lunedì 8 settembre 2014

I soliti posti, la solita gente. Troppo presto.

Succede che ti trovi in un posto dove sei stato mille volte. Dove non c’è la cucina ma l’odore di cibo è persistente. Sa di affettati e di cantina. E vino rosso scordato aperto e birra. E di gente che lascia le chiacchiere in sospeso perché erano solo una scusa per intervallare le loro sorsate frenetiche. Cercando di rilassarsi istericamente. Controllando il cellulare, escludendosi da una vita che in fondo affermano di cercare. Bevendo troppo fino a vomitare. O a svegliarsi la mattina con la pancia piena di aria compressa e mentine improvvisate al solo scopo di salvare la patente. Leggende metropolitane di cui ti sei autoconvinto in fondo. Come tutto il discorso sulla qualità della vita e quello che ci aspettiamo dal futuro. E la capacità di adattarsi. Accontentarsi. Che ti sta stretta e poi ti pugnala nel cuore della notte quando inciampi per le scale che ripercorri ancora e ancora trascinato dai ricordi e passi di danza che fatichi a ricordare fedelmente. Un film restaurato che sembra troppo nuovo. E altri spunti che appartengono a un'altra vita. E a jeans consumati al punto che non puoi più indossare. Ma di cui ancora non riesci a fare a meno.
E quindi la notte ti scorre tra le gambe come un inatteso getto di inchiostro tra le gambe di una seppia. Timido prosegui, convinto che per te ci sia in serbo qualcosa di grande. E ti guardi attorno che ti gira la testa. E ti tornano in mente le filastrocche. Provi a sorridere, tornare indietro.
Poi qualche pezzo di te ritorna a casa e si rende conto che non sei ancora riuscito a eliminare il suo nome tatuato sul campanello.

E lasci tutto sbattendo la porta alle spalle.

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