lunedì 22 settembre 2008

Sfogo domenicale

Tre posti di blocco affrontati come un condannato affronta tre volte la gogna e per tre volte viene graziato senza una reale motivazione.
La prima per la faccia d'angelo che porta.
La seconda per qualche motivo oscuro come la notte.
La terza per l'irrefrenabile desiderio di sorpasso di chi gli stava dietro.

Un senso di trasparente disinteresse lo avvolge e lo rende invisibile alla gente. Sparisce tra le pieghe delle coperte mentre fuori il termometro riporta dieci gradi centigradi. Temperatura sotto la media stagionale.

La notte condita da sogni torbidi come una birra di fosso, anzi di più, come cinque, sei birre di fosso. La sensazione di leggerezza dovuta alle bollicine accarezza la schiena e solletica la nausea.
Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra... bum.
Poi, facce nuove, nomi, situazioni, posti e parziali soluzioni. Solo parziali. Sesso con una ragazza che non ha nome, è solo viso: un'entità di capelli corvini, pelle liscia ed occhi d'ebano, denti ed orecchi al posto giusto. La testa diviene un'autostrada ingombra di pensieri con fari accesi e nevrotici clacson urlanti. Contemporaneamente inizia a piovere. Fuori. Progetti importanti sono ad un passo dal cessare di essere progetti per diventare realtà oniriche: come la formazione del GDBU, acronimo di Gruppo Di Ballo Uichis o come la sfida tra bolidi a quattro ruote scoperte su lucidi asfalti al limite del centesimo di secondo con Go Kart noleggiati fuori stagione, quando fa freddo e c'è umido. E molti altri ancora ma forse troppo poco assurdi per essere ricordati e riportati. Vanno solo sognati.
Scintille negli occhi annunciano il giorno. Bruciori e crampi allo stomaco ricordano la sofferenza della vita ed una cena frugale. Un chiodo alla tempia ed un cerchio alla testa richiamano più un gioco estivo da spiaggia che un senso di malessere da reduce dell'esistenza: "Vuoi vivere? Allora soffri!".

Mente locale attivata. Focalizzazione dei significati. Sintonizzazione delle sinapsi sul calendario. La messa è finita, giù dal letto.

mercoledì 17 settembre 2008

23 e 15

Ogni notte la vedevo. La anticipava un cartone per la pizza da asporto e nessun rumore. La intravedevo alla luce di un primo lampione. Sussulti dorati che increspano il buio o piscio di gatto sopra un capolavoro a carboncino: i due volti della notte. Per me era respirare vicino ad un lago di montagna. C’erano i suoi capelli raccolti in una coda e qualche volta abiti scuri. C’era il suo viso capace di sorridere e di incuriosirsi. Occhi che non si potevano vergognare nemmeno nel pianto. Ed il suo camminare semplice. Un piede dietro all’altro. Mi domandavo che odore avesse.
“Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, l’odore è quello del fegato” è sempre stata la mia frase preferita in formato Baciperugina.
Mi incuriosiva quella pelle chiara che si palesava al passaggio sotto le luci. Poi spariva e tornava anonima. Silenziosa. Ogni passaggio di luce era un accordo maggiore: semplice e chiaro. Di una bellezza pura e genuina. Poi sfumava. Il tempo irregolare e morbido del mare.
Quella sera non aveva nessun cartone da pizza con se. Le mani spinte nelle tasche e la testa bassa. Come se piovesse. La grondaia risplendeva di un ghigno ramato e asciutto. Odore di estate. Ritornai alla mia sigaretta.
De Gregori cantava: “…e quanti mascalzoni hai conosciuto e quante volte hai chiesto aiuto ma non ti è servito a niente…”
Ed il fumo mi usciva dalla bocca, lo immaginavo entrare dal naso. Una scena consumata: da nausea. E non riuscivo a fare niente. Bloccato come un uovo sodo mandato giù intero, senza maionese.
Lei passò oltre. Ricordo un piede dentro una Converse All Star Bordeaux illuminato dall’ultimo lampione che riuscivo a vedere. E basta.
Non passò più per quella strada.
O forse mi stancai di aspettarla alla finestra alle 23 e 15.

