giovedì 30 dicembre 2010

Kubla Khan

Ti rendi conto che vai sempre più avanti. Sempre più oltre. E cosa cazzo importa? Cos’è quella sensazione del freddo che sbatte sul cofano della tua auto sopravvalutata per la quale non hai voluto sentire ragioni ne argomenti? Hai sottoscritto un finanziamento che ora ti schiaccia con l’incombenza della maxirata finale. E hai il suono del caffè ancora nelle orecchie più del suono di lei che ti saluta con una guancia ancora schiacciata sul cuscino. Con un solo occhio che prova di tenere aperto. In mezzo a questo blu tagliente da mattina invernale. Pensi ai cuochi giapponesi che tagliano il sashimi quando è bello freddo, quasi congelato, per fare delle fette sottili. Con l’odore di pesce fresco che rimanda al mercato sul porto di Cervia. Quello dove passavi tante volte in bicicletta senza fermarti, lanciando solo un’occhiata a quella barca ancorata che sembrava un galeone dei pirati. Uguale a quello della Lego che avresti tanto voluto un Natale di troppo tempo fa per contestualizzarne gli anni. Diciamo che andava di moda più o meno la stessa musica di merda che si ascolta adesso. E gli occhiali dalle montature ingombranti dai colori notevoli. La marca sempre quella: Ray Ban.
La porta dell’ufficio si apre senza grosse difficoltà e dentro fa più freddo che fuori. la domanda “cosa ci faccio qui?” ormai hai smesso di portela. Ciononostante non fai carriera, anzi, retrocedi avanzando con gli anni. Presto ti supereranno i tuoi cugini che la camicia non la portano solo nelle occasioni importanti. Che sanno perfettamente la loro misura di collo e taglia di pantaloni. Che fanno acquisti per coniugare l’essere con il sarò. Non come te che cerchi di sfuggire meglio che puoi dal freddo dell’Alaska. Quel freddo che fa i salmoni rossi, quelli che costano di più alla Coop. Quelli che quando li compri cerchi sempre la commessa più attraente e ci infili una bottiglia di vino che sembra decente. E paghi con la carta di credito che ti ammazza ogni 15 del mese, lasciando piombo nella boccata d’aria dell’ultima busta paga.
Il computer fa il solito suono di avvio che ti graffia dolce arpionandoti la schiena giù, verso la sedia finta imbottita. Consumata per te da chi ci sedeva prima che ha avuto le palle di alzarsi ed andarsene. Ma a te poi checcazzo te ne frega? Basta che passi questo freddo che ti congela anche le scarpe scamosciate estive ai piedi e basta avere la tua cazzo di idea geniale che sembra quasi ti l’abbia dimenticata in un’altra vita. Come quando si dimenticano le chiavi nell’altra giacca. Proprio uguale. Solo che quella giacca mi sa che te l’ha inculata qualcuno di meno scemo. Quindi batti sui tasti ed aspetti le sei. Come se tutto quello che scrivessi avesse un senso e non fosse semplicemente la cronaca di un aperitivo di vino allungato aspettando che il ristorante giapponese porti il tuo piatto di sashimi misto.
E poi un attimo, hanno suonato alla porta.

venerdì 24 dicembre 2010

Appunti che c’entravano col Natale e mi sentivo proprio di renderli pubblici

Al telegiornale ti spiegano che gli italiani preferiscono regali tecnologici. Roba di elettronica. A supporto della tesi c’è un bambino in un supermercato con una giacca aperta che lascia intravedere una sciarpa rossa ed una felpa con il disegno di Snoopy. Il bambino dice che quest’anno da Babbo Natale vuole una playstation. Dice che quest’anno è stato buono. E la madre lo conferma ad un intervistatore freddo chirurgico, professionale. La madre diciamo che è Uma Thurman in Kill Bill con un giaccone lungo in lana al posto della tutina gialla. Ha un sorriso da caminetto acceso ed albero addobbato con sobrie palle dipinte a mano.
Fuori ancora non nevica, c’è solo un freddo gesso che gratta su una lavagna.
In cucina tua madre ascolta la radio mentre sistema il vassoio degli antipasti.
Tuo padre è uscito da poco.
Intanto passa la pubblicità, ciononostante non cambi canale. Sei narcotizzato in quel limbo soffice e superficiale di consigli per gli acquisti e facili comportamenti stereotipati. Roba da totalitarismo, roba da non sentirsi imbarazzati quando si incontra qualcuno che non vediamo da un po’, roba che basta ripetere Buon Natale. E poi un sorriso. Sembra tutto così semplice che quasi dimentichi le incombenze e le bollette in sospeso dell’appartamento che dividi con Carlo. Ed il tuo lavoro di merda. E pensi ad altro. A Francesca più che altro, alla tua casella mail ancora vuota. E pensare che sei qui per colpa sua. Incastrato nella commedia del Natale in famiglia che si ripete pressoché invariata assieme alla Fabbrica del Cioccolato e Una Poltrona Per Due. Ogni tanto qualche nuovo personaggio si affaccia anche ma ha la consistenza della musica in filodiffusione nei supermercati. Ed il tuo interesse è per quello che hai nel piatto e nel bicchiere. Sarà anche perché le tue cene sono sempre più spesso fatte di surgelati ed aperitivi: retaggi dell’istinto alla sopravvivenza.
Cerchi nel telefono il numero di Francesca ma poi la linea torna allo studio e quello che hanno da dire in televisione è sicuramente più interessante di una spezzata conversazione natalizia con una ragazza che, esclusa la mail che ti ha mandato pochi giorni fa, non senti da anni.
Mentre la giornalista ti racconta le mete più gettonate per la settimana bianca ti arriva l’odore del brodo.
Ti ricorda che in fondo va bene così.
In fondo è Natale.
(E probabilmente Francesca sta scopando con qualcun altro)

martedì 14 dicembre 2010

Una triste storia... Berlusconi è niente al confronto

Solleticarmi con le dita le narici e frugarci dentro con selvaggia energia è sempre stato un piacere per me. Non solo in tenera età. Certo, con il tempo, quello che era iniziato come un innoquo passatempo si era trasformato in una vera e propria manìa. Anzi, ossessione è la parola corretta. Una strana forza magnetica attraeva le dita allle narici come la musica ipnotica di un flautista indiano richiama la testa del Cobra. Poi il naso ha cominciato a crescermi e le dita a farsi troppo esili e corte per raggiungere il piacere che provavo una volta ficcandomele tutte ben dentro. Così mi sono ritrovato un giorno, senza quasi rendermene conto, con un tratto pen rosso nel naso. Quale delizia riscoprire quella piacevole sensazione di un tempo... E in men che non si dica i tratto pen sono diventati prima due e, dopo poco, addirittura tre. Per narice, s'intende!
Farmi vedere in pubblico, intendo a frugarmi nelle narici come una ragazza fruga nella borsa in cerca delle chiavi del motorino, non mi metteva assolutamente a disagio. Era naturale. Lo facevo con estrema disinvoltura. Sul tram, in metro, in coda alle Poste, alle casse della Lidl, ovunque. O-V-U-N-Q-U-E. Anche al lavoro spesso non resistivo al desiderio di frugarmi le narici con le matite e le penne colorate che trovavo sulla scrivania e, pianin pianino, mi scivolavano inevitabilmente su per le narici.
Ho iniziato il mio percorso per smettere di mettermi le dita nel naso quando un giorno, per puro caso, il mio capo è entrato di soprassalto nel mio ufficio e mi ha beccato con tre tratto pen nella narice sinistra e due in quella destra, con la faccia estasiata. E si è incazzato. Si è incazzato maledettamente, al punto da intimarmi con voce perentoria che mai penso fosse uscita dalla sua bocca prima di quel momento: "sei licenziato. Non ti pago per cospargere di muco e caccole le penne dell'ufficio". Ho cercato di spiegargli mentre mi sfilavo uno a uno i tratto pen che non era quello il mio intento: farmi pagare per infilarmi le dita nel naso. Ho provato in ogni modo a togliergli quel triste pensiero di me, ovvero che fossi uno scansafatiche amante del fisting nasale. Ma non c'è stato niente da fare anche perchè forse, effettivamente, io lo ero un maledetto amante del fisting nasale! Ma d'un tratto qualcosa è cambiato. In un attimo una lama di luce ha tagliato orizzontalmente i miei pensieri. Un brivido mi ha percorso la schiena proprio mentre ero davanti al mio capo. Avevo preso per la prima volta consapevolezza della mia manìa. Della mia ossessione. Allora non ho trovato alternativa. Da sotto la scrivania ho istintivamente preso le forbici dal cassetto e, mentre lui mi fissava con gli occhi pervasi dalla delusione, mi sono tagliato tutte e dieci le dita delle mani. Gliele ho mostrate ancora grondanti di sangue dicendogli: "vede, mi deve credere, le dita non mi servono più. Ho deciso di smettere... non mi infilerò più niente nel naso, a partire dalle dita... che non ho più".
Ma niente. Irremovibile. La sua convinzione era più forte di qualsiasi mio tentativo di spiegazione. Cemento armato. Le mie parole svanivano sulla membrana fonoassorbente che foderava i suoi timpani con la stessa velocità con la quale i poveri moscerini si spiaccicano sul parabrezza di una macchina sportiva giapponese lanciata a tutta velocità su Viale Tibaldi alle tre e mezzo di una notte afosa d'estate. Infatti, dopo tre minuti mi si è presentato con una lettera di licenziamento da firmare. Non sapevo come farlo non avendo più un solo dito disponibile. Così mi sono preso una penna tra i denti e ho scarabocchiato in qualche modo la mia lettera di licenziamento con l'amaro in bocca. Forse anche quella penna prima era stata speleologa nelle mie narici e il sapore che ora avvertivo sulla lingua ne era solo una triste conferma.
Mi hanno passato una pensione di invalidità e la promessa di un lavoro in quanto categoria protetta. Prospettiva più rosea di quanto potessi immaginarmi. Dopotutto ho scoperto che le mani sono un pò sopravvalutate. Non sono poi così indispensabili nella vita. Quella voglia però non mi aveva ancora abbandonato del tutto.
Per il lavoro non c'era problema, sarebbe arrivato sicuramente ma se mi volevo trovare una ragazza non potevo certo continuare ad avvertire quell'istinto di autosoddisfazione nasale. Ormai avevo trent'anni. Mi sembrava giunto il momento di impormi con ferrea volontà sui miei istinti per non correre il rischio di passare per un malato di mente con il risultato che nessuna mi avrebbe filato nemmeno di striscio. E mia mamma avrebbe dovuto continuare a sopportare la felicità delle sue amiche che raccontano le gioie di figli sposati. Quindi ho deciso di smettere. Definitivamente.
Ma è dovuto trascorrere ancora un mesetto da quel giorno prima che, non dico sparisse, ma almeno si alleviasse il desiderio di stimolarmi le narici. Proprio come quando si decide di smettere di fumare. Uguale: c'è l'intenzione, poi viene lo sforzo e, alle volte, alla fine si ha il risultato. Quindi ho messo qualche annuncio in internet del tipo: "ragazzo romantico cerca ragazza disponibile" o "ragazzo serio cerca ragazza disponibile".
Inspiegabilmente le ragazze rispondevano all'annuncio con una velocità sconcertante. E finchè le ragazze accettavano di venire a casa mia non c'era problema di alcun tipo. Nessuno strano desiderio mi pervadeva in loro presenza. L'unica volta che mi ritrovavo a pensare all'esplorazione nasale pur restando chiuso dentro casa era durante i rapporti sessuali. Esatto, poprio mentre le scopavo. Ma penso fosse normale data l'analogia dei due atti; dopotutto qualcosa entra da qualche parte ed il risultato è più o meno lo stesso: piacere. Quando invece m'è toccato uscire (intendo camminare in centro per andare al cinema o al ristorante) con alcune di loro, ogni volta era una sofferenza disumana resistere al desiderio di infilarmi qualcosa nel naso. La tentazione era sempre e ancora troppo forte. Non vedevo rami che si sporgevano dalle piante ma enormi e gustosissimi cotton fiock nasali. Le antenne delle automobili parcheggiate in doppia fila erano invitanti dita androidi con cui grattarmi il setto nasale dall'interno. Per non parlare dei freni delle biciclette legate ai pali... Che dolorosa costrizione resistere a questi inviti.
Così una sera dopo essere rientato a casa dopo una passeggiata con Puffetta84 (questo era il suo nickname) ho preso la decisione di eliminare il problema alla radice, o meglio, alla narice. Ho preso un cutter dalla valigia degli attrezzi acquistata all'Ikea nella giornata più difficile della mia vita e, stringendolo tra i moncherini, mi sono tagliato via il naso. Di netto. Come Van Gogh anche se lui lo ha fatto con l'orecchio.

