mercoledì 18 aprile 2012

Fuochi d’artificio, panettone ed il Titanic


Passo casualmente davanti al calendario fermo a qualche mese fa. Lo guardo con gli occhi stupiti dei fuochi d’artificio di ferragosto, a cinque anni. Quando è speciale trovarsi in spiaggia dopo che il sole è tramontato. C’è l’odore dei gamberetti che si bruciano e del vino bianco dimenticato aperto, e basta guardare il cielo per immaginarsi tutto ed essere felici. Così, come se esistesse solo quell’istante. E fosse tutto perfetto.
E sorridere.
E dire: “guarda quello!”.
E applaudire mentre tra i tuoi genitori c’è un silenzio imbarazzato che nemmeno la eco delle esplosioni riesce a riempire. Ed il mare nemmeno ci prova. Calmo e inutile come può essere l’Adriatico. Quei giorni sono lontani che quasi non ci sono mai stati. Più lontani dei mesi che mi sono lasciato indietro senza girare le pagine poco originali del calendario regalato dal supermercato. Me lo ricordo ancora quel giorno.
Era passato Natale e non era ancora capodanno. Il negozio aveva tutta l’aria di voler rimanere chiuso ma di non potere. Come quando ci si sforza di alzarsi presto la domenica mattina. Gli scaffali erano stati lasciati, forse volutamente, ingombri di scatoloni svuotati a metà dallo shopping compulsivo dei giorni precedenti. Una tragica rappresentazione del nostro irrisolto bisogno di empatia. Il pavimento era stato pulito con lo stesso disinfettante degli ospedali. Alle casse c’era una sola commessa che non si impegnava nemmeno per sembrare annoiata con i suoi 25 anni ed i capelli sporchi raccolti in una treccia stretta e lunga. Poteva essere bella se solo fosse stata un’altra situazione senza quell’uniforme e quell’espressione palindroma. Al mio ingresso era rimasta impassibile. La musica in filodiffusione intanto si interrompeva senza soluzione di continuità lasciando spazio agli annunci delle offerte del giorno. Occasioni su cui non riuscivo a concentrarmi. Ci provavo un istante e la canzone ripartiva lasciandomi lì con la parola che cercavo sulla punta della lingua.
Deglutivo.
Mi avevano invitato troppo tardi ad una cena, per quello ero lì. Avevo girato tra le corsie con la stessa sensazione di quando si rientra dopo un lungo viaggio. Incerto su tutto. Alla fine ero uscito con un panettone scontato ed un calendario omaggio. Mentre si chiudeva la ghigliottina alle mie spalle avevo realizzato che la mia presenza a quella cena era qualcosa di dovuto più che voluto. Come le trattenute sullo stipendio.
Ma lasciamo perdere le amicizie indotte da una questione di latitudine. Succede, è così, ed alla fine ci va pure bene. Non volevo parlare dello schifo di un supermercato il 27 dicembre e tantomeno della riviera romagnola il 15 di agosto. Il proposito era di fare una introduzione pomposa per finire a scrivere delle solite storie a sfondo labilmente sessuale. Racconti che mi fanno sentire meglio e, soprattutto, mi danno una ragione per non alzarmi e girare le pagine del calendario. Un appiglio per non ammettere che il tempo passa e fondamentalmente qua non succede un cazzo. E non tirate sempre in ballo la crisi! Quella parola la dovevo brevettare qualche anno fa. E invece quel giorno non mi sono svegliato.
Perché ero morto.
Ero affondato col Titanic.
Peccato non passasse Shackleton da quelle parti, l’avrei salutato molto volentieri.

mercoledì 11 aprile 2012

Un mese dopo


Ed eccoci ad un altro mese senza niente da ricordare. Senza appunti. Col sapore delle spugne nuove per strofinare le pentole che non si sgrassano dell’Ikea. Ostinandosi a non comprare una lavastoviglie. Solo perché sarebbe scomoda portarla su per questi quattro piani senza ascensore. Una torre d’avorio e vetri taglienti. Un appartamento che ho avuto vivendo di rendita, arredato come un negozio di pornografia intellettuale. Ho pure un giradischi.
Bè mi siedo su questa poltrona da 453 euro e mi ostino in un compito che sento di dovermi imporre. Se non altro per dovere di cronaca. Per lasciare un po’ di materiale ai miei biografi. Su di me voglio un tomo biografico spesso tanto quanto quello di Steve Jobs ma senza fotografie e con più colori. Basta con questo concreto bianco e nero. Voglio dei colori accesi. Qualcosa che dia fastidio agli occhi almeno quanto le mie cateratte. E quindi avanti, mi sforzo a riempire questa cartella di me stesso e mi sembra come riavvolgere i calzetti in filo di scozia su se stessi. Attingo dall’attualità. Da questo avvicendarsi nella mia vita di cerebrolese intellettualoidi: sono le ultime che mi stanno ancora ad ascoltare. L’ultimo eco di luce di una stella che non sapresti dire se ha mai brillato poi così tanto, abbagliato dal sole come sei. Questione di punti di vista. Certo però che queste ventenni hanno ancora un bel culo teso, ma quando aprono bocca sono una recensione della pagina della cultura della Repubblica. Già, la pagina della cultura…
Vabbè, lasciamo perdere. Non vorrei perdere gli ultimi affezionati. Quelli che ogni tanto si scomodano nel cuore della notte ad inviarmi recensioni etiliche di quel libro che ho avuto la malaugurata idea di lasciare pubblicare. Quella cazzo di accozzaglia delle cose più insignificanti che mi potevano essere accadute. Il peggio che  poteva succedermi, il meglio lo tengo per me per il grande momento. Quando mi sentirò pronto alla stesura finale di tutto. Il momento in cui gli Dei recedono…
E sì, mi dico che c’ho sessantun’anni e sarebbe pure ora. Ho avuto del tempo che Amy Winehouse c’avrebbe messo la firma. E non ne esce niente. Come dal cazzo di un povero cristo operato di prostata davanti ad un branco di lesbiche che si leccano a tutto andare. Come in una puntata di Jersey Shore.
Quindi ho scritto questo ed ora non lo rileggo. Non ne ho voglia.
Vado a dormire.
E al massimo mi faccio una sega.