua la fatica di respirare.
Penso a quanta gente sia morta fino ad ora, ai parenti, agli amici, alle grandi menti illuminate, alle pornostar dell'infanzia, ai sanguinari dittatori di ogni era, ai cantanti, ai calciatori dei mondiali vinti ed agli scrittori. Penso a tutti gli scrittori di sempre, a Miller, ad Orwell, a Calvino, a Thomas, ad Hemingway, a Delillo, a Kerouac, a Vittorini, a Bukowski, a Tolstoj, a Neruda, a Fante, a Ginsberg, a Corso, a Tondelli, a Pasolini, a Fenoglio, a Pessoa, a Prevert. Jacques Prevert, proprio lui, quello dell'aforisma sulla differenza tra un intellettuale e un operaio.
Già, ora mi sento meglio. Devo solo decidere dove andare.