Nel secondo pensiero di questo racconto ho scritto innoquo con la q. Ebbene, so che è scritto sbagliato. Correttamente sarebbe innocuo. Perchè l'ho fatto? Perchè è quasi Natale e volevo farvi un regalo. Già, proprio così: un regalo. Per qualche effimero minuto vi ho regalato l'illusione di essere grammaticalmente migliori di me.

martedì 23 novembre 2010

Stitichezza

Ho passato gli ultimi tempi a guardarmi attorno ed ho rimediato solo male al collo. Sarà anche l’avvicendarsi delle stagioni, le foglie che cadono e la pioggia che lava tutto fuorché lo strato grigio di sporco dalla mia auto ma tutto quello che mi sembra cambiato è il palinsesto televisivo. E, a quanto mi dicono dal pubblico, siamo anche ad una svolta importante per i reality show. Ed io macero in questo brodo primordiale arredato con colori caldi pastello che ricoprono mobili in legno impiallacciato. Mi aggrappo ad una connessione ADSL flat per affermare la mia esistenza. Il mio essere aggiornato col mondo e parlarne la stessa lingua. Il fatto è che tutto quel che sento sembra uno squittio che alla lunga andrà tutto bene, alla faccia di John Keynes. Ed allora non mi muovo, inserisco in una ricetta il topinambur ed in un'altra la corcuma. E poi scrivo su un blog di quanto è liberatorio essere vegetariani.
Peccato che poi non vado in bagno da 2 settimane.

martedì 26 ottobre 2010

Noccioline

Anche quella sera a cena avevo la mia busta aperta di arachidi tostate davanti. In quel periodo vivevo in uno di quegli ostelli con la cucina in comune. Una sistemazione necessariamente minimalista e sterile. Il frigorifero era diviso in scompartimenti numerati e chiusi con un lucchetto che mi ero dovuto comprare. Il mio scompartimento aveva un numero 7 nero disegnato con del nastro isolante. Sapeva di Amuchina e dentro non c’era molto spazio ma io mi accontentavo di poco. L’importante era avere qualcosa da raccontare. Ed era questo che facevo tutto il giorno oltre al lavoro in magazzino: raccontavo storie. Passavo ore ad inviare mail. Avevo anche ripreso a parlare con Stefania tanta era la mia urgenza di comunicare. Mi sembrava che se non avessi preso appunti tutto quel periodo sarebbe stato effimero come il ricordo di un sogno che si fa sfuggevole fino ad evaporare con la giornata travisato dal sapore indeciso degli impegni.
Sabrina era felice delle mie mail. Mi rispondeva sempre, era una certezza. Era bello saperla lontana. Era tranquillizzante come i genitori in riva al mare che mi guardavano nuotare da bambino. Mio padre aveva le mani sui fianchi. In quel momento mi sembrava avesse tenuto quella posizione rigida tutta la vita. Senza spostarsi un minimo. Indifferente all’erosione del tempo.
Mio padre si era limitato a dire “buon viaggio” quando sono partito. Mi aveva abbracciato e lasciato 150 euro in contanti. Ricordo l’odore di colonia ruvida come la sua barba che ricresceva.

Quella sera Sarah aveva riso guardandomi ancora una volta mangiare noccioline. Mi aveva chiesto se era tutto quello che mangiavo. Avevo risposto di non aver voglia di altro. Lei aveva sorriso ed era tornata ai fornelli dove la sua pentola bolliva pasta scotta. Sarah veniva da Colonia, era arrivata poche sere prima e presto se ne sarebbe andata. Avrebbe trovato casa per i mesi successivi che doveva passare a Madrid e poi avrebbe terminato la sua laurea in Pedagogia in Germania. Negli appunti che raccoglievo per parlare di lei le frasi iniziavano con mi piacerebbe e vorrei. Di certo non erano adatti per la mail che volevo spedire a Sabrina. Magari ne avrei parlato con Carlo. Avrei aggiunto che aveva una maglietta azzurra e la portava disinvolta senza reggiseno, che passava i pomeriggi al parco a leggere libri spessi e che sapeva di sapone di Marsiglia.
Quella sera però non riuscivo a dirle niente. Mi aggrappavo alle frasi di circostanza che conoscevo felice del fatto che è più facile comunicare quando non si conosce bene una lingua comune poiché ognuno capisce ciò che vorrebbe sentirsi dire. E generalmente all’estero ci si sente più soli al punto che finimmo a bere le poche birre che ero riuscito ad incastrare nella mia porzione di frigorifero nel patio. C’era un tavolo di ferro verde e delle sedie in stile traforate da miliardi di buchi che sembrava avessero un senso. Sopra c’era il cielo. Un cielo vivo che mi sentivo di viverci. A milioni di anni luce dalla realtà. Dalla preoccupazione di non sapere cosa sarei diventato.

Poi è successo che sono diventato uno stronzo come gli altri e Sarah è rimasta solo un racconto che parla di noccioline.

martedì 19 ottobre 2010

Lara, oh mia dolce Lara

Avvertenze:
racconto incredibilmente lungo e a tratti dostojevskianamente noiso. Sconsigliata vivamente la lettura agli amanti di F. Moccia, Joe R. Lansdale, G. Morozzi o S. King.


"Sei sempre il solito. Aveva ragione Pierantonia mettendomi all'erta quando ti ho conosciuto... Sono stata una stupida a non averle dato retta. Sei solo un povero coglione smidollato che alla prima parvenza di difficoltà anziché metterci le palle si nasconde sotto la gonna... E adesso leva le tende, quando torno non voglio trovare la minima traccia, organica o inorganica che sia, della tua lurida presenza e poi... sì, poi vaffanculo! Ma dico io..." e blàblàblà.

Se il buongiorno si vede dal mattino, sono quasi sicuro che oggi non sarà da annoverare tra quelli. Potrei sempre sbagliarmi, dopotutto sono trent'anni che lo faccio, ma sentirsi appellare con “povero coglione smidollato “ e sentirsi mandare a fare in culo di prima mattina, mi lascia un pò perplesso. Se poi ci aggiungiamo il dolore lancinante alla testa che mi schiaccia il cervello e la trivella che mi perfora lo stomaco, bingo!
Sono le sette e qualche minuto, in soggiorno la luce filtra copiosa dalle tende che dovrebbero essere oscuranti e Lara ha appena sbattuto la porta del nostro (bè, temo che da adesso debba essere definito suo) bilocale dopo avermi gettato addosso parole di fuoco del calibro di... "Pierantonia".
Già, quella pazza nevrotica repressa sua excoinquilina che mi odia sin dal primo giorno in cui l'ho incontrata e le ho vomitato nel lavandino del bagno. Non avevo digerito gli spaghetti, o almeno questo è quello che le ho raccontato la mattina dopo. Comunque sia da quel giorno non fa altro che definirmi un pagliaccio, un vigliacco alcolizzato, un disagiato, un disadattato e attenzione attenzione, ciliegina sulla torta: un depravato... Quest'ultimo temo sia per colpa di una composizione, secondo me molto carina, che avevo allestito in camera sua quando, per il suo compleanno, Lara le aveva regalato un peluche di Hello Kitti. In un lampo di genio avevo così deciso di disporre tutti i suoi peluche più quello nuovo di Lara sul letto in modo da simulare un'orgia. Sinceramente trovavo l'idea simpatica e ironica, giudicate voi: Winnie the Pooh s'incaprettava una fattissima Hello Kitti (che se lo merita con quell’espressione beota) mentre il panda della Trudi (Re indiscusso del Regno Onanista) si spippettava orgoglioso godendosi lo spettacolo in compagnia del vogliosissimo Hello Spenk che praticava una allegra fellatio (si legge fellazio in quanto è un termine latino) al buon vecchio Re Leone. Maledetta fervida immaginazione... non l'avessi mai fatto! Aprti oh cielo, quando Pierantonia l'ha visto ha cominciato a dare in escandescenza. In realtà sapete cosa vi dico? Lo dico piano perchè se mi sentisse Lara correrei il rischio di esser denunciato all'Ordine degli Psicologi per abuso della professione. In ogni caso, credo che Pierantonia abbia trovato in me un ottimo capro espiatorio sul quale catalizzare tutta la sua rabbia repressa accumulata in anni e anni di astinenza forzata dal sesso e per via del conflitto interiore che si porta appresso da quando suo babbo all’anagrafe l’ha registrata con quel terribile nome che non voglio nemmeno ripetere... ma poco male, non mi riguarda.
Devo ammettere che ultimamente i confronti verbali con Lara si susseguono sempre più frequentemente e spesso degenerano in vere e proprie interminabili discussioni,la maggior parte delle quali fondate sul niente. Ma stamattina penso che si sia spinta un pò oltre una semplice discussione fondata sul niente... Non riesco ancora a crederci, che la mia dolce e cara Lara mi abbia proprio mandato a fanculo e senza tanti giri di parole! Robe da matti. Temo proprio che questa volta dovrò aggiornare la "situazione sentimentale" nel mio profilo di Facebook.
Ma torniamo a noi, o meglio a Lara, la mia amatissima Lara: una ragazza tutta d'un pezzo che sa sempre con matematica precisione quello che vuole, quando lo vuole e soprattutto come lo vuole. Lara è una splendida psicologa junghiana ventottenne laureatasi in corso cum laude, femminazista nata sotto il terribile segno della Vergine. Porta un caschetto molto aggressivo nero corvino e ama fasciarsi quello splendido culo a mandolino che farebbe arrapare persino Monsignor Tettamanzi con jeans attillati maliziosamente strappati nei punti giusti. Ci siamo conosciuti casualmente al vernissage di una mostra d'arte contemporanea. Lei era stata invitata da una sua amica street artist (quelli che una volta erano chiamati volgarmente graffitari e oggi ricoprono una rispettabilissima posizione sociale), che vive tra Berlino, Londra, New York e Milano; una che sicuramente non soffre l’aereo come me... una del giro di quei giovani intellettualoidi vestiti con giacche in velluto anni 70 recuperate in chissà quale armadio dei genitori o acquistate al mercato di Camden Town, pantaloni a coste o jeans scampanati, occhiali dalle montature sproporzionate e dalle tinte improbabili con l'immancabile logo della Apple in bella mostra su qualsiasi supporto tecnologico, collante ormai indispensabile per svangare una noiosissima serata tra amici... Io invece ci ero capitato semplicemente perchè un amico aveva detto che si beveva gratis. Ed era vero, porca vacca se era vero!
Per tutta la sera aveva parlato ininterrottamente lei, la splendida Lara, spaziando dalle ultime avanguardie artistiche, alla difficile situazione politica birmana, passando un attimo ad analizzare la situazione sociale della donna iraniana nel ventunesimo secolo e finendo con un monologo sull’origine storica della cravatta (sembrava di ascoltare qualcuno che legge a voce alta un pò di XL Repubblica e un pò di curiosità della Settimana Enigmistica). Nel frattempo io mi limitavo ad annuire, sorridere e dissentire a seconda della circostanza, cercando con lo sguardo di richiamare l'attenzione di qualche buonanima di cameriere che mi rabboccasse il bicchiere. Avrò detto sì e no forse venti parole ma al termine della serata si era detta inspiegabilmetne soddisfatta della "bella chiacchierata" intrattenuta con il sottoscritto elogiando, tra l'altro, le mie doti di “ottimo ascoltatore” mentre io, sbronzo come un koala astemio di un circo bulgaro, non riuscivo nemmeno a trovare le parole per congedarmi e andarmene a casa. Fatto sta che non ricordo come ma riuscì a portarmi a casa sua dove, come ho accennato prima, non ho saputo far di meglio che interrompere la nostra attività sessuale dopo circa quindici secondi per andare a vomitare nel lavandino del bagno della povera Pierantonia. Se solo avessi avuto della Xamamina a portata di mano che chiavata avremmo fatto...
Tre mesi dopo quella memorabile serata, non paga della mia serie di brutte figure inanellate come perle della Normandia ed esposte alla cena di gala del Rotary, mi aveva chiesto di andare a vivere a casa sua. Nessuna delle mie poche ragazze avute in trent’anni mi aveva mai chiesto una cosa simile e, naturalmente mi trovai spaesato. Ma considerando che dove vivevo in quel periodo era molto più simile a un centro sociale bolognese degli anni settanta che a un vero e proprio appartamento in cui, come se non bastasse, dopo un anno non avevo ancora capito quali fossero i miei coinquilini e quali gli ospiti, gli amici degli amici e i parenti di primo, secondo e terzo grado, non ci pensai troppo prima di chiarirmi le idee e risponderle: ochei, arrivo per cena!
All'inizio è stato un idillio: Lara cucinava, Lara faceva la spesa, Lara puliva e soprattutto Lara mi voleva almeno tre volte al giorno: appena svegli, appena tornata dal lavoro e prima di addormentarci. Mi svegliava riempiendomi di baci, coccolandomi con dolci parole e mi portava la colazione a letto mentre mi elencava una serie interminabile di fantastici progetti per la giornata, nemmeno fosse di cinquantadue ore... Ma purtroppo il paradiso non esiste e ben presto quella fantastica situazione amorosa cominciò a sgretolarsi molto più velocemente di un castello di sabbia sotto il sole cocente del 13 di agosto su una spiaggia molto ventosa.
Meglio regnare all'inferno che servire in cielo mi son sempre detto ma forse ultimamente sto cambiando opinione al riguardo, caro il mio buon Milton!

