martedì 2 marzo 2010

Cielo

Non capita spesso di guardare in alto. Di solito succede quando si sta sdraiati o appena saliti su una macchina decappottabile. Raramente succede passeggiando. Mai per il centro. Il cielo è una cosa scontata quasi quanto le strade che portano da una località ad un’altra. Il cielo è funzionale a parlare di tramonti e di albe, di sole e di luna. Qualche volta delle nuvole. Cielo è una delle parole che sbagliavo sempre a scrivere a scuola. Il cielo per me è sempre stato corretto a penna rossa e sottolineato due volte. È diventata una parola su cui inevitabilmente mi soffermo. Prescindendo magari dal significato. Cielo spesso identifica Dio od il paradiso.
Oggi stavo passeggiando ponendomi qualche assurda domanda che c’entrava con le otto ore che avevo passato seduto dietro alla scrivania bianca e computer nero che definiscono la mia postazione di lavoro. Guardavo avanti cercando di identificare qualche persona che avrei avuto piacere di incontrare. C’era questa inattesa aria primaverile che sa di birra in lattina bevuta seduti su qualche gradino di una piazza. I miei passi erano semplicemente un modo per prolungare il limbo tra il lavoro e la vita domestica. E non importava che le scarpe mi facessero un po’ male dietro il tallone destro, andavo avanti. Non c’era chiaramente nessuno che conoscessi ma ogni faccia che incrociavo sembrava famigliare e quasi piacevole. C’era una ragazza bionda che inequivocabilmente me ne ricordava un’altra, un ragazzo allampanato che dovevo aver già visto se non qui in qualche viaggio. C’era pure uno che avrei potuto essere io. Anni fa certo. Quando avevo ancora una giacca di pelle. Forse era il brano casuale che suonava dalle cuffie ma tutto sembrava galleggiante. E non importava più nemmeno quella domanda che ostinatamente ripetevo a labbra sottili da quando avevo timbrato il cartellino col mio numero di matricola 761. Sembrava bastasse quello. Mi sorpresi a guardare in alto. Un frangente. Subito sopra ad un lampione lucido con stile retrò c’era un cielo che sceglieva i vestiti per la serata con l’indecisione di una ragazza di diciassette anni. Ed io mi sentivo semplicemente trascinato avanti come si fa quando il cane marchia un territorio che non è suo ma della ruota anteriore della vostra Volkswagen. E come tale ero un po’ indeciso tra l’essere o il diventare. Avrei potuto fare qualsiasi cosa in quel momento. E così sono tornato a casa dopo essermi inciampato su un cartello di cartone che comunicava l’assenza di: lavoro, famiglia, cibo e soldi del proprietario che sedeva poco lontano con una cappello sformato basso sugli occhi.

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