mercoledì 3 ottobre 2012

Print your life

Oggi è il primo ottobre e la mia vita sta implodendo come un vecchio palazzetto del ghiaccio abbandonato. Mi sento come una scia d’aereo che nel cielo si disperde lentamente fino a confondersi completamente tra il silenzio delle nuvole. Il vino brucia tutta la notte anche se poi la mattina rimane sempre la stessa, terribilmente intatta.  
Laura non si è nemmeno voltata a buttarmi i suoi occhi ghiacciati per l’ultima volta prima di attraversare la strada. Io invece l’ho inseguita con lo sguardo fino all’ultimo, quando l’autobus l’ha inghiottita prima di rombare via lontano da me.
Poi più niente. Il suo profumo, il suo calore e la sua voce si sono annullati nei miei pensieri come se non vi fossero mai entrati e da condannato mi sono buttato nell’indifferenza generale di milioni di persone tutte uguali, luci oblique, odori limpidi e sentimenti asettici. Un bagno gelido di solitudine mi ha investito nell’immensità di questa città ancora estiva.  
Ho buttato gli occhi al cielo senza vedere niente, solo minacciose nuvole di bambagia immobili e tracce in dispersione: segnali che non so interpretare. Passo dopo passo sono tornato verso la concretizzazione del mio dolore. Nessun nome in testa, nessun viso nella memoria, solo sconosciuti intorno a me e cemento, ferro e vetro, plastica e niente più. Bottiglie opache buttate per strada come i ricordi di un ubriaco, cocci di amori infranti abbandonati in ogni dove e polvere, solo un sottile strato di polvere a coprire ogni cosa.
Poi un flash improvviso e davanti agli occhi un autoscatto di qualche anno fa.
Ci ritrae insieme, sorridenti con la faccia coperta per metà dai capelli, i suoi. Soffia un vento forte dal mare che alza milioni di finissimi granelli di sabbia e sparge un odore salmastro ovunque. Un fresco sole tardo primaverile, un anonimo lungomare alberato, qualche signora ancora infagottata a passeggio e i nostri occhi pazzi, strizzati e felici. Vent’anni di fantasie, milioni di sogni e un tappeto di possibilità si srotolano ai nostri piedi, e noi, ebbri di vita e padroni di un nuovo mondo, ci lanciamo spensierati sulle dolci note di mille desideri urlando per la gioia fino a sputare le tonsille dal finestrino dell’auto lanciata a tutta velocità tra le braccia del destino.
Era il 2 giugno, non potrò mai dimenticarlo, quando qualche ora dopo lo scatto di quell’istantanea, quel che restava di mio nonno se ne andava per sempre in una camera da letto scura, triste e anonima mentre io convincevo Laura a concedersi a me in una vecchia stanza presa in affitto con due soldi.  
Ricordo l’odore di muffa che impregnava le lenzuola umide, le pareti irregolari e gonfie vecchie di secoli con volte in mattoni, il pavimento di gelido cotto scuro usurato e crepato che faceva dondolare il letto, la finestra ammalorata affacciata sulla strada e i raggi di sole che filtravano dai vetri per andare a baciare la sua pelle liscia e profumata perfettamente sagomata distesa accanto a me. Un sogno in tre dimensioni che potevo accarezzare e assaporare. E la presenza pesante di quel povero vecchio crocifisso cupo appeso sopra la porta d’ingresso a monito di un qualcosa che solo in seguito ho colto: l’inizio di qualcosa coincideva con la fine di qualcuno. Quasi avessi pagato con un quarto del mio sangue il prezzo della felicità di quel momento.
Poi il veloce susseguirsi a ritroso delle stesse stagioni, dei medesimi posti, volti e sensazioni in una sconcertante normalità. Una vita fatta di giorni che iniziano con il bruno tramonto per terminare con fumose albe scure condite da luci ed ombre, grasse risate e lacrime amare: niente di più di una normale intensa quotidianità condivisa in ogni suo attimo.
E la lenta presa di consapevolezza di questo inesorabile ritorno, la sua persona che mi sfugge lentamente, mi si allontana giorno dopo giorno impercettibilmente fino a trovarla distante anni luce, accanto a me, nel nostro letto comodo con le lenzuola pulite e profumate. Le persiane chiuse al giorno, i singhiozzi masticati e le tracce di sale delle lacrime asciugate. Quel silenzio insistente e pesante, quelle parole spigolose e ruvide al posto delle carezze e dei sorrisi solo accennati, i più dolci. Le vene che gonfiano di rancore le soffocanti e tediose giornate che si srotolano intorno alle nostre vite ormai lontane.
Infine le porte del bus sbuffano e lei si confonde tra la gente.

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