lunedì 23 agosto 2010

Carla

C’è quest’aria umida che mi illudo di aver passato 20 minuti a correre. La maglietta appiccicata alla pelle seccamente fusa alle ossa. Senza tanti orpelli. Le sfumature sono tutte sul grigio e sembrano alternarsi le stesse auto. Ancora ed ancora. Con un ritmo digestivo bovino. Provo a memorizzare qualche numero di targa e neanche questo è semplice. Sono disinteressato. Non riesco a concentrarmi come in quei sogni in cui si passa da una ambientazione all’altra. Non necessariamente coerente. Io intanto aspetto vedendo consumarsi il fumo che esce dalla tazza che ho davanti. Ero certo Carla avrebbe tardato e ciononostante sono arrivato in anticipo. Diciamo che inconsciamente volevo familiarizzare con queste sedie in ferro nero e questo tavolino tondo dal piano in finto marmo. Consciamente avevo una voglia incredibile di vederla, un sacco di domande a cui avrei voluto risposte ed il bisogno di respirare il suo profumo contraddittorio.
Io e Carla ci siamo conosciuti per caso mentre due ragazzi litigavano sull’autobus. Non che questo significhi qualcosa è solo che ci pensavo. E quasi sempre quando mi trovo a ricordarla quella è l’immagine che mi viene in mente. Ci siamo noi accidentalmente seduti accanto ed io che mi ostino a non guardarla. A concentrarmi sulla stessa frase del libro che ho aperto davanti. Niente di veramente interessante. Quel giorno Carla aveva quel vestito estivo chiaro con una spessa cintura in cuoio marrone. E aveva quell’odore che mi inganno di sentire anche ora quando ormai è chiaro non arriverà.

lunedì 2 agosto 2010

Pernod

Ci illudiamo che le nostre vite siano interessanti. Che le cose che facciamo siano uniche. Che la nostra ragione sia l’unica ragione. Che le nostre idee un giorno cambieranno il mondo. Mangiamo biologico. Ci obblighiamo ad intraprendere letture concettuali. Narrativa filosofica o filosofia narrativa. Evitiamo di contestualizzare ogni qualsivoglia pensiero. Il contesto rende troppo tangibile, raffigurabile. Ed è questo che non vogliamo. Vogliamo essere l’antimateria positiva. Abbiamo scritto su qualche muro che l’inferno è qui, nel ghetto ebraico. E ci siamo sbellicati dal ridere. Poi ci siamo dichiarati postcontemporanei ma non troppo per mantenere le distanze. L’equilibrio precario che ci pervade è quello che lascia il sole appeso lì dov’è, quello che al mattino ti riempie i polmoni di umidità che quasi ti svegli per l’asma ma che risolvi girandoti nel letto a pancia in giù. Quello che ci interessa è tutto e ci rendiamo conto di conoscerne una parte infinitesimale. E sappiamo che quello che sappiamo è la verità, incontestabile fatalità della cosa stessa. Perché non c’è altro che la materialità dell’inconsistente. La pubblicità ingannevole che in realtà presenta un servizio a cui proprio non avevi pensato. A cui non bisogna fare a meno. Perché noi esigiamo la soddisfazione dei nostri bisogni. Cristo santo, è giusto così. Ce lo meritiamo per la nostra capacità di scindere e discernere la realtà imbustarla in categorie molli e volatili. Nuvole colorate in un cielo verde tempesta dal contrasto sospetto. Il sole che ci guarda come tutti i giorni con un orecchio su un morbido cuscino di colline verdi. Odore di colonia misto Pernod. E scrivere, scrivere a rotta di collo che ci capita di inciampare e farci male ai sentimenti. Come guardarsi allo specchio, sempre più vicino che inizi a vedere meglio i particolari del tuo volto, più vicino per capire perché, cosa c’è sotto fino a romperlo con la fronte. E poi sangue ed ambulanza. E domande, le stesse domande che ci ripetono continuamente. Perché lo fate? Che senso ha? Il fatto è che è una condanna, non ci si può tirare indietro davanti alla rivelazione dell’intelletto. Delle grandi cose che si avvereranno.