La prima avvisaglia l'ho avuta quando, gradualmente, Lara ha cominciato a sostituire gli iperglicemici appellativi “amore”, “cucciolo”, “tesoro”, "topino" e via discorrendo, che stavo tra l’altro cominciando ad apprezzare, con il mio nome freddo, duro e crudo: Anselmo. Poi ha cominciato a diminuire il nostro monte ore giornaliero di attività sessuale passando rapidamente dalle tre volte al giorno al singolo coito serale, trampolino di lancio per approdare velocemente alla sola volta settimanale ed infine giungere alla tristissima copulazione “una tantum”. Il campanello d’allarme che mi ha tirato giù dalle nuvole è stato quando, di punto in bianco, Lara ha cominciato a riempire le mie calme e tranquille giornate con progetti, attività frenetiche, commissioni e appuntamenti “assolutamente da non rimandare” del tipo:
* portare le scatolette di purea di salmone e petto di tacchino all’associazione “Mondogatto” che accoglie tutti i randagi della zona entro le 10.30; nemmeno fossi io a portare la colazione a quegli spelacchiati ammassi di pelo portatori sani di toxoplasmosi e clamidiosi
* passare prima delle 12.00 dal gruppo d’acquisto (cui Lara appartiene) per ritirare le tre borse straripanti di pasta, legumi e olio extravergine d’oliva di non so dove
* ritirare in lavanderia le camicie stirate prima delle 15.00; quando sappiamo tutti che la lavanderia chiude comodamente alle 19.30 proprio per permettere alla gente di fare con comodo.
E, come se non bastasse ha pensato di creare un “calendario delle pulizie” che affisse al frigorifero (non che mi dispiaccia più di tanto ma, a titolo di cronaca, il calendario è andato a coprire una nostra foto scattata a Gardaland sulla discesa del Colorado Boat dove sono ritratto con una faccia da sacerdote pederasta con l’impermeabile aperto e la fronte grondante sudore...) in cui, in colore rosso e in stampatello, spiccava sempre e unicamente il mio nome un giorno sì e uno no. Infine ha cominciato a prendere la cattiva abitudine di chiamarmi a metà mattina, mentre riposavo ancora beato sotto il piumino di piume d’oca attendendo la sveglia delle 10.20 per riuscire ad essere a Mondogatto per le 10.30, sputandomi a spruzzo un elenco di tutto quello che avrei dovuto acquistare al supermercato entro pranzo:
* mezzo chilo di susine “non troppo mature ma nemmeno acerbissime, giuste!”
* tre pompelmi rosa “mi raccomando assicurati che non vengano coltivati in terra sionista”
* due confezioni di yogurt biologico ai cereali e due al naturale “con la data di scadenza il più avanti possibile”
* due avocado “mi raccomando annusalo... se non sente di niente prendimi una papaya matura o al massimo due banane platano”
* una confezione di detersivo biologico naturale per lavare i piatti
e, come se non bastasse, dovevo anche andare al commercio equo e solidale per prendere:
* incenso alla mirra pakistana
* tè verde in foglie Darjeling delle vette dell’Himalaja
* un infuso al finocchio brasiliano e ribes delle Ande cilene
* una confezione di Karkadè del monte Ararat
* sei bustine di menta piperita dell’altopiano dell’Atlante marocchino
* un chilo di zucchero di canna delle colture venezuelane.
Ero rapidamente regredito dal mio tanto agognato periodo patriarcale (dove il maschio, l'uomo è giustamente servito e riverito dalla femmina, la donna, in quanto è colui che rischia la pelle quotidianamente affrontando cinghiali e bisonti per sfamare la propria famiglia) alla temutissima dittatura femminazista retta dal Raìs Lara.
Ma bando alle ciancie, fondamentalmente penso che la situazione sia degenerata al punto da sfiorare il fondo perchè Lara non ha mai accettato appieno la mia condizione lavorativa. Quando ci eravamo conosciuti, quella famosa serata al vernissage, le avevo detto chiaro e tondo che ero uno scrittore e che stavo lavorando al romanzo della mia vita. Le aveo pure spiegato in cosa consisteva il mio progetto: doveva essere una sorta di saga familiare ambientata a metà ottocento in Francia che vedeva protagonista una giovane ragazza aristocratica innamorata dello stalliere di famiglia, un ragazzo umile, dallo sguardo sincero e intelligente, appartenente al movimento anarchico le cui idee lo avrebbero coinvolto nell’organizzazione (insieme alla cricca del buon Felice Orsini) di quello che risulterà il fallimentare tentativo di assassinare nel 1858 Napoleone III.
Un progetto ambizioso che aveva lasciato Lara letteralmente a bocca aperta, sbalordita. Era semplicemente ammaliata dal mio progetto. Spesso quando mi guardava traspariva in toto la sua ammirazione nei miei confronti e lodava la mia preparazione storico-politica-sociale che dava per scontato possedessi per poter affrontare tutte queste tematiche. Era coinvolta a tal punto dal progetto che spesso mi poneva domande talmente specifiche da cogliermi impreparato. Mi chiedeva se nel romanzo avessi intenzione di trattare anche la condizione delle donne nella Francia di metà ottocento oppure se le idee anarchiche avrebbero occupato un ruolo principale nell’economia globale della saga... Ovviamente nel mio romanzo avrebbe trovato posto qualunque cosa fosse uscita dalla bocca di Lara!
Ma, man mano che il tempo passava, tutto il suo entusiasmo nei confronti del mio titanico progetto sembrava appassire come una rosa nel microonde. Ogni tanto mi lanciava qualche frecciatina (a dire il vero nemmeno troppo velata) circa la mia attività del tipo: “possibile che in un anno che ti conosco non ti abbia mai visto una volta buttare giù una riga che fosse una, ma dico io...” oppure “quando sei silenzioso con lo sguardo perso nel vuoto spero sempre che tu stia pensando a come inserire nel romanzo l’importanza del contesto politico-sociale del nostro territorio che ha spinto Orsini ad architettare l’attentato a Napoleone III e invece scopro che la maggior parte delle volte è semplicemente che ti sei scolato una confezione di sei birre, ma dico io...” o ancora “come fai a stare intere giornate chiuso in casa senza fare niente, anzi ancor meno di niente, nulla! Ma dico io...”. Proprio così, qualsiasi frase partorita dalla bocca di Lara finiva con un inutile “Ma dico io...” lasciato fluttuare a mezz’aria. In ogni caso il mio essere scrittore dev’essere stato in qualche modo travisato nella testa di Lara. Alle volte era come se per Lara scrivere un romanzo fosse una cosa automatica e programmabile, del tipo, che ne so, mi sveglio una mattina e dico “oggi scrivo i primi due capitoli”. No, non funziona così, cara la mia amatissima Lara. No, no. Così è come fanno gli scrittori commerciali, alla F. Moccia, Joe R. Lansdale, G. Morozzi o S. King, quelli che sotto contratto, volenti o nolenti, devono rispettare una “tabella di marcia” imposta dall’editore. Ma io non sono uno di quelli. Io scrivo quando sento l’ispirazione, quando ne avverto la vocazione... Ah, alle volte con queste esternazioni Lara mi delude e, lo dico davvero, arrivo quasi a pensare di aver sopravvalutato le sue capacità intellettive. Poco male, d’altra parte ho sempre solidarizzato con i geni incompresi, con le menti eccelse di tutti i tempi, con coloro che sanno di possedere un talento ma convivono anche con la terribile consapevolezza di non poterlo mai spendere nella società di mediocri in cui sono costretti a vivere. Povero me. Poi mi consolo quando penso che anche Conrad, il buon vecchio Joseph Conrad, ha dovuto provare a spiegare a sua moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando...
L’amore, la vera dannazione di noi artisti! Penso sia il caso, a questo punto, di stapparmi una birra. Torno subito.

Che culo, ragazzi, era l’ultima!
Ma dove eravamo rimasti? Ah sì, vi stavo spiegando che con Lara, non dico di punto in bianco ma quasi, la situazione si è capovolta. Proprio come un’autocisterna che affronta a più di 90 km orari lo svincolo d’ingresso in autostrada di Affi in direzione Brennero. Ribaltata proprio!
Per farvi rendere conto, ieri mattina mi sveglio perchè sento un pò di rumore in cucina e aspetto che, come sempre appena prima di uscire per andare al lavoro, Lara mi porti la mia tazza piena di latte tiepido, la tazzina di caffè amaro e quattro dolcetti danesi al burro di cui vado pazzo. Dunque, aspetto e aspetto ma di Lara nemmeno l’ombra e della mia colazione nemmeno il profumo. Mi giro su un fianco e finisce che mi riaddormento. Verso le undici e mezza, con i crampi della fame allo stomaco e la vescica traboccante, mi tiro a fatica giù dal letto e, con un insolito cattivo umore, vado in cucina per chiedere spiegazioni a Lara. La casa è vuota, le scarpe di Lara non ci sono e nemmeno la borsetta: segni inequivocabili della sua assenza. Appena entro in cucina il frigorifero mi avvisa, per mezzo di un foglietto strappato appeso vicino al calendario delle pulizie “se vuoi fare colazione in frigo trovi il latte e nella dispensa i biscotti. se non chiedo troppo, cerca almeno di non sbriciolare”.
Annuisco, mi metto i calzoni e una maglietta e scendo al bar per fare colazione. Da quel momento esatto ho capito che le cose tra me e Lara sono ben oltre un semplice “scricchiolare”. Dopo aver consumato alla facciazza di Lara una goduriosa colazione, me ne sono stato tutto il pomeriggio seduto sulla panchina del parco sotto casa di Lara a pensare alla mia situazione sentimentale. Tra un pensiero e un altro, osservavo gli uccellini rincorrersi felici tra i pollini dei pioppi e cani cacare allegramente sulle aiuole fiorite. Chissà cosa ci troveranno di bello quegli esseri tristemente piumati di marroncino e grigio nello svolazzare da un ramo all’altro tutto il giorno mentre sotto di loro macchine generatrici di escrementi incredibilmente grandi sorgono quà e là... Comunque sia, dato che un consiglio gli uccellini non potevamo darmelo, ho deciso di raggiungere Silvano dove, come fossi un aruspice etrusco, l'avrei sicuramente trovato nei fondi delle pinte di birra. Confesso che leggere i fondi lasciati dalla birra sul fondo dei bicchieri non è per nulla cosa semplice e immediata come qualche sprovveduto potrebbe pensare. Fatto sta che ieri pomeriggio penso di aver impiegato quasi sette o otto ore prima di rendermi conto, tra l’altro, che dalle undici pinte consultate avevo ottenuto ben undici pareri discordanti. Più le pinte aumentavano di numero, più il problema di Lara si assottiliava e si allontanava magicamente da me. Lara diventava una presenza evanescente che man mano che la birra scorreva lasciava spazio nella mia mente ad altro. Lara era un palloncino d'elio a cui hanno tagliato il filo. Ricordo perfettamente che dopo la sesta pinta già la mente aveva sfrattato definitivamente Lara per lasciar posto alla moretta che si era accomodata sullo sgabello accanto al mio. All’ottava avevo già scoperto che Loretta, questo il nome della moretta, aveva molti interessi comuni ai miei: anche lei detestava il calcio, preferiva il circo Medrano al circo di Russia e le birre doppio malto le davano molta più soddisfazione delle sciacquette lager. Alla decima pinta Silvano mi raggiunge mentre giulivo sto amabilmente conversando con la mia amica Loretta sul problema della ricerca universitaria italiana e mi dice “Anselmo al telefono c’è una certa Lara che ti vuole parlare... mi sembra alquanto irritata”. Silvano è sempre troppo gentile a dispetto di quello che ci si aspetterebbe da un barista sessantacinquenne con un occhio solo peraltro opaco e le braccia scarabocchiate da tatuaggi scoloriti color inchiostro galera. “Lara? chi è Lara? Non vedi, caro il mio Silvano, che sto chiacchiarando con questa adorabile signorina...” gli faccio io forse un pò troppo ad alta voce mentre Silvano teneva il ripetitore proteso verso di me. Ma come tutti sanno, non si possono bere birre in numero pari quindi, io e Loretta non perdemmo l'occasione di ordinare altre due pinte.
Verso le due di questa mattina, una volta che Silvano ha abbassato le serrande del bar, in qualche modo mi sono trascinato stancamente e malvolentieri a casa. Dopo aver lungamente litigato con la serratura, dopo aver incespicato nello zerbino che mi accoglieva con un sarcastico “WELCOME” e dopo aver cercato di convincere il mio stomaco a trattenere ancora per un momento il suo contenuto, mi sono diretto verso il bagno. Quei quattro metri di corridoio che separano la porta d’ingresso da quella del bagno mi sono sembrati in assoluto i più lunghi e faticosi che abbia mai percorso in tutta la mia vita. Inspiegabilmente era come se la forza di gravità si fosse spostata d’un tratto da sotto il pavimento a dietro la parete di destra. Ad ogni passo immancabilmente andavo a sbatterci violentemente contro prima con la testa, poi con le braccia, infine con le gambe e il bacino. Se non mi sono fratturato nulla è un miracolo. Il fatto è che lo stomaco non ha pazientato abbastanza e ho fatto appena in tempo ad affacciarmi nel bagno che un conato di vomito, talmente copioso da esser degno dell’”Esorcista”, ha riempito fino all’orlo il lavandino intasandolo per la seconda volta. Non ho mai capito perchè gli scarichi non li facciano più larghi, santo cielo... mica tutti riescono ad arrivare sempre alla tazza.