mercoledì 3 settembre 2008

Storia di me che limono con una strafiga

Tra noi c’era una pirofila di tagliatelle al ragù. Bianca.
La guardai incerto sul da farsi, come in Lilly ed il Vagabondo.
Poteva essere un momento speciale.
Qualcosa di più che una pausa pranzo.
Qualcosa di più che un rapporto professionale.
Qualcosa di più che una relazione scandita da un’ora di inizio e di fine che si ripeteva. Ancora ed ancora ed ancora.
Ad onor del vero c’era un sacco di gente attorno a noi ma la sua visuale dava verso la vetrina. La mia su innumerevoli sguardi attaccati al culo di Antonella appartenenti ad altrettante persone.
L’odore del ragù.
Chiacchiericcio.
Una bottiglia monodose di vino rosso.
Davanti a lei 50 cl di Vitasnella. L’acqua che fa pisciare un sacco. Tecnicamente: favorisce il ricambio idrico.
Una radio lontana. Vicino alla cassa. Prima dell’uscita.
La tovaglia era di carta riciclata. Giallina.
Lei sorrise. Quasi imbarazzata.
Deglutì. Il taglio delle labbra leggermente aperto. Rosa pastello. Gli occhi allungati sembravano ancora più sottili.
Mi costrinsi a non abbassare lo sguardo. La lingua spinta sui denti davanti. Guardai nei suoi occhi. Poi, con la stessa naturalezza con cui si può guardare dentro una telecamera e dire “mi manchi”, le domandai che ci fosse.
Disse che non sapeva da dove cominciare.
Dall’inizio.
Abbassò lo sguardo. Dolce come un gelato Algida.
Ormoni e curiosità erano la mia colonna sonora per il suo monologo.
Avvicinò una mano. Il gomito ben oltre il bordo del tavolo, posato sul piano.
Unghie laccate.
French manicure.
Scene di sesso estremo.
Specchi.
Autoerotismo reciproco.
Vestiti aderenti.
Biancheria minimalista.
Si toccarono le punte delle nostre dita.
Magico come ET l’extraterrestre.
Era sconveniente quello che mi stava per dire.
A seconda dei punti di vista.
Non il mio.
Non il suo.
Forse si riferiva al vasto audience che aveva il suo culo in quel momento.
Non so se ci baciammo prima o dopo la fine del suo discorso.
Le puzzava l’alito.
Ma questo non lo dissi mai ai miei amici.

Iniziammo in silenzio il pranzo con la pasta che nel frattempo si era raffreddata.

martedì 2 settembre 2008

Myspace

Dico a tutti di rifuggire la rete.
Non so come funzioni Facebook.
Non ho un Myspace.
Non ho il Microsoft Messenger che si apre automaticamente all’accensione del PC.
Però.
Controllo compulsivamente la mail ciccando ripetutamente sul tasto invia e ricevi.
Controllo la cartella che si riempie automaticamente di spam. Non si sa mai.
Spesso controllo su Google la fama dei miei conoscenti.
Nella ricerca per immagini di Google trovo sempre più della pornografia che mi serve. Non mi dispiace.
Perdo un sacco di tempo.
Ed ogni tanto scrivo un blog.
Ma non è sempre stato così.
C’è stato un giorno in cui mio padre mi comprò una bicicletta nuova. Rossa e con le marce che si incastravano. Roba d’altri tempi. Mountain bike la chiamavano. La verità è che era talmente pesante che si faceva il doppio della fatica ad andare sul piano. Ed il triplo ad andare in salita. Mi sono levato grosse soddisfazioni solo con le discese. Ero sempre il più veloce. In quei momenti Pippo mi invidiava con la sua BMX gialla. Tra la puzza del fango rappreso e polvere.
Eravamo sempre in competizione io e Pippo. Inevitabile per chi ha gli stessi gusti. Lottavamo per l’ultimo ghiacciolo alla menta, ci allenavamo a fare sorrisi sempre più ampi per la maestra di italiano. E spesso ci battevamo sporcando i vestiti d’erba senza farne nessun vincitore. E le nostre mamme si incazzavano. La mia proibiva la televisione dopo cena. Quella di Pippo non lo seppi mai.
L’orgoglio.
La sfida.
Quella che chiamano amicizia è in realtà una tacita tregua fatta di sottili affondi.
La mia festa di compleanno al McDonalds.
Pippo con i pattini a rotelle.
La collezione degli exogini.
La piramide degli exogini.
Il castello di Grey Skull.
La mia mountain bike rossa.
E poi niente.
Una estate a correre per il cemento cenere sollevando polvere e grilli spaventati. Le rane si provavano in evoluzioni verso l’acqua stagnante del fosso. Poche auto. Molto sole. Giallo e gravido come un brufolo maturo sulla fronte di un quindicenne. Pesante come la peperonata a mezzanotte. Macinavamo chilometri. In tondo. Come gli insetti sui lampioni. Non ci chiedevamo perché. Sapevamo che qualcosa sarebbe successo. Come in quei pomeriggi che viene da grandinare. Come le notti senza sonno. Come il bingo, forse.
E ci furono gare, e magliette sudate.
Poi finì l’estate. Ed io avevo un po’ di nostalgia. Specie quando incrociavo in cantina la mia rossa arrampicatrice. La scuola era normale. Il solito scorrere del tempo insipido come i pasti all’ospedale. Pippo lo incrociavo qualche volta e non parlava molto. Sembrava non gli importasse. Nemmeno quando annunciai di aver completato l’album delle figurine del calcio. Quelle con gli scudetti stampati su carta luccicante.
Roba da urlo.
Lui disse “ah”. E passò oltre. Affrettandosi verso casa.
Ed io lì con il mio album in mano. Con l’acido di un trionfo marcio in bocca. Sfogliando incredulo le pagine perfettamente riempite di adesivi. Avevo ordinato via posta le 3 figurine che mi mancavano. Le avevo pagate mille lire l’una. Da non credere.
E lui si allontanava un passo dopo l’altro.
Così.
Pippo compie gli anni il 27 agosto.
Quest’anno, come molte altre volte, me ne sono ricordato in ritardo. Chiamiamola vendetta.
Il 27 agosto 1989 alle ore 10 e 20 di mattina Pippo entrava in possesso di un Amiga 500. Era una domenica e ad Ozzano dell’Emilia pioveva. Si registrava una temperatura media di 23,4 gradi.
Pippo oggi è molto famoso in internet. Ha anche una pagina su myspace.