lunedì 16 luglio 2012

Stefania


Succede che la gente ci incrocia per un periodo che va dall’attesa davanti al bagno affollato di un pub dove allungano troppo la birra ed arriva fino a parecchi anni. Succede che i momenti che rimangono impressi non sempre ricalcano il tempo investito. Succede che ho dei buchi di troppe notti in cui mi ricordo a conversare con qualcuno ma non riesco a ripetere una sola frase. Ripeto solo il suo nome. E provo a ricordarla per l’effetto che mi lascia in bocca il movimento della mia lingua. Quel nome troppo lungo per non essere abbreviato. Quella storia troppo lunga per continuare. E, ad onor del vero, non è nemmeno una storia molto interessante. Rivedo le poche foto che ci ritraggono assieme e tutto quello che vedo sono due comparse in un film vestiti alla meno peggio con vestiti non proprio di misura.
C’era il sapore della brace che non ci è ancora fatta ed il vento soffiava via l’odore dell’autunno. Che è molto simile all’odore di merda di mucca.
Il periodo che ci frequentavamo era quello delle possibilità, quello in cui potevamo ancora cambiare le definizioni del mondo. Sapevo che non l’avremmo mai fatto però mi accontentavo dell’idea della possibilità. E facevo sempre colazione con un caffè da € 0,25 alla macchinetta automatica anche se non mi piaceva. Mi guardavo attorno e mi sentivo parte di qualcosa. Facevo esattamente quello che ci si aspettava da uno studente universitario a Bologna. Ero in ritardo di 5 esami ed ero convinto, come tutti, che nonostante ciò mi sarei laureato in tempo. Intanto discutevo spesso del più e del meno usandolo come pretesto per una bevuta. Era bello vedere come i più alti discorsi di fantapolitica si trasformassero nel giro di qualche birra in accurate analisi degli attributi più o meno celati delle nostre compagne di corso. Anche allora la cosa ci faceva ridere e brindare nuovamente.
Lei in quei pomeriggi non c’era.
Lei abitava dall’altra parte di Bologna e di giorno non ci vedevamo mai, e forse anche per questo non abbiamo mai discusso. Arrivavo spesso dopo cena e me ne andavo alle 2 o alle 3. Mi sembra che in quel periodo ci fosse ancora il Maurizio Costanzo Show alla televisione con i suoi interminabili ospiti che continuavano ad entrare accompagnati da Demo Morselli al piano.
Quando la salutavo spesso era avvolta nel suo bozzolo di vestaglia consumata ed aveva uno sguardo che due su tre mi faceva sentire fortunato. La baciavo con la lingua impastata di quei discorsi che non ricordo e di quel vino troppo secco. Poi rubavo un respiro da appartamento condiviso e mi chiudevo la porta alle spalle. Una porta pesante e dipinta di marrone alla meno peggio. Spesso dovevo tirare con entrambe le mani per richiudermela alle spalle quasi avesse qualcosa da dirmi e non mi volesse lasciare andare. Poi correvo veloce giù per le scale con gli occhi semichiusi, cercando di essere al più presto fuori di lì. Mi fermavo sotto al portico deluso dalla mia mancanza di opzioni a quell’ora della notte.
Il portico pavimentato con un finto mosaico rifletteva la luce gialla sospesa.
I suoni della città erano quelli di una superstrada timida ed affacciata su uno splendido paesaggio.
Avrei parlato ancora di fantapolitica, ma tutto quello che potevo fare era tornare a casa con il mio motorino che mi accompagnava affettuoso come un braccio sulla spalla.

Oggi ho la sensazione che lei non sia mai esistita.
Il motorino però ce l’ho ancora.