Ora sono quì, che cerco di alzarmi dal divano dove, per tutta la notte, ho cercato di riposare le mie ossa indolenzite. Dolorante in ogni parte del corpo, con la testa che mi pulsa più forte del cuore e una discarica di rifiuti speciali in bocca cerco tra tutte le carte attaccate al frigorifero un pezzo di carta su cui scrivere le parole adatte per scusarmi con Lara prima di "levare le tende". Niente da fare. Possibile che in una casa non ci sia mai uno straccio d'un pezzetto di carta su cui scrivere? Mah. Mi frugo istintivamente in tasca e trovo un foglietto a quadretti dove una mano incerta o molto più probabilmente sbronza ha scritto una serie di numeri: 3384409963. Stacco la cornetta dal telefono a muro e compongo il numero.
“Loretta, oh mia dolce Loretta, come va? ...che serata ieri... pensavo... cosa ne dici se tra un’oretta...”

domenica 17 ottobre 2010

Sesto piano

Sorride dal sesto piano di una insignificante serata. La chiamiamo festa per il via del numero considerevole di persone insaccate in quel budello in affitto. In fondo è vero: non tutti abitano qui anche se molti si fermeranno addormentati in qualche precario giaciglio recuperato tra i mobili montati storti e quelli recuperati dai cassonetti. Col sapore del vino che rimane incollato sulle labbra saluteranno il giorno e si allontaneranno mesti nel cortile interno troppo grande contando le sigarette rimaste.
Ora però sotto le luci gialle e patinate, e musica alta, nugoli di persone si alternano a recuperare salatini dal discount. Ci sono anche ricercati piatti preparati in cucine rustiche da genitori o parenti di questo o quest’altro ospite. Roba di prim’ordine che va presto finita assieme all’innata timidezza per una situazione incastrata tra ruoli sociali ed egosimo innato. Superego. Ed il via vai di risposte convenzionali e discorsi galleggianti si fa più irriflesso. Quasi naturale e sincero.
E lei non mi ricorda mia madre, non ha assolutamente niente di lei. Forse la psicologia spicciola si sbagliava. in fondo il nostro tentativo di spiegare la realtà ci ha portato all’illuminismo ed alla rivoluzione industriale. Alle camicie ed alle cravatte col nodo finto. Al deodorante che dura 48 ore. Al cellulare e agli sms. Agli asili nido cui destiniamo il nostro stipendio in nome del progresso industriale. All’uomo sulla luna che agita una bandiera felice come un cane che piscia contro una staccionata in campagna. A questa festa in cui l’unica cosa di cui avrei bisogno sono un po’ di socialità in meno.
Siamo vicini. Lei ha questo suo modo di mettermi a mio agio, il sorriso e guarda giù. Io ho le mani in tasca e le possibilità di conversazione vertono sulle posizioni preferite per fare sesso. Proprio per questo aspetto che sia lei ad aprire bocca. Ma non lo fa, rimane accanto a me e guardiamo in basso assieme. Da qui il cortile interno sembra piccolo ed insignificante. Questione di prospettive.
È tutto quello che mi importa. La sola immagine che ho. E le birre mi passano di mano senza che il mio cervello si smuova dallo standby in cui l’ho confinato. Fermo su di lei. Al punto che ricordo tutti i suoi movimenti al rallentatore come quando in televisione fanno vedere il battito delle ali di una mosca.
E succedono varie cose intanto.
Poi finalmente le infilo la lingua in bocca.
E vissero tutti felici e contenti.

venerdì 8 ottobre 2010

Discount delle opportunità

E ti ritrovi alla mia età con la sveglia che ripete che è tardi. Con il cuscino che non ha fatto in tempo a lasciarti i segni sul volto da tanto poco che ci stai appoggiato. Con addosso solo mutande e la tua ragazza che tra un po’ si lamenterà che lei non deve mica alzarsi. Che quindi spegnessi questa cazzo di sveglia.
“Che amore Lidia al mattino” pensi ed allunghi una mano che inevitabilmente inciampa sull’anarchia del tuo comodino. Cadono occhiali, portafogli, accendino, libri e polvere. Il cellulare che suona invece non si muove, non lo raggiungi tanto l’hai messo scomodo. Eri già sicuro di non volerti alzare. Sei prevedibile anche da te stesso ubriaco.
Quindi apri gli occhi e trovi lo schermo illuminato. Ti siedi sul letto e lo spegni mentre ti guardi la pancia.
Ti rendi conto che è sabato solo quando accendi la televisione. Ed a quel punto sei sveglio. Troppo sveglio e vestito da lunedì.
Quindi rallenti, prendi dell’altro caffè e mastichi un altro paio biscotti con pezzi di cioccolato. Roba da discount.
Fuori c’è un generico rumore di attesa: poche auto ed un padrone che chiama il suo cane “Pippo”. Sembra di stare in uno di quei paesaggi suburbani di Topolino.
Da un momento all’altro immagini passare Paperino sulla 313 ammaccata.
Invece niente, solo il ripetersi delle televendite alla televisione. Venditrici e venditori impeccabili capitanati da Mastrota che prosegue la sua parabola discendente con quel sorriso sanguinante sul viso perfettamente rasato ed imbrunito. Ha il tono di chi ha studiato controvoglia tecniche di marketing al solo scopo della sopravvivenza. Mentre gli scopavano la morosa in multipli di cinque. Ti sale un rantolo di tristezza da renderti felice nonostante il tuo risveglio troppo presto e l’inevitabile discussione con Lidia sui programmi per la giornata.
Puzzi di fumo.

sabato 2 ottobre 2010

Digressione sui fagottini alla mela

Non ho voglia di scrivere una racconto. Tantomeno parlarvi di Gloria. È sempre il ripetersi degli stessi eventi sotto un cielo più o meno estivo. Oggi ad esempio il sole schiaffeggia il tetto della casa del mio dirimpettaio colpendomi in faccia troppo presto per un sabato mattina. Ho questo sapore insoddisfatto in bocca che sa di dentifricio alla menta masticato. Gli occhi sono pesanti terra bagnata. E mi costringo ad alzarmi ad essere più produttivo. Ad interfacciarmi col mondo dei quotidiani e colazione al bar.
Il mio barista si chiama Mario. Ognuno ha il suo ed il mio è un personaggio rubicondo e non troppo amichevole nei miei confronti. Parla sempre con una ragazza che lavora poco lontano ad arriva sempre in anticipo passando una buona mezz’ora seduta ad uno sgabello acciaio ed ecopelle a commentare le notizie da rotocalco riportate dal Resto del Carlino. Mi pare si chiami Nina e questa mattina difende a spada tratta l’immagine di Fabrizio Corona. Che altro può fare? Mario le da ragione ed io domando se è rimasto un fagottino alla mela vedendo la teca della colazione ripiena solo di crema e cioccolata che cola dalle improbabili lievitazioni naturali del Forno d’Asolo.
E così mi sono costretto a mangiare un Krapfen alla crema allungato con un caffè secco. Mentre Mario continua a chiacchierare piacevolmente. Mentre sottolineo la mia incapacità a stringere una sincera amicizia con un barista da sobrio.
Ma questa è cronaca e l’interesse è per i gossip.
Non ho ancora capito quale fosse la divertentissima barzelletta raccontata da Berlusconi sugli ebrei. Perché a me piacciono le barzellette, mi mettono di buon umore. È uno dei pochi modi che ho per ridere sinceramente. Ma niente, nessuno mi ascolta. E sentendomi ignorato vado via senza salutare. Lasciando i soldi sul tavolo come si fa con le puttane.
E Mario nemmeno si gira.
Ora tutto quello che mi resta da fare è rimettermi a dormire. In fondo quel sapore disgustoso che mi ha lasciato la scorsa notte è passato.
Nonostante i fagottini alla mela li avesse finiti Nina.

lunedì 23 agosto 2010

Carla

C’è quest’aria umida che mi illudo di aver passato 20 minuti a correre. La maglietta appiccicata alla pelle seccamente fusa alle ossa. Senza tanti orpelli. Le sfumature sono tutte sul grigio e sembrano alternarsi le stesse auto. Ancora ed ancora. Con un ritmo digestivo bovino. Provo a memorizzare qualche numero di targa e neanche questo è semplice. Sono disinteressato. Non riesco a concentrarmi come in quei sogni in cui si passa da una ambientazione all’altra. Non necessariamente coerente. Io intanto aspetto vedendo consumarsi il fumo che esce dalla tazza che ho davanti. Ero certo Carla avrebbe tardato e ciononostante sono arrivato in anticipo. Diciamo che inconsciamente volevo familiarizzare con queste sedie in ferro nero e questo tavolino tondo dal piano in finto marmo. Consciamente avevo una voglia incredibile di vederla, un sacco di domande a cui avrei voluto risposte ed il bisogno di respirare il suo profumo contraddittorio.
Io e Carla ci siamo conosciuti per caso mentre due ragazzi litigavano sull’autobus. Non che questo significhi qualcosa è solo che ci pensavo. E quasi sempre quando mi trovo a ricordarla quella è l’immagine che mi viene in mente. Ci siamo noi accidentalmente seduti accanto ed io che mi ostino a non guardarla. A concentrarmi sulla stessa frase del libro che ho aperto davanti. Niente di veramente interessante. Quel giorno Carla aveva quel vestito estivo chiaro con una spessa cintura in cuoio marrone. E aveva quell’odore che mi inganno di sentire anche ora quando ormai è chiaro non arriverà.

lunedì 2 agosto 2010

Pernod

Ci illudiamo che le nostre vite siano interessanti. Che le cose che facciamo siano uniche. Che la nostra ragione sia l’unica ragione. Che le nostre idee un giorno cambieranno il mondo. Mangiamo biologico. Ci obblighiamo ad intraprendere letture concettuali. Narrativa filosofica o filosofia narrativa. Evitiamo di contestualizzare ogni qualsivoglia pensiero. Il contesto rende troppo tangibile, raffigurabile. Ed è questo che non vogliamo. Vogliamo essere l’antimateria positiva. Abbiamo scritto su qualche muro che l’inferno è qui, nel ghetto ebraico. E ci siamo sbellicati dal ridere. Poi ci siamo dichiarati postcontemporanei ma non troppo per mantenere le distanze. L’equilibrio precario che ci pervade è quello che lascia il sole appeso lì dov’è, quello che al mattino ti riempie i polmoni di umidità che quasi ti svegli per l’asma ma che risolvi girandoti nel letto a pancia in giù. Quello che ci interessa è tutto e ci rendiamo conto di conoscerne una parte infinitesimale. E sappiamo che quello che sappiamo è la verità, incontestabile fatalità della cosa stessa. Perché non c’è altro che la materialità dell’inconsistente. La pubblicità ingannevole che in realtà presenta un servizio a cui proprio non avevi pensato. A cui non bisogna fare a meno. Perché noi esigiamo la soddisfazione dei nostri bisogni. Cristo santo, è giusto così. Ce lo meritiamo per la nostra capacità di scindere e discernere la realtà imbustarla in categorie molli e volatili. Nuvole colorate in un cielo verde tempesta dal contrasto sospetto. Il sole che ci guarda come tutti i giorni con un orecchio su un morbido cuscino di colline verdi. Odore di colonia misto Pernod. E scrivere, scrivere a rotta di collo che ci capita di inciampare e farci male ai sentimenti. Come guardarsi allo specchio, sempre più vicino che inizi a vedere meglio i particolari del tuo volto, più vicino per capire perché, cosa c’è sotto fino a romperlo con la fronte. E poi sangue ed ambulanza. E domande, le stesse domande che ci ripetono continuamente. Perché lo fate? Che senso ha? Il fatto è che è una condanna, non ci si può tirare indietro davanti alla rivelazione dell’intelletto. Delle grandi cose che si avvereranno.

lunedì 26 luglio 2010

La ragazza alle mie spalle

Era seduta due posti più a destra di noi. Al bancone del bar. Era con quella sua amica rumorosa che si era costruita una identità stonata. Una che dava l’impressione di portare fuori il cane in abito da sera. Non so se mi spiego. Ciononostante non è di lei che volevo parlare, era solo una digressione. Roba accademica per punteggiare i contorni, roba che magari vi dico che io ero con un gruppo di amici sconosciuti in virtù del fatto che non volevo passare un’altra sera in casa. Provavo ad essere simpatico. Mi comportavo bene ed infilavo un sorriso dove riuscivo. La mia attenzione era però alle spalle. Su quella ragazza bionda in abito bianco. Su quel tatuaggio sulla spalla che doveva significarmi qualcosa.
Ordinai un’altra birra.
A quel punto la discussione era sulla campagna acquisti del Bologna o su qualcuno che si era comprato il Bologna, la squadra di calcio.
Sorrisi e presi un altro sorso. A disagio come un marocchino in pausa pranzo durante il ramadan. Roba da Topolino che si mangia un pollo arrosto assieme a Paperino e Qui, Quo e Qua una domenica a pranzo.
Aspettai che le dinamiche del gruppo prendessero il sopravvento nel centrifugo sfaldamento verso un’altra birra.
“Certo che fa caldo!” e “che fai quest’estate?” sono i discorsi che mi passarono accanto appoggiati al bancone con in mano i cinque euro per una media.
Constatai con Stefano che la ragazza bionda dietro di me non era niente male parafrasando un gergo giovanile decisamente fuori luogo a stomaco pieno.
A quel punto Stefano mi si piazzò davanti vomitando tutti i suoi racconti migliori ad un volume appena percettibile solo in fondo al locale.
La ragazza bionda probabilmente aveva smesso di parlare.
Dopo qualche minuto l’amica iniziò a competere con Stefano per il primato sul decibel.
Immaginai scintille all’incrocio dei loro sguardi.
Poi mi persi un po’ a pensare alla natura ondulatoria e corpuscolare della luce, alle onde energetiche di Dragon Ball ed alla reinterpretazione dei migliori successi dance in chiave acustica. Tutte cose che succedevano qualche anno prima. È che rimango irrimediabilmente ancorato al passato. Succede sempre così.
Anche quella sera quando la ragazza bionda che avevo scoperto chiamarsi Chiara se ne andò continuai a pensare a lei. E a fare stupide battute da quindicenne sul suo nome.
Stefano intanto continuava ad urlare per via del Pratello.

