mercoledì 17 ottobre 2012

Chi beve birra campa cent'anni

All’ufficio postale mi siedo accanto ad un tipo sulla quarantina con la barba di una settimana e i capelli arruffati che sembrano un nido d’aquila. Con una giacca in feltro che ha visto tempi migliori e una camicia a quadri da taglialegna canadese, sacco informe verde militare vicino ai piedi, se ne sta immobile in silenzio piegato su un saggio dalla copertina ingiallita. Non so perchè ma da dentro lo stomaco mi sento torcere qualcosa. E’ la stessa sensazione che si prova nella prima fase dell’innamoramento ma in cuor mio ne riconosco una natura completamente diversa. Gli do un colpetto con il gomito per richiamare la sua attenzione e senza nemmeno rendermene conto gli sto già chiedendo “non è che per caso ha insegnato matematica all’Università di Berkeley dal 67 al 69?”.
Serafico alza gli occhi dalla pagina per stamparli sui miei. Mi sento addosso un peso insopportabile. Dopo una pausa di qualche secondo, senza nemmeno un filo di voce o un cenno del viso, torna ad immergersi nella sua lettura.
A quel punto cerco di allontanarmi da quel posto il più velocemente possibile. Sgomito
per raggiungere l’uscita facendomi largo tra la folla scomposta che scocciata mi lancia sguardi incendiari.
Mi fiondo dentro il primo bar che incontro. E' il classico buco lercio di città con le perline scure fino a metà parete, pubblicità di bibite di qualche decennio fa e puzza di aria consumata. Cerco di sbarazzarmi del pallore della mia faccia prendendo una boccata d’aria e infine ordino una birra fresca al cinese senza età dietro al bancone. 

Tiro un sorso di qualche secondo e aspetto pazientemente che una detonazione spaventosa spazzi via qualsiasi cosa si trova nell’arco di una decina di metri intorno all’ufficio postale. Poi si creerà un formicaio di persone intorno all’edificio, da lontano le sirene annunceranno l’arrivo dei Vigili del Fuoco, della Polizia, delle ambulanze, forse dell’esercito e sicuramente un capannello di giornalisti farà a gara per contendersi le prime testimonianze filmando il dramma riflesso negli occhi dei superstiti.
Mi ritrovo a chiacchierare con non-so-chi seduto a un tavolo malfermo con un pezzo di cartone sotto una gamba e una selva di bicchieri vuoti sopra. Ormai si è creato un clima molto familiare intorno a me: uno fuma un filtro di sigaretta spandendo in ogni dove odore di copertone bruciato
fragandosene bellamente del divieto alle sue spalle, un altro sta buttato con la testa sul bancone e le braccia penzolanti nel vuoto in attesa che San Pietro gli dia un calcio nel culo per spedirlo all’inferno mentre altri due loschi individui si ostinano a volermi coinvolgere in una questione che non riesco nemmeno a mettere a fuoco.
Mi caccio in gola l’ultimo sorso di birra rimasta nel bicchiere e fisso il soffitto per qualche minuto. Le pale immobili di un ventilatore secolare si piegano sotto il peso di troppa polvere e una macchia di umidità disegna una lingua di lava che scende fino a metà parete per poi nascondersi dietro il legno gonfio. Una luce al neon dolcemente tremolante ci piove addosso come nebbia leggera mentre un odore di cibo cinese si mischia all’aria viziata del locale.
Mi infilo una mano in tasca e, come dalla cesta di una riffa di paese, estraggo una mezza dozzina di bollettini postali non pagati. Pessima pescata! 

Butto gli occhi oltre l’unto della vetrina e scopro che la notte è calata sulla città. Schivo i fanali delle auto scintillanti che si rincorrono sul viale e arrivo a mettere a fuoco l’ufficio postale perfetto e completamente integro dall’altro lato della strada. Deduco che non c’è stata alcuna detonazione. Nessun attentato dinamitardo ha spazzato via quel maledetto ufficio e tutto quello che ci stava dentro.
Probabilmente si è inceppato l’innesco, oppure l’umidità ha bagnato l’esplosivo o ancora l’attentatore si è ricreduto e ha deciso di non compiere più quel gesto ignobile che aveva programmato. 

Il mio alibi pian piano inizia a perdere pezzi strutturali e comincia inesorabilmente a sgretolarsi. So con certezza che di quell'alibi in pochi secondi non mi resterà che un cumulo fumante di niente.
Fatto sta che la birra è nuovamente finita.
L’orologio impietoso mi scarica addosso tutto il peso delle undici di sera. Nella testa mi si aggrovigliano covoni di prospettive nefaste complicando la situazione e moltiplicandomi i sensi di colpa. Provo a ragionare per trovare una soluzione ma nella mia testa i pensieri si rincorrono senza arrivare da nessuna parte.
Sono in giro dal pomeriggio per pagare bollette, multe e l'iscrizione ad un cazzo di esame di stato ma dopo sette ore, come del resto negli  ultimi trent'anni, non ho concluso nulla. Niente. 

Il mio sguardo si muove spasmodicamente per tutto il locale in cerca di una via d’uscita, di un appiglio. Il terreno sotto i piedi comincia scottare, poi a tremare e infine si crepa lasciando che un abisso spalanchi le sue fameliche fauci in attesa di inghiottirmi. 
Non ho mai creduto nei Supereroi ma adesso è giunto il momento di cominciare a farlo. Non mi resta altro che sperare nell’intervento di uno di loro, uno qualsiasi; mi basta solo che abbia dei maledetti superpoteri in grado di portarmi fuori da queste sabbie mobili affamate.
Quando la porta del bar si apre un refolo di aria gelida si insinua nelle mie ossa lasciandomi addosso un capotto di brividi. Istintivamente alzo le spalle come per proteggermi da un freddo polare improvviso.
Qualcuno si avvicina al banco e con un filo di voce ordina un Wild Turkey, doppio.
Molto cinematografico, lo ammetto.
Sento dei passi avvicinarsi alle mie spalle. Sono suole di gomma ormai talmente secche che fanno, sulla vecchia graniglia del pavimento, lo stesso effetto del cuoio. La vagonata di birre di questa serata mi offusca la vista e mi irrigidisce l’udito. Avverto però nitidamente l’odore fresco di resina e aghi di pino del Montana inebriarmi le narici. Posa un sacco verde militare, prende la sedia accanto a me, si toglie platealmente la giacca in feltro e l’appende allo schienale prima di lasciarsi cadere pesantemente. Si porta il bicchiere alle labbra e ne prende un piccolo sorso assaporandone l’aroma. Non gli lascio il tempo di portare a termine la sua recita perchè ho un fardello di problemi sulle spalle e una gran fretta di uscire di scena.
Mi alzo un pò malfermo sulle gambe e, minacciandolo con un indice inquisitore che non mi appartiene, ho appena il tempo di sbrodolargli addosso qualcosa del tipo Theodore John Ted Kaczynski, maledetto montanaro luddista dei miei stivali, oggi hai fatto l’errore più grosso della tua vita ma credimi, te ne pentirai.
Poi le palpebre calano sui miei occhi come un pesante sipario mentre le luci si abbassano celebrando la fine dello spettacolo.

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