giovedì 22 luglio 2010

Matrimonio

A questo punto tutti battono sul tavolo ripetendo “discorso, discorso, discorso, discorso” e le posate sobbalzano con piatti, bicchieri e companatico.
È un momento che richiede un tasso di sobrietà ragionevolmente basso. Fortunatamente è il mio caso.
Mi schiarisco la voce mentre goffamente mi alzo.
Pantaloni neri con la piega al centro, camicia bianca, cravatta e giacca su misura. Mi valorizza, è questo che mi hanno detto in negozio. E con un sorriso dieci minuti dopo lubrificavano la stretta fessura del loro pos con la mia carta di credito. Ora comunque mi sento a disagio. La sensazione è quella di indossare un vestito non mio. Recitare un ruolo a cui non sono preparato.
Prendo un sorso dal bicchiere e le bolle appuntite si insinuano tra le otturazioni dei molari. Stimolando un sorriso forzato. Coraggio.
Tutti intanto sono immobili a guardarmi. Facce tirate ed occhi aperti che si distingue il colore dell’iride anche delle terze file. Da qui sembra una ripresa a 360 gradi. Quello dove il protagonista fa qualcosa di eccezionale, determinante ed impossibile.
Lei è bellissima, anche più del solito. Sarà per il vestito bianco e quel sorriso incerto che non mi pare averle mai notato.
Inizio inciampando in un “bè, grazie a tutti”.
Mi stupisco di non aver mandato qualcosa a memoria per l’occasione ma succede in un attimo. Subito dopo lapideo mi fisso sui piedi nemmeno ci avessi due chiodi conficcati e continuo a parlare. Il tono passa dall’incerto al comprensibile. Non mi pare l’alcool allunghi troppo la pronuncia o arrotoli le parole. Anche le frasi mi sembrano chiare, per una volta. Consequenziali. Il fine d’altra parte è chiaro. Questa è solo una difficile formalità.
Ringrazio tutti per essere vestiti in maniera ridicola come me e aggiungo una battuta su dei pinguini che si incontrano in un bar. Lo faccio così, per sciogliere il ghiaccio. In qualche tavolo avverto una risata. Timidi segnali.
Proseguo.
In queste situazioni è sempre meglio non guardare nessuno. Mai fissare lo sguardo perché ci si deconcentra. Così non mi accorgo più di tanto degli sguardi che seguono alle mie parole. Alle cose che avrei dovuto tralasciare e a quelle che sarebbe stato bene sottolineare.
Dico che Maria me l’ha presentata Marco. Era una sera qualunque e ci eravamo incontrati per caso nello stesso bar. In quel periodo frequentavo Elisa già da un po’ e la nostra relazione era l’eco dell’incredibile attrazione che c’era stata. Roba da sesso sotto la doccia.
Dico che non mi ero mai lavato tanto e tutti ridono.
“ma sto divagando” mi scuso.
Maria comunque mi aveva subito colpito. Era troppo. Non riesco a descriverla in altro modo. Ed anche quella sera non devo essere stato molto loquace. Almeno non prima del terzo giro di birra.
Altre risate.
Applausi.
Sarebbe il momento giusto per concludere ma non riesco a resistere a questa orgia di attenzione.
Quindi vado avanti finchè qualcuno non mi batte sulla spalla e dice che può bastare.
“grazie” dice applaudendo teatralmente di lato. Mi guarda come un cordiale neonazista guarderebbe un extracomunitario mentre gli fotte la morosa, il lavoro e la macchina contemporaneamente. Certamente è lo sposo, fortunatamente disarmato e in una sala piena di testimoni. Constato che Maria non ha scelto male: il suo vestito lo valorizza più di quanto faccia il mio con me. Quindi dico “ora è meglio che vada”. E mi sembra un’ottima decisione.

Il mattino dopo ho dei ricordi vaghi. Spero solo di non aver raccontato di quella volta che con Maria ci ho fatto anche qualche porcheria.
Poi accendo il cellulare.
E capisco che l’ho fatto.
È stata proprio una gran bella festa.

lunedì 12 luglio 2010

Il frinire delle cicale, due Heineken ed una Coca Cola

Si domanda quando le cicale smetteranno di cantare. Può succedere in un minuto, un lento scemare come la musica dell’autoradio inghiottita dietro ad un finestrino elettrico che sale. Col sapore in bocca di chi ha cenato ma non troppo. Con moderazione, si corregge. Intanto non ci pensa. Si concentra sulle cicale. Impegnato al punto da ignorare pure gli attacchi ripetuti delle zanzare sui suoi muscoli poco tesi. Non suda, trattiene tutto facendosi asciugare da ogni giro di ventilatore che fa sbattere un poster alle sue spalle.
“Frinire” dice ad alta voce, tanto per sentirsi. Per accompagnare il concerto fuori dal terrazzo. Didascalico.
La storia è sempre la stessa: un film già visto, dei discorsi già sentiti e delle parole che non ha voglia di leggere. Quindi si gode il concerto seduto su una sedia precaria. Le mani dietro la testa, le gambe in avanti. Accavallate sugli stinchi filiformi. Una sigaretta certo la mettiamo in questa scena. Un piccolo ritocco ad una altrimenti troppo realistica invenzione. Nella mano destra quindi una sigaretta accesa incerta. Il braccio lo vedo molto come in quello della Morte di Marat. Ostentatamente vittima della forza di gravità.
Ed il concerto continua.
E sembra non succedere mai niente che poi quando succede troppo ci si stressa in un vortice di iperattività ed iposensorialità. Un po’ come quando ci si brucia la lingua con la prima portata di una cena fantastica. Quindi non si può far altro che ricordare. Intessendo trame più belle di quelle che in effetti erano.
C’era quella sera di qualche estate fa quando dopo il lavoro il nostro Andrea stava al solito tavolo in plastica bianca. Davanti 2 bottiglie di Heineken ed una Coca Cola. Vincent e Sara. Aria piombo che si attacca ai polmoni e piccioni troppo invadenti. Sara aveva un vestito bianco allacciato con solo un nodo dietro i capelli raccolti. Aveva questo collo che era roba da film porno preadolescenziale. Immaginate Liv Tyler in Io Ballo da Sola. Roba così. Parlava con Vincent mentre il nostro Andrea se ne stava attaccato alla birra a guardare l’aria occupare sempre più volume.
Poi il rutto trattenuto.
A questo punto Sara tirava dalla cannuccia arancione mentre Vincent non la piantava di parlare. Era simpatico Vincent. Aveva un sorriso contagioso ed amava fare cose improbabili. Fu così che quella sera si infilò la sua bottiglia di Heineken nel culo.
Il resto è storia.
Fuori dal bancone di Andrea solo un grillo strafatto di concime continua a cantare stonato.

lunedì 5 luglio 2010

Tormentoni estivi di 20 anni fa

(racconto liberamente ispirato ad uno dei tanti sondaggi inutili del sito repubblica.it cui partecipo durante le ore di lavoro)

Fuori dalla finestra il mio vicino ubriaco canta assieme al suo stereo tormentoni estivi di 20 anni fa. Roba che appena ricordo fatta di vacanze al mare, ombrelloni e romanticismo non ancora corrotto dalla pornografia online. Non è male a cantare il mio vicino. Ha questa voce che sembra stare bene con tutto. E poi conosce le parole. Nel suo terrazzo mima incerto una esibizione live impugnando un manico di scopa e poi un telecomando, sotto una notte di nuvole grattate su una lavagna con un gesso rumoroso ma impotente. C’è quel caldo che ti appiccica allo schienale dello sdraio con la trama in tubini di plastica rossi. Quello che ti spinge a posizioni improbabili e spesso a tenere la pancia scoperta.
Mi viene in mente Enrico nel piccolo terrazzino in boxer da spiaggia e canottiera con i piedi in un secchio di ferraccio recuperato chissadove.
Un pomeriggio estivo.
Quel giorno decise che non aveva senso fare il pesto alla genovese con i pinoli, che le noci andavano più che bene.
Quel giorno capii che stavo crescendo e forse avevo sviluppato una personalità asociale fatta di sughi pronti e monodose per non dovermi preoccupare di come conservarli. Fondamentalmente mi confondeva l’inquantificabilità del “una volta aperto consumare entro pochi giorni”. Probabilmente retaggio del fatto che quando mio nonno mi parlava dell’altro giorno per lui erano gli anni della guerra e per me il 1987.
Mangiammo spaghetti Coop col pesto alle noci di Enrico mentre mi raccontava di questa ragazza che aveva conosciuto a lezione. Quella che passava il tempo a disegnare fate ed elfi durante le ore di macroeconomia. Quella che due giorni prima gli aveva chiesto se poteva fotocopiare i suoi appunti.
“e sai che significa questo?” domandò affermativo.
Lo guardai mentre allungavo l’ultimo boccone di pasta con una bottiglia da un litro di birra aperta da giorni ormai sgasata.
C’è da dire che Enrico probabilmente aveva ragione e quella che seppi chiamarsi Giulia magari ci sarebbe pure uscita con lui. Del resto solo nell’intimità portava quella improbabile canottiera a metà tra il gay pride e le raccomandazioni di una madre apprensiva. Per il resto era ineccepibile. Sapeva anche qualche barzelletta ed usava con minuzia il filo interdentale prima di uscire.
Pensai che non sarebbe stato male se Giulia avesse avuto una amica.
“che dici?” domandò il mio ego accaldato ma ancora ribelle.
Lui era su di giri. Col caffè avevamo aperto l’immancabile bottiglia di amaro fatto da un implacabile ubriacone che, applicando la stessa teoria dell’efficienza di Enrico, era riuscito a imbrigliare tutti i gradi dell’inferno in 1 litro di liquido torbido vagamente aromatizzato con qualche radice. Stava in una bottiglia da vino di quelle verdi, con un tappo di sughero e anche con tutto il supporto di Wikipedia non saprei dire bene che sapore avesse. Ma non era male però, piaceva anche a qualche ragazza: quelle alcolizzate croniche.
Fu così che Enrico si alzò in piedi tenendo il suo cellulare come fosse una spada laser.
Fece un movimento rotatorio barcollando. Poi si ricompose ed iniziò a scorrere la rubrica. Incominciò dalla A soffermandosi di tanto in tanto per un sorriso che ricambiavo complice mentre mi scolavo la sua bottiglia.
Poi si arrivò alla G e le mie antenne iniziarono a vibrare. Mi sentivo tipo cicala rumorosa. Passammo un paio di volte da Giada e Giuseppe senza passare per nessuna Giulia. Lui disse che era sicuro di averlo salvato.
Cercai di staccare un pezzo di noce che si era rimasto incastrato tra i premolari che notavo solo allora.
“devo averlo salvato!” disse appoggiandosi sul divano curvo e minaccioso come un gancio da macellaio sul telefono.
Non trovammo il numero, né il modo di averlo benché chiamammo sia Giada che Giuseppe.
E poi non ci parlammo per il resto del pomeriggio.
Enrico si riprese la sua bottiglia ed io Bologna non mi ero mai sentito tanto solo.
Per fortuna ora posso aggrapparmi alla disperazione del mio vicino di casa che ormai in mutande canta con un cartone di vino in mano.
E devo dire che non ha più quella bella voce intonata di poco fa.

lunedì 28 giugno 2010

Il senso che può avere andare a letto alle 20 e 50 di un lunedì sera

È ormai chiaro che non ho la più pallida idea di cosa fare. Una soluzione sarebbe annullare l’abbonamento all’ADSL Flat, un’altra dedicarmi a qualche nuovo hobby. Qualcosa di costruttivo tipo il modellismo ma più sociale. Mi vengono in mente quelle rievocazioni storiche tipicamente americane. Parenti lontane delle guerre con le pistole a gas a sfondo labilmente fascista.
Quando esco di casa sorrido sempre che sembro quasi deficiente. Questo lo so ma la mia positività sta in questo. E funziona anche. L’aggettivo che usano tutti per descrivermi è: allegro. Non che questo mi sia molto di aiuto quando in discoteca la musica è alta da concedere unicamente approcci monosillabici. Possibilità da cogliere al volo. L’occasione fa l’uomo ladro e fare il suono giusto con l’espressione giusta può essere il preludio ad un racconto divertente da fare al bar la domenica pomeriggio quando tutti controllano sul cellulare i risultati delle partite. Mentre mi trovo a bere accompagnato dal mio sorriso ebete e un disinteresse generalizzato verso gli interessi collettivi.
Oggi però fortunatamente è lunedì ed ho una scusa per andare a letto presto e non uscire né rivolgere la parola a nessuno.
Scrivo buonanotte in una mail che mando troppo lontano per aver senso raccontarlo.

mercoledì 23 giugno 2010

Stasera Carlo Magno mi fa una pippa

L'amore ci rende buoni, ottunde la nostra già di per sé ottusa mente, ovatta i nostri sottili pensieri e smussa gli spigoli della vita ai nostri miopi occhi.
Risultato: l'amore ci rende sempre un pò più coglioni di quanto non siamo già!
Perché? E' semplice come pestare una cacca di cane sotto i portici di Via Zamboni; potresti quasi non rendertene nemmeno conto, almeno fino a che non ti chiudi in ascensore. Perchè gli spigoli della vita non si smussano per un cazzo con l'amore, ma rimangono vivi e offensivi come sempre, anzi, divengono più pericolosi perchè nascosti come una Tracina sotto i pochi centimetri di sabbia del nostro amore, in agosto...
E intanto cammino sui soliti chilometri di asfalto americano rossastro seduto comodo comodo sulle settantasei rate, color rosso malizioso, ancora da pagare. Ho la mente libera da tutti i pensieri che contemplano lei. Scarrozzo, sicuro come un moderno Carlo Magno della Bassa, su queste strette strette lingue di graniglia schivando invitanti buchi neri ed evitando banchine intransitabili a pochi metri da un fiume melmoso che, arrogante, si è steso come un fazzoletto lercio nella golena infestandola di cadaveri di pecore, demoniache zanzare, fertili nutrie e flaconi di plastica, lambendo la base di pioppi giluvi e salici dal portamento palesemente gay. Sto molto attento a non finirci dentro. Non tanto per me quanto per quel povero ragazzo che transitando per questa strada, con un'erezione vistosa rinchiusa nei jeans e una ragazza poco distante (dall'erezione), con mille e più fantasie erotiche a spasso per la sua mente cresciuta a suon di film porno veri, quelli degli anni d'oro, gli ottanta: la belle epoque del pelo pubico incolto, vedendomi capottato ed incastrato in quelle maledette lamiere non ancora mie, come sapesse che mi mancano ancora settantasei rate, si troverebbe costretto, spinto da un maledetto ipocrita senso civico d'altri tempi e duro a morire, a buttarsi in questa immensa distesa merdosa per salvarmi da una morte sicura e permettermi di rovinarmi definitivamente la vita pagando rate su rate per i prossimi anni a venire e vedersi spalancate per l'eternità le scultoree gambe della sua compagna. Fanculo. Quindi guido con estrema prudenza. La radio trasmette un insolente concerto barocco eseguito per l'occasione da una pretenziosa orchestra padana composta da rane, cicale, gufi, grilli e civette. Il rumore placido placido del motore fisso sui duemilacinquecento giri al minuto entra nell'abitacolo dai finestrini, abbassati per non soffocare, insieme ad un nugolo di zanzare danzanti, eccitate come quindicenni a Riccione e vogliose di esibirsi in numeri circensi sul mio sanguigno collo e sulle mie succolenti braccia.
"Ecco a voi, gentili spettatori, la più attesa, la più feroce, la più indomabile zanzara della bassa padana... stasera, solo per voi, seguiremo insieme il numero della famelica zanzara tigre..."
La luna fa capolino solo dopo la quarta curva a destra. Scomoda, si affaccia timida e pallida dietro cumulonembi violacei. L'avrei desiderata gonfia e tronfia, gravida e raggiante. Invece no. Come spesso accade, anche stavolta quello che vorrei non è quello che ho. Ma, diversamente, non mi frega un cazzo, stasera, e mi riconosco nella luna, ugualmente. Mi ci specchio dentro come in una pozzanghera che non riflette. Mi sento il viso pallido e avverto dentro di me una piacevole leggerezza di mente e di pensiero tipica delle serate trascorse a far capolino dietro spesse bottiglie opache verdognole di rubino Lambrusco ruspante. Questo mi infonde nuova forza. Energia. Felicità. Gioia. Ebbrezza. Un tarlo fisso in testa però c'è. A volte non lo sento ma so comunque che c'è e, cazzo, martella: lei. Lei. Questa sera, mi spiace, ma non è per lei. No. Stasera è solo per me. Me. Stasera sono l'imperatore di questo posto sperduto del cazzo. Del regno che nessuno conosce e vuole. Sono il centro del mio sistema solare e, crollasse il mondo, non intendo cadere nel solito tranello. Fanculo: ti esilio dalla mia mente e dai miei pensieri!
Sbirri su queste strade non ce sono mai. Manco le conoscono, forse, queste strade che non portano da nessuna parte. Coppola, Francis Ford intendo, se avesse saputo che al mondo esiste questo posto, avrebbe sicuramente ambientato quì Apocalypse now. Di spazio per l'introspezione, quì, ce n'è a bizzeffe. Tu, Francis, e tutti voi altri registi del domani, ascoltate me: girate il mondo e non lasciatevi suggestionare dalla sempliceità e dalla banalità, cazzo! Ma sbirri, per fortuna, niente, non esistono. Così stanotte mi posso permettere di guidare come un tempo: felice fino al midollo, con la bocca impastata, respirando l'odore della vita. Dell'orzo maturo. Dell'erba umida. Del pelo bagnato. Della merda di vacca. Scruto un punto luminosissimo nel cielo vinaccia, in alto, a destra del mio parabrezza. Che parola magnifica e d'altri tempi è parabrezza? Sentite: para-brezza. Ah, che goduria. Mi suona di Fitzgerald. Di automobili anni trenta con la capottina in tela a cento all'ora sulla costa del Maryland e di notti fumose traboccanti swing in scantinati newyorkesi al sapore di whisky... o di erre moscia busona, di Côte d'Azur, Saint Tropez. Quando la sento pronunciare immagino una splendida ragazza accoccolata in una splendida Morgan beige, con un foulard che le raccoglie i capelli e gli occhiali dalla montatura importante che le schermano gli occhi. Quanta bellezza. Poi, mi suona anche di pic-nic su verdi alpeggi svizzeri... Fatto sta che questo punto luminoso luminoso emana più luce della luna stessa. La relega addirittura in secondo piano. La sminuisce e la surclassa. La umilia. Ma quel punto non è una stella, sarà Venere. Un pianeta cazzuto. Popolato da fichissime Venusiane. Quindi, non ti preoccupare, oh dolce luna, non è colpa tua... Fanculo. Fermo la macchina e spengo i fari. Il concerto intanto continua imperterrito a tenermi compagnia. Anzi, ora conquista volume e pienezza. Non c'è un cane in giro in questa penombra. Sembrano le due del pomeriggio del giorno più caldo d'agosto in piazza a Castrofilippo, in Sicilia. Il deserto e la pace. La quiete senza la tempesta. Smonto dall'auto e con cautela mi sdraio supino sull'asfalto. Emana ancora un pò di caldo che non serve. Allora mi metto le mani congiunte dietro al capo e fisso il cielo girare e girare.

martedì 22 giugno 2010

Intermezzo con un protagonista estremamente impegnato

Non c’è molto tempo. Facciamo come se dovessi improrogabilmente uscire. Come quel trattenere il respiro in autostrada dimenticando la luce accesa della riserva proprio mentre ci passa accanto un'altra stazione di servizio. Insomma la sensazione è che vorrei essere qui ma non dovrei. Roba da psicosi adolescenziale. Per lo meno non bevo. Sempre perché devo uscire e il rispetto delle leggi e quelle cose lì. L’adattamento acritico appunto. Quanti slogan mi vomiterei addosso ma è così. sono pure elegante. Mi hanno convinto a non andare in giro nudo per casa. E non è stato l’inverno ma il senso civico. Quello che mi fa sorridere ai vicini di casa. Anche a quello con il cane minuscolo che probabilmente fa barbie di cognome. E sicuramente fa casino. Al mattino alle 7 quando grazie a Dio dormo ancora. Essì che non devo tirare indentro la religione. Con tutte le cose che succedono ora. L’attualità che è estremamente di moda. Che fingo di interessarmi. Che ripropongo. Polpettoni rimasticati di notizie del bar, radio, internet. Qualcosa che mi dia una scusa per parlare. Per distogliermi dal ragionare che sennò sembro antipatico, asociale. E non si può mica. Nossignore, bisogna esserci perché chi non c’è non esiste. Roba da nascondino reificato. Roba da social network. Chissà perché nessuno usa più messenger, ora che sapevo usarlo così bene.
Bè ora devo fingere di uscire per davvero.

giovedì 3 giugno 2010

Spiaggia

Passeggia con le sue gambe depilate da calzetti in filo di scozia. Ripete sempre lo stesso avanti ed indietro. Pesta sui suoi passi di sabbia capovolti e poi li capovolge di nuovo. Crede di non pensarci ma è così. Intanto si tiene il telefono appoggiato cortesemente all’orecchio. Usa tre dita. Questa posizione mi sembra ricalcare scene ottocentesco fatte di ore del tè e mignoli nobilmente sollevati. Ma fa troppo caldo per il tè del pomeriggio. Andrebbe bene una di quelle bevande colorate da sportivi. Integratori energetici o cazzate varie. Sponsorizzate dal bicipite o lo scatto di qualcuno. Persone informate sui fatti mi hanno anche detto provochino la cellulite ma non ho verificato su wikipedia. Ogni tanto mi fido.
L’aria sa di mare in una bottiglia di birra sporca.
Carpisco qualche parola della conversazione ottimistica che mi sfila davanti.
Scommetterei le palle che i suoi occhi non ridono come voce e sorriso. Scommetterei che pure lui si domanda “che ci faccio qui”. In fondo. Ma forse è troppo. Non pare improvvisato come il sottoscritto. Ha un ombrellone con 2 sdraio ed una sedia da regista pagati per tutto il mese, una collezione che qualsiasi dentista invidierebbe di Focus e Vanity Fair, un paio di figli che poco lontano danno la caccia ai granchi raccogliendoli codardamente con una lenza da pesce dentro in secchiello, una accompagnatrice con le tette nuove di zecca che quasi c’è ancora l’etichetta con il prezzo. Si vede da come cammina per tornare allo sdraio. Roba da film porno ma senza tacco alto. Io intanto macero nel mio asciugamano Tribord che tenta continui decolli sollevando la sabbia che mi si appiccica, sulla crema distribuita male, sul sudore della fronte, su un libro noioso aperto a pagina 123.
La telefonata intanto continua ad andare avanti e indietro.
Non sono il solo a fissare la perfezione delle tette finte. Io a differenza degli altri però solo lo faccio senza occhiali da sole e con la faccia di chi sale a 12 anni per la prima volta sulle montagne russe. Sorriso d’avorio mi guarda ripetendo al telefono: “benissimo” e “grande!”. Uno dei figli urla ed un altro lo soccorre schiacciando un granchio minuscolo con una paletta dalla punta di ferro. Il suono è più o meno quello di un campanaccio suonato senza lasciarlo vibrare ma ha il sapore di un inatteso calcio nelle palle. Per cinque secondi i fratelli biondi con la pettinatura da surfista diventano i protagonisti dell’attenzione del circondario. Rimangono immobili guardandosi attorno quasi stessero salendo cinque piani con un ascensore.
Poi torniamo tutti alle nostre occupazioni. C’è un gran rumore di riviste che si sfogliano. Qualcuno si schiarisce la gola. Tetta si gira a pancia ingiù sulla sdraio. Con una delicatezza da pubblicità del bagnoschiuma.
Mi chiedo davvero come andrà a finire mentre cerco di recuperare una posizione comoda ma proprio non ci riesco.
Per fortuna arriva il bagnino e mi ricorda che quella è una spiaggia privata e che se non ho intenzione di prendere un lettino posso spostarmi e cercare l’oasi caotica della spiaggia libera.
Per un momento tutti mi guardano come quando suona l’allarme proprio mentre si esce da un negozio. Disapprovano.
Il bagnino ha una voce per nulla cordiale. È chiaro che non mi vuole ospite del suo prestigioso bagno. Ripasso la filosofia spicciola da manifestazione ormonale degli ultimi anni di scuole superiori ma non dico niente. Guardo i peli rivoluzionari sui miei polpacci e me ne vado raccogliendo alla meno peggio le mie cose.
Al bagnino auguro ogni male possibile.
Odio la riviera romagnola.

sabato 15 maggio 2010

Sopra le Nuvole

Mi disse che sopra le nuvole era sempre sereno.
Quel giorno pioveva e noi ce ne stavamo con i vestiti umidi aggrappati ad una tazza di tè caldo. C’erano queste bustine ricercate in una scatola etnica che ci guardava esplicitamente aperta. Violata. Nell’aria c’erano odori variegati associati necessariamente a nomi impronunciabili. Musica bassa ma avvolgente come un cuscino di piume.
Eravamo a casa sua. Una casa di candele consumate e piatti dimenticati nel secchiaio troppo piccolo. Aria di possibilità come i primi giorni di vacanza.
La guardai senza rispondere. Non avevo in mente una specifica espressione. Era come non avessi niente da trasmettere. Come bastasse essere, senza le complicazioni dell’avere e del sentire.
Lei prese un sorso dalla tazza soffiando appena un attimo prima di appoggiare il labbro superiore sulla tazza di terracotta. Il fumo le disegnò baffi surrealisti che le salivano alle orecchie tra i capelli sciolti. Aveva l’intenzione che le usciva dagli occhi chiari rimbalzandomi addosso.
In quel momento le mie sensazioni avevano il sapore allungato del vino rosè. Mi sentivo avvolto comodamente da una elegante giacca al piombo da radiazioni. Tra il passivo e disinteressato. Quasi appoggiato all’area rinfreschi di un vernissage.
Pensavo a qualcosa che avevo letto o al lunedì che mi aspettava marziale come una interrogazione di matematica. E in questo avrei dovuto chiedermi che fare. Invece niente: non mi distraevo e non cambiavo.
Lei mi chiese di portarla via: “da qualsiasi parte”. C’era in ballo “il nostro viaggio”. Una ragione come tante per rimpiangersi quando si pensa ad un città qualunque. È un gesto di autolesionismo contro la propria stabilità e la felicità dell’accontentarsi.
Ci allontanammo quindi da quel cielo grigio per un po’, euforizzati più dalla possibilità che dall’effetività delle nostre destinazioni. Facemmo un elenco delle città che rappresentavano increspature nelle nostre linee del passato ed alla fine decidemmo per Berlino.

Solo dopo il decollo capii cosa voleva dire Stefania in quel giorno di pioggia. Peccato alla fine non ci fosse lei accanto a me, magari avrei avuto qualcosa da dirle. Per una volta.

domenica 2 maggio 2010

Squat Party

Era un giorno di festa, un venerdì od un lunedì, e camminavamo. C’era questo colore diffuso ma intenso che sfumava i contorni degli arbusti avviluppati su se stessi che passavamo. Era presto al mattino ma non avrei saputo dire che ore fossero. Eravamo entrati in quella casa che era buio e ce ne andammo che c’era abbastanza luce per distinguere le marche diverse delle lattine che sporcavano il giardino ed il sentiero che portava alla festa da una rinomata via dei quartieri alti. Era come se avessi caldo ma senza necessità. Mi crogiolavo nella mia felpa e nella secchezza dell’epiglottide. Valeria invece sembrava quasi avere un po’ freddo. Ciononostante mi camminava accanto. Non avevamo un piano chiaro, volevamo solo allontanarci da quello che era stato la notte precedente. Prendere le distanze da quelle proiezioni danzerecce ed effimere di noi stessi.
Darci un contegno.
Serietà.
La questione è che non avevamo idea di dove cazzo fossimo. Mi rendevo conto finalmente di tutti i chilometri di terra ed acqua che mi separavano da quella che ancora chiamavo casa. Il posto dove sono nato e dove c’è ancora qualcuno che si ricorda di me con l’incedere delle festività.
Qualcuno che mi manda SMS con scritto “Buona Pasqua!” lasciando tutto all’interpretazione. Necessariamente maliziosa, pornografica.
Comunque c’erano questi toni pacati ed io mi domandavo se il contatto che c’era stato con Valeria fosse stato incidentale o significativo.
Lei probabilmente si chiedeva lo stesso.
Augusto che ci seguiva qualche metro più indietro ci domandava se sapevamo dove andare.
Mi parve intuire che lui sapesse qualcosa che noi ignoravamo. Ma sbagliai, nemmeno lui si ricordava come eravamo arrivati fino a lì.
Intanto continuavamo a camminare ed io coprivo le mie incertezze con discorsi inconcludenti e vagamente interessanti.
Valeria mi camminava abbastanza vicino da ricordarmi il suo odore.
Ero plausibilmente felice.
Augusto si guardava attorno ripetendo “maccheccazzo”.
Ed arrivammo in una strada asfaltata. Una strada qualsiasi con le case a 2 piani dipinte di un bianco ostentato che faceva da eco al nostro incedere.
Valeria mi sorrise.
Augusto smise un attimo di lamentarsi tenendo comunque la bocca aperta mentre stringeva gli occhi per trovare una fermata dell’autobus.
Decidemmo di muoverci in una direzione.
Accompagnato dal ritmo dei passi rivedevo me e Valeria in quella stanza di sacchi a pelo. Stavamo sdraiati e lei aveva la testa sul mio petto proprio sotto al mento. Io guardavo in alto. Un soffitto di stucchi e ghirigori ci tacciava di vilipendio.
Come avevo conosciuto Valeria? Perché non era successo prima in tutti i quei mesi in cui riciclavo le emozioni di canzoni che ascoltavo e riascoltavo convincendomi parlassero di me? Perché ero ragionevolmente convinto che di lì a poco avrei rovinato tutto?
Sembrava che tutto sommato fossimo nella direzione giusta.

Augusto mostrò il suo biglietto contraffatto ed io lasciai due monete al conducente per me e per Valeria.
Ci sedemmo nei posti più comodi, riservati ai disabili.
A condividere il viaggio con noi, oltre all’autista, due ragazzi della nostra età vestiti di arancione diretti al lavoro.
Valeria si lasciò prendere la mano.
Augusto raccontava di un suo zio che viveva a Mosca e che se volevamo per Natale potevamo raggiungere.
Erano inviti dichiaratamente inconsistenti. Ciononostante mi feci coinvolgere nel progettare il capodanno a Mosca.
Sicuramente avremmo bevuto vino italiano.
Mi chiedevo se Valeria sarebbe venuta con me. Avevo il bisogno di inquadrare la mia situazione e le prospettive. Avevo bisogno di attaccarmi a qualcuno e scaricarne le emozioni. Ero convinto quel qualcuno potesse essere seduto accanto a me con un maglia viola a maniche lunghe, un paio di jeans blu scuro dagli orli consumati ed Allstar bordeaux. Chiaramente parlo di Valeria. Augusto non portava quasi mai scarpe sportive.
Alla fine l’autobus ci lasciò in un quartiere che ci era già più familiare. Deserto e teso per la mancanza di avvenimenti. Ci saremmo potuti commuovere nel vedere una vecchia trascinarsi due sacchetti di carta pieni di pane fresco. Ma non successe. Camminavamo come i primi uomini su una terra organizzata e strutturata in palazzi e villette bifamiliari. Augusto continuava a parlare di qualcosa ma nessuno ci dava molta importanza. Nell’aria doveva esserci anche qualche odore ma i miei sensi consumati rimandavano idee di plastica sterile delle buste Coop.
Valeria disse qualcosa circa l’immortalità.
In quel momento mi sembrava tutto quello che si potesse dire ed ora non ricordo nemmeno bene cosa modulava la sua voce timida dai contenuti convincenti.
Fatto sta che quel momento me lo dovevo ricordare e nessuno dei nostri telefoni aveva una fotocamera integrata.
Quindi inghiottii ancora un altro po’ di aria che risultava sintetica al mio gusto consumato da una notte che mancava di pezzi convincenti e di un sensato concatenamento di eventi.
E ancora qualche passo. Fino ad un incrocio dove sembrava esserci qualche rumore.
È lì che vedemmo due camion dei pompieri incastrati l’uno dentro l’altro come un bruco a due teste contorto dall’indecisione.
Il quel momento non ci sembrava vero.
Ma vi giuro che lo era.

martedì 27 aprile 2010

Intermezzo musicale lento, roba da limone

È successo a miliardi di chilometri da qua in un mondo che sembra più una parodia del passato in cui tutto risulta divertente. Anche rompersi una gamba per inseguire un sogno e arrivare di corsa ad aprire la porta al postino. È che non so perché mi viene in mente ora. Forse solo non ho niente da inventare e ancora tempo per qualsiasi decisione di attività. Procrasitiniamo quindi decisioni e un’altra giornata da archiviare. Rimaniamo nel purgatorio del tardo pomeriggio pubblicitario e dai colori decisamente troppo anni ottanta per lasciare sopravvivere la logorroica televisione. Con uno nuovo slang che avanza ricordandoci l’evoluzione della specie al contrario. L’implosione.
Ricordo il pranzo. E Chiara. E che avremo mangiato al massimo una volta assieme in quella sua scalcagnata tavola triangolare appoggiata al muro. E avevamo mangiato qualche pasta condita con un sugo direttamente dal barattolo che aveva raffreddato immediatamente il piatto. Ed io avevo una camicia rosa. La stessa che ora ha i polsini consumati e non va più bene nemmeno sotto ad un qualche maglione. Che aspetta la pena capitale da una gruccia in angolo nell’armadio. Qualcuno direbbe che avrei dovuto fare il cambio di stagione. E non avrei niente da ridire. Niente di cui ridere. E quindi torno a quel’1 e 15 in quella stanza mansardata. O mansarda stanzata dall’impossibilità abitativa che ne suggeriva. Dai mobili in legno a vista. Dal divano letto sempre aperto nel soggiorno. C’era anche un computer lasciato acceso a svuotare di significato la parola videonoleggio per contribuire a modo suo al progresso linguistico del nostro ridondante dizionario. E ci dicemmo buon appetito immaginandomi più grande mentre lei sembrava immaginarmi più interessante. Probabilmente per il piacere di farci false illusioni. Probabilmente per il piacere di confondersi. Immaginarsi in un film che ci guardano da fuori. più o meno interessati. Ma lì con la luce bassa ed una seduta diventata ergonomica dall’abitudine.
E non so cosa volevo dire.
Ma mi sono stancato.

mercoledì 14 aprile 2010

La grande rimpatriata

Non posso farne a meno eppure lo so che non dovrei. Me l’hanno anche insegnato ad un corso di scrittura, di quelli che si pagano. Di quelli dove puoi anche berti una birra durante la lezione. Quelli in cui c’è l’insegnante di spicco. Qualcuno che è stato più o meno pubblicato e più o meno letto. Qualcuno che per quelle due ore tutti vorremmo essere. Magari con 25 anni di meno.
Insomma il concetto lo conosco: mai parlare di qualcosa di troppo attuale. Soprattutto mai parlare di qualcosa che non hai nemmeno molto chiaro perché ci hai bevuto troppo sopra.
E c’è anche qualcosa tipo: la vita vera non è interessante. È solo uno spunto, una brutta copia.
Un refuso. Quanto mi piace questa parola.
Soldi spesi bene in quel corso.

Nonostante tutto ieri ci siamo rivisti dopo tanto tempo. Una cosa in grande col tavolo prenotato, i segnaposto, gli album fotografici e le macchine fotografiche digitali cariche come un ventenne con un vodka redbull in mano. Il locale era a metà tra il ricercato e il kitch arancione e azzurro anni ottanta. Le bariste non erano male. I prezzi della birra inaccettabili.
Per l’occasione avevo pensato a comprare un vestito per distorcere la percezione che si poteva avere della mia vita. Fortunatamente poi mi distrassi a pensare alla fine che poteva aver fatto Caterina. Mi avevano garantito ci sarebbe stata nonostante non fosse raggiungibile su Facebook. Mi ero anche informato, non aveva ancora figli. Qualità sempre più rara.
Quindi mi ero deciso ad andare per lo meno dal barbiere. Ma non avendo prenotato al massimo potevo farmi una lampada.
“guarda oggi proprio non ce la faccio, se vuoi puoi fare una lampada” mi aveva detto così Mirko all’ingresso col suo sorriso deliberatamente ambiguo e il suo fare piacione che tradiva una certa eterosessualità controproducente.
Declinai l’invito e me ne andai avvilito con i miei capelli confusi che tiravano un sospiro di sollievo.
Detto ciò torniamo alla serata. O arriviamoci che è quasi ora di cena e le necessità fisiologiche sono decisamente prioritarie a qualsiasi sbrodolata di fatti miei più o meno accaduti ieri.
Fatto sta che alla festa c’era Caterina ed era forse più bella di come me la ricordassi, ma ero già ubriaco e non molto obiettivo.
Mi sembrava avesse anche le tette più grosse.
Qualcuno ha anche detto deciso come il Capitan Findus che se le fosse rifatte.
Qualcuno sosteneva che il Bologna avesse ottime possibilità di salvarsi dall’imminente retrocessione.
Qualcuno gli dava dell’imbecille e veniva quindi definito gobbo.
Io posso dirvi che Caterina me la sono scopata.
Ma si sa: in queste occasioni si raccontano un sacco di stronzate.

Penso sempre di più che il nostro grande mentore pluripremiato scrittore di spicco nella Bologna underground avesse ragione.

mercoledì 31 marzo 2010

La Radiosveglia

Non è un racconto. Anzi: sto cucinando. Questo nel mondo reale, quello di una attualità troppo schiacciante ed interessante da sintetizzare in poche righe. Troppo evidente per declinarlo in aggettivi tutto sommati insipidi. Come la pasta che si scalda sul fuoco. Nell’acqua che bolle. Una scena da film. Ci vorrebbe solo una sigaretta accesa che si consuma dimenticata in un posacenere ricercatamente sponsorizzante qualche marca di tonno non più in commercio.
E certo anche un buon odore di vino d’annata non guasterebbe.
Sono abbastanza sicuro che Sabrina non tornerà nemmeno stasera. Ciononostante cucino per due.
C’è da dire che cucino molto bene anche se ultimamente non ho molti ospiti. La responsabilità è tale che non ho un attimo di vita libera per organizzarmi oltre gli aperitivi con i colleghi in cui parliamo di lavoro e della segretaria. Tanto per sentirci uomini. Ogni tanto mi interesso anche al calcio ma se ho ancora qualche difficoltà ad inserire il trofeo Moretti in un discorso prettamente agonistico. Competitivo. Anche per questo continuo a bere birra di importazione. Per quel che importa.
Se a qualcuno importa.
L’importante sarebbe che l’ultima settimana fosse stato un brutto sogno che implode con la radiosveglia del mattino. Ma è come se il tempo finalmente avesse ascoltato le mie preghiere di dilatazione che ripetevo il giorno prima di un esame. È come se domani mattina non mi dovessi svegliare sperando di avere ancora qualche camicia non troppo sporca e non troppo incartapecorita da offuscare la mia proiezione di successo mentre passeggio con gli occhiali da sole di ordinanza fino al mio ufficio.
Per chi se lo chiedesse faccio il consulente assicurativo.
Per chi se lo chiedesse sono iscritto regolarmente nel RUI.
Per chi se lo chiedesse le mie provvigioni sono ragionevolmente alte e frequenti e la mia auto è deducibile all’85%.
Per chi se lo chiedesse questa è la stessa giacca che portavo lunedì e che probabilmente porterò anche venerdì.
Il sabato mattina lavoro. È anche per questo che Sabrina se n’è andata. Perché un venerdì sera le ho detto che non avevo nessunissima voglia di uscire.
A chi interessasse quella sera lei è uscita lo stesso ed è tornata ragionevolmente presto al mattino. 2 ore prima che la mia radiosveglia si allertasse.
A chi interessasse quella sera Sabrina ha conosciuto qualcuno che l’ascoltava veramente. Qualcuno di più economico del suo psicologo. Probabilmente accettava probabilmente anche pagamenti in natura.
Questo a me non lo disse mai. E non lo volli sapere.
E con tutto questo non voglio dire che Sabrina valesse poco a letto.
Anche per questo ho provato a restituire il materasso sfondato all’Ikea e sarebbe andato tutto bene se non ci fossero state tutte quelle bruciature di sigarette.
La sostanza è che anche stasera mi trovo a cucinare con questa giacca addosso sperando che succeda qualcosa.
Almeno fino a che la mia radiosveglia non suona.

venerdì 19 marzo 2010

Maria la tettona

Stanotte sono rientrato tardi. A notte fonda. Sbronzo quanto basta dopo un aperitivo lungo di quelli che ti fanno dimenticare alcune condizioni necessarie ma non sufficienti per tenere uno stile di vita sano od un discorso in pubblico. Ho lottato valorosamente con la forza centrifuga del mio cervello e sono sceso a patti con il mio stomaco: ora tu tieni tutto dentro e mi lasci addormentare, io domattina ti rimpinzo con una bella colazione ricca di fibre. Ho cercato di leggere qualche pagina de "I segreti erotici dei grandi chef". Mi sono stupito del fatto che leggevo le parole senza assimilarne alcun significato e che a Edimburgo ci fosse, non solo il mare, ma anche un porto. Io ci sono andato in aereo e credevo fosse in collina. D'ora in avanti dirò che sono stato al mare ad Edimburgo. Poi penso di essere svenuto per un pò.
Stamane ho fatto tutto di soppiatto: ho spento subito la sveglia dopo il primo trillo, non ho chiuso la porta del bagno per non far rumore, ho pisciato da seduto ed ho persino evitato di mettermi le scarpe in casa. Ho resistito alla tentazione di manifestare al mondo intero il mio malessere fisico e la mia sofferenza interiore per mezzo di una bestemmia originale ed ho lasciato le tapparelle abbassate. Ho abbeverato i cactus silenziosamente.
Bè, si sono rivelate tutte precauzioni inutili: Maurì, mi ha atteso al varco. E' stata una scena molto cinematografica che provo a riproporre. In pigiama rosso cardinale con caravelle color marrone fumo pakistano sparse su tutto il petto, con gli occhi cisposi traboccanti sonno e scarmigliato quanto basta dopo otto/nove ore di sonno, con le braccia conserte e appoggiato con una spalla allo stipite di camera sua, mi biascica in un accento misto calbro-siculo naturalizzato milanese:
ti sei ricordato delle due spugnette?
L'ho guardato senza vederlo ed ho smorzato in gola un rutto acido che sapeva ancora di birra. Già, Tennent's Super. Ero indeciso se rispondere o meno oppure chiudergli la testa in mezzo alla porta fino a vederlo render l'anima, dunque pisciargli addosso. Ho chiesto l'aiuto del pubblico ed ho fatto l'esatto contrario di quello che mi ha suggerito. Non ho risposto e non gli ho nemmeno fracassato la testa ma solo perchè non sarei riuscito a pisciargli sopra avendo svuotato la vescica poco prima. Mi sono limitato a roteare gli occhi in senso orario riempiendomi i polmoni di mezzo metro cubo d'aria marcia. Dunque sono uscito di casa con le scarpe in mano e col peso della vita sulle spalle.
Ho fatto le quattro rampe di scale con la carta da parati verde acido alle pareti ed ho respinto un primo conato di vomito mentre salutavo la donna delle pulizie, poi ho ritenuto opportuno infilarmi le scarpe e l'ho immediatamente fatto. Ho perso il bus per una manciata di effimeri secondi e non ho nemmeno avuto la froza di inveire contro l'autista, il governo e lo Zio Sam. Con gli occhi rivolti al cielo ho apprezzato il pallido sole che mi salutava con un sorriso sornione e mi sono rassegnato ad andare a piedi sino alla stazione della metro cercando qualcosa di positivo cui pensare. Non ci sono ruscito e come da mesi mi succede ho ripensato sempre alla stessa cosa. No, non a Clara, ormai mi sono rassegnato. Sono mesi, forse anni che cerco di scrivere il libro della mia vita. Tutto è pronto nella mia testa per essere tirato fuori. Ma, al momento niente da fare... non mi resta che aspettare, mi dico cercando di convincermi che prima o poi dovrà succedere.
Nel frattempo, giro come una trottola, conosco gente nuova che di nuovo ha solo il nome, scatto foto brutte che poi cancello o dimentico di aver scattato, bevo birra, leggo qualunque cosa mi capiti a tiro e arrivo sempre più tardi al lavoro. Poi c'è sempre quella vecchia storia su Maria la tettona ma, se ne avrò voglia, ve lo racconterò un'altra volta.

martedì 2 marzo 2010

Cielo

Non capita spesso di guardare in alto. Di solito succede quando si sta sdraiati o appena saliti su una macchina decappottabile. Raramente succede passeggiando. Mai per il centro. Il cielo è una cosa scontata quasi quanto le strade che portano da una località ad un’altra. Il cielo è funzionale a parlare di tramonti e di albe, di sole e di luna. Qualche volta delle nuvole. Cielo è una delle parole che sbagliavo sempre a scrivere a scuola. Il cielo per me è sempre stato corretto a penna rossa e sottolineato due volte. È diventata una parola su cui inevitabilmente mi soffermo. Prescindendo magari dal significato. Cielo spesso identifica Dio od il paradiso.
Oggi stavo passeggiando ponendomi qualche assurda domanda che c’entrava con le otto ore che avevo passato seduto dietro alla scrivania bianca e computer nero che definiscono la mia postazione di lavoro. Guardavo avanti cercando di identificare qualche persona che avrei avuto piacere di incontrare. C’era questa inattesa aria primaverile che sa di birra in lattina bevuta seduti su qualche gradino di una piazza. I miei passi erano semplicemente un modo per prolungare il limbo tra il lavoro e la vita domestica. E non importava che le scarpe mi facessero un po’ male dietro il tallone destro, andavo avanti. Non c’era chiaramente nessuno che conoscessi ma ogni faccia che incrociavo sembrava famigliare e quasi piacevole. C’era una ragazza bionda che inequivocabilmente me ne ricordava un’altra, un ragazzo allampanato che dovevo aver già visto se non qui in qualche viaggio. C’era pure uno che avrei potuto essere io. Anni fa certo. Quando avevo ancora una giacca di pelle. Forse era il brano casuale che suonava dalle cuffie ma tutto sembrava galleggiante. E non importava più nemmeno quella domanda che ostinatamente ripetevo a labbra sottili da quando avevo timbrato il cartellino col mio numero di matricola 761. Sembrava bastasse quello. Mi sorpresi a guardare in alto. Un frangente. Subito sopra ad un lampione lucido con stile retrò c’era un cielo che sceglieva i vestiti per la serata con l’indecisione di una ragazza di diciassette anni. Ed io mi sentivo semplicemente trascinato avanti come si fa quando il cane marchia un territorio che non è suo ma della ruota anteriore della vostra Volkswagen. E come tale ero un po’ indeciso tra l’essere o il diventare. Avrei potuto fare qualsiasi cosa in quel momento. E così sono tornato a casa dopo essermi inciampato su un cartello di cartone che comunicava l’assenza di: lavoro, famiglia, cibo e soldi del proprietario che sedeva poco lontano con una cappello sformato basso sugli occhi.

martedì 23 febbraio 2010

Il suo inatteso regalo di Natale

Il suo regalo arrivò inatteso. In fondo Natale era passato da un pezzo. Ci eravamo frequentati da novembre a gennaio con l'entusiasmo della coppia matura. Senza pulsioni. Tendenti ad una reciproca dipendenza psicologica. E poi bevevamo un sacco. Malinconici come un prodotto di sottomarca del discount che sfilava ogni giorno a destra dell'autobus per la strada da casa al lavoro.
Disse che mi avrebbe stupito. Lo fece con il suo sorridere piatto ed orizzontale, un mese prima di allora.
Era la vigilia di Natale. Io e lei lontano da tutti. Eremiti al 2 piano di quella stanza precaria e poco sofisticata. Minimalista più per possibilità che per scelta. Dai muri usati e pavimento sommesso. Dalle cicatrici nell'intonaco e le ante semiaperte del mio armadio pieno di troppe camicie da stirare. Dall'odore freddo e chiuso come dentro ad un frigorifero affamato.
Eravamo quindi uno davanti all'altra.
Guardavo le mie gambe incrociate immaginando i suoi capelli biondi, in cerca qualcosa da dire per sdrammatizzare.
Manifestavamo una troppo esplicita indifferenza per non essere studiata. Natale lo avevamo sempre celebrato. In un modo o in un altro. Comunque per l'occasione avevo anche nascosto il calendario. Ci eravamo sigillati fuori dalle stanze dei coinquilini lasciate vuote di corsa. Avevamo lasciato le luci intermittenti festeggiare ignorate fuori dalla finestra.
Poi crollò il castello di carte.
"insomma, buon Natale" dissi incerto da un pacco di pochi millimetri di spessore fatto di una busta di Ricordi pinzata alla meno peggio.
Si leggeva benissimo la scritta Sonic Youth ma lei domandò lo stesso che fosse.
"Cos'è?" disse.
I miei occhi delusi balbettarono un momento.
E un altro.
Imbarazzo.
Alla fine si decise a strappare la plastica.
I suoi denti sorrisero.
La mia spina dorsale aveva passato il materasso ed ora grattava le doghe in legno lasciando solchi di inadeguatezza. Aritmia ed asincronismo.
Vicino mi guardavano dal comodino in legno impiallaciato scarti di pollo arrosto ed un fondo di vino. Non eravamo ancora al dolce ed eccomi già all'amaro.
Lei era comunque lì e pensava probabilmente ad altro. Quasi saffica.
“Eccheppalle” pensai. Forse riferito al momento, forse riferito alla situazione. Forse per stemperare i pensieri con un lamento generico.
Mi sentii subito meglio.
Quindi passammo alla seconda bottiglia di vino parlando dei significati profondi delle derive della new wave. Io mi limitavo ad ascoltare, mandare giù, annuire.
presto ero ubriaco ma con la moderazione da primo giorno di scuola.
Lei aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi e in quel momento sembrava bellissima. E magari lo era anche in realtà. Mi sentivo vagamente fortunato. In fondo chissà quanta gente si stava suicidando in quel esatto momento.
Lei continuava a parlare tra l'accondiscendente e l'affermativo scientifico. Infarciva il tutto con parole difficili. Ogni tanto mi toccava ora il ginocchio ora la testa, proprio sopra l'orecchio destro. Mi baciava sulle labbra con poco trasporto. Poi ricominciava a parlare ed io rimbalzavo indietro nonostante il materasso duro.

Il suo regalo arrivò a febbraio. Lo andai a ritirare in posta una sabato mattina che non faceva un gran bel tempo. C’erano quelle nuvole grigie stitiche che appiattiscono un po’ tutto. E l’aria era decisamente quella ancora tirata verso gli strascichi della notte. In posta non c’era molta gente, giusto qualche anziano che non aveva chiuso occhio tutta la notte cercando di ricordare qualche faccia o nome che avevano avuto incidenza sulla sua vita. Era ancora lì che masticava cercando di togliersi qualche indizio dalla punta della lingua. Con i capelli spessi e bianchi ed un cappello di panno. C’erano i numeri che si avvicendavano ed io ancora non sapevo cosa stavo aspettando. Quando mi consegnarono la scatola mi sembrò di ricordare la sua scrittura. Ma in quel periodo mi confondevo spesso giurando di incrociarla in questo o quell’altro posto e mi ero abituato a lasciar perdere qualsiasi deduzione. Quindi uscii nel fatiscente cortile dal porticato in ferro rosso e ruggine e mi sedetti tranquillo al freddo su un blocco di cemento armato scartando il pacco con calma che aveva la dimensione più o meno di una scatola da scarpe. Dentro non ci trovai niente di speciale accompagnato da un biglietto di auguri di Natale.
Ritenni comunque necessario inviare un messaggio a Sabrina ringraziandola per quel pensiero stupendo che aveva avuto. E non mi dispiacque poi tanto non rivederla